STORIA ROMANA


I SEVERI E LA MILITARIZZAZIONE DELL'IMPERO

I - II - III - IV - V

2) Il principato di Settimio Severo (193-211)

A. Le guerre civili

Una prova evidente dell'accresciuto potere degli eserciti la si ha se si considera la situazione che fa seguito alla morte di Commodo (192), ovvero la lotta per la conquista della carica imperiale.

E' ormai evidente infatti, come gli aspiranti imperatori debbano passare tutti attraverso le 'forche caudine' dell'approvazione e del sostegno dell'esercito (quantomeno di una parte di esso), per potere sostenere una competizione divenuta oramai essenzialmente militare e monetaria.

Settimio Severo

I pretendenti alla carica suprema sono in questi anni di due tipi: il primo è quello degli italici (Pertinace e Didio Guiliano), ovvero coloro che provengono da regioni che da sempre - per tradizione consolidata - forniscono all'Impero i quadri della classe dirigente.

Essi, per ottenere il titolo augusto, debbono essenzialmente 'comperare' con consistenti donativi la fedeltà dell'esercito dei pretoriani.

Il secondo tipo invece è composto da militari provenienti da regioni più periferiche. Questi ultimi - sostenuti dagli eserciti provinciali, ovvero dalle proprie legioni (ad essi associate da legami di fedeltà, oltre che da interessi politici contingenti) - tentano un'affermazione a livello internazionale. Essi sono: Clodio Albino (comandante delle legioni della Britannia), Pescennio Nigro (comandante delle legioni siriache) e Settimio Severo (comandante delle legioni danubiane, e futuro imperatore).

Questi gli eventi principali della lotta per il potere: nel 192, alla morte di Commodo, è Pertinace ad acquisire il titolo imperiale; solo tre mesi dopo, Didio Giuliano (altro italico) riesce a farlo eliminare dai pretoriani (con la promessa di larghi donativi) e a prenderne il posto; contemporaneamente però si sono creati nelle province anche altri aspiranti imperatori (Albino, Nigro e Settimio) i quali minacciano d'arrivare fino a Roma e prendere di prepotenza il posto di Giuliano.

Sarà Settimio Severo (193) a compiere per primo tale mossa, e a farsi incoronare princeps dal Senato (dopo essersi assicurata la fedeltà dell'esercito del pretorio).

I quattro anni seguenti egli li passerà a lottare contro i propri rivali e i loro sostenitori, condizione indispensabile per divenire realmente imperatore unico: nel 194 sconfigge così il suo rivale a oriente, Nigro, il quale ha cercato e trovato contro il proprio nemico l'alleanza dell'ultimo sovrano partico, Vologese IV (fatto questo che costringe Settimio a riprendere la politica aggressiva contro le zone orientali: ovvero a riconquistare - ancora una volta - la Mesopotamia trasformandola in provincia, eguagliando così le imprese belliche dello stesso Traiano!).

Nel 197 infine Settimio sconfigge e elimina nelle regioni galliche anche il suo secondo avversario, Clodio Albino (generale delle truppe britanniche), divenendo finalmente sovrano a tutti gli effetti e inaugurando una nuova dinastia: quella dei Severi.

B. Statizzazione e militarizzazione dell'Impero

1 - Onnipervasività dello Stato sotto Settimio

Per comprendere le scelte politiche di Settimio Severo, è necessario tenere presente la trasformazione (già brevemente descritta sopra) che ha subito l'Impero sia negli anni del suo principato, sia nei decenni immediatamente precedenti.

Tali trasformazioni riguardano essenzialmente: i poteri sempre più accentuati degli eserciti; l'influenza sempre maggiore (sia a livello economico che politico) dei latifondisti all'interno della società; l'ampliamento, più o meno in tutte le zone dell'Impero, delle fasce di povertà.

Il tutto converge nel determinare la fine di quell'armonia tra i ceti ricchi e lo Stato, nonché tra questi e le masse degli indigenti ossia dei ceti parassitari (sempre meno tutelati, per forza di cose), e con essa l'inizio dello scollamento tra le istituzioni imperiali e le reali forze produttive, nonché più in generale tra tali istituzioni e il reale tessuto sociale di cui è composto l'Impero.

E' in questa situazione di graduale - ma inesorabile - allontanamento tra lo Stato e l'effettiva vita sociale dell'Impero, che prende corpo e si afferma la tendenza verso l'onnipresenza e l'onnipervasività dello Stato nei confronti di quest'ultima.

Ed è altresì chiaro come un tale atteggiamento costituisca un tentativo di reazione a uno stato di cose - quello descritto sopra appunto - che in realtà resta per se stesso difficilmente superabile.

La politica di Settimio Severo avrà infatti come obiettivi principali: da una parte quello di fare affluire maggiori entrate nelle casse dello Stato (a spese soprattutto, data la loro ricchezza, dei ceti latifondistici) e mantenere quindi finanziariamente sia gli eserciti sia gli apparati dell'amministrazione imperiale (entrambe realtà in costante crescita); dall'altra di contenere l'avanzamento politico della grande proprietà, mantenendo viva inoltre la fedeltà ai valori e alle istituzioni dell'Impero nella popolazione, in particolare nelle classi medie.

Per raggiungere tali obiettivi, Settimio perseguirà una politica di penetrazione e di controllo sempre più capillare all'interno della società romana, non escludendo in una tale opera nemmeno (anzi…) alcuni aspetti di natura economica e produttiva, rimasti fino ad allora appannaggio esclusivo dei privati cittadini.

- La politica economica

Gli anni del consolato di Settimio Severo conoscono un livello di statizzazione dell'economia quale mai era stato raggiunto in precedenza: soprattutto l'economia agraria conosce in questo periodo un vero e proprio imprigionamento nelle maglie della burocrazia statale attraverso l'azione di funzionari che - seppure spesso fondamentalmente inesperti e incapaci di una gestione efficace - possono per mandato imperiale deliberare su di essa.

E' in atto dunque - da parte di uno Stato sempre più centralizzato - un processo di accentramento di quelle forze produttive che stanno alla base dell'economia imperiale: processo che, anziché rafforzarle, non farà che indebolirle, contribuendo così ad accelerare il collasso economico e politico dell'Impero nel terzo secolo.

Senza contare il fatto che tali misure, assieme ad un'accresciuta pressione fiscale (è del principato di Settimio l'istituzione di una nuova e gravosa tassa finalizzata al mantenimento degli eserciti: l'annona militare, che colpisce soprattutto i grandi proprietari), contribuiscono notevolmente a guastare i rapporti tra lo Stato e i ceti latifondistici e nobiliari, essendo anzi il principale motivo alla base dell'interruzione delle loro buone relazioni.

- I 'collegia'

Sorti nel secondo secolo, come espressione degli interessi delle classi medie, i 'collegia' conoscono in questi anni un ulteriore sviluppo.

Ma cosa sono i 'collegia'? Essenzialmente associazioni di categoria (ovvero associazioni professionali, da alcuni studiosi paragonate, a torto o a ragione, alle corporazioni medievali) oppure associazioni giovanili, agenti essenzialmente a livello municipale.

Tali associazioni, se da una parte favoriscono l'affermazione politica delle classi medie e dei ceti meno abbienti - contrastando così il tradizionale predominio politico all'interno dei municipi delle classi più ricche, cioè dei latifondisti e degli equestri -, dall'altra rinsaldano l'alleanza ideologica e politica tra ceti medi e Impero (avendo tali istituti origine da quest'ultimo, ed essendone inoltre finanziati).

Dal punto di vista dello Stato quindi, i 'collegia' sono essenzialmente uno strumento di penetrazione e di controllo del tessuto sociale, ragione per cui Settimio ne incrementerà la presenza.

E' da notare poi come queste istituzioni siano - come già si è accennato - di due diversi tipi: il primo è costituito dalle associazioni professionali (ad esempio quelle dei mugnai, o dei tessitori); il secondo invece è costituito dai 'collegia iuvenis', associazioni finalizzate all'educazione della gioventù (attraverso incontri, tornei, ecc.) ai valori della società imperiale e volte a coltivarne l'affezione e la gratitudine verso lo Stato.

[Si ricordino a questo proposito - come un precedente - le 'alimentationes' istituite da Traiano, anch'esse finalizzate a coltivare la futura classe media - burocratica - dell'Impero].

- La riorganizzazione dell'Impero

Sono due essenzialmente le coordinate dell'azione imperiale nei riguardi dell'amministrazione interna: da una parte vi è la tendenza verso una parificazione tra tutte le regioni dell'Impero (in altri termini a trasformarle tutte - Italia compresa - in mere province imperiali), dall'altra la tendenza verso il livellamento politico e giuridico di tutti i ceti sociali (nobiliari, cittadini, popolari…) nei confronti dell'autorità e delle istituzioni imperiali.

Entrambi questi orientamenti sono indirizzati ovviamente a rafforzare l'autorità e il potere dello Stato e dell'Imperatore: l'uno attraverso un'azione di decentramento amministrativo che comporta l'abolizione di molti dei privilegi tradizionali degli Italici (ad esempio quelli militari), l'altro invece elidendo le prerogative politiche dei ceti più ricchi (i quali, a causa dei propri poteri economici e politici, sono potenzialmente più pericolosi per l'autorità statale).

Inoltre, crescendo il raggio d'azione delle istituzioni statali, cresce parallelamente anche l'esigenza di creare un'organizzazione più efficiente e articolata a livello amministrativo.

Per tale ragione, un peso sempre maggiore finiscono per rivestire all'interno degli apparati imperiali gli uomini di legge (un esempio del rigoglio nel campo degli studi giuridici durante il periodo dei Severi ce lo fornisce Papiniano, famoso giurista e prefetto del pretorio sotto Settimio).

Ma accanto alla tendenza verso l'estensione e l'ingigantimento degli apparati statali, possiamo scorgerne un'altra - a essa complementare - in direzione di un accentramento personalistico dei poteri (soprattutto di quelli finanziari) nella figura del principe. Un doppio movimento, insomma: dal centro verso la periferia, e da questa verso il centro.

Principale espressione di questo secondo aspetto saranno - come vedremo tra poco - le riforme finanziarie.

- La riorganizzazione delle finanze

Tra tutte le riforme strutturali messe in atto da Settimio, la più importante è senza dubbio quella riguardante l'organizzazione delle finanze imperiali.

Tale trasformazione comporta un accentramento quasi totale del patrimonio statale nelle mani del princeps, accentramento che riduce ciò che prima era 'fisco', cioè patrimonio dello Stato, a un bene personale (res privata) del sovrano.

E' dunque evidente, qui come altrove, come sia in atto all'interno dell'Impero uno sviluppo in senso 'orientaleggiante': se da una parte infatti ogni bene dello Stato tende a divenire sempre di più un possesso privato dell'Imperatore [si ricordi, ad esempio, che in Egitto il Faraone resta legalmente l'unico proprietario di tutti i beni], dall'altra anche la crescita costante degli apparati burocratici tende a rafforzare l'autorità di quest'ultimo su tutte le regioni sottoposte al suo dominio.

Ma vi è anche un altro punto che rende la politica finanziaria di Settimio Severo anomala - quantomeno rispetto ai decenni precedenti -, ovvero la tendenza a cercare di accrescere, sistematicamente e in tutti i modi possibili, il patrimonio finanziario dello stato (il quale peraltro, si identifica oramai con il capitale finanziario personale dell'Imperatore).

Le fonti di arricchimento dello Stato sono essenzialmente tre:

  • la prima è una presunta adozione del nuovo imperatore da parte di Marco Aurelio, attraverso la quale Settimio se da una parte si pone fondamentalmente il come continuatore dell'opera di governo degli Antonini, dall'altra incamera in una volta sola tutte le sostanze da essi accumulate sin dai tempi di Nerva;
  • la seconda è la pratica (oramai di lunga tradizione) delle confische ai danni della nobilitas e dei proprietari terrieri;
  • la terza infine sono le confische dei beni fatte ai suoi due nemici e concorrenti per il titolo imperiale, Nigro e Albino, alla vigilia della loro morte.

Con tali misure Settimio arriverà ad accumulare un capitale finanziario che non ha eguali nel mondo classico, ma che - questo ci fa riflettere - non basterà in ogni caso da solo a colmare la richiesta di danaro da parte dello Stato, costringendo quest'ultimo ad aumentare la moneta circolante con inevitabili risultati di carattere inflattivo.

L'organizzazione imperiale sembra quindi regredire, in questi anni, verso forme personalistiche di potere che ricordano quelle che hanno caratterizzato il declino della Repubblica e i primi decenni dell'Impero.

Tali cambiamenti però, sono espressione della volontà dell'Imperatore di contrastare la tendenza in atto all'interno della compagine imperiale verso la frantumazione, attraverso misure di tipo centralistico e personalistico di segno opposto.

2 - Il rafforzamento degli eserciti

Anche Settimio - come molti imperatori prima di lui, tra i quali ad esempio lo stesso Traiano - ha origini militari. E anche lui, come gli altri, non smentirà tali origini con la propria azione di governo.

Le principali imprese belliche di Settimio saranno tre: le prime due si collocano negli anni iniziali del suo principato, l'ultima invece in quelli finali.

Delle due imprese iniziali, quella contro Nigro in Oriente (194) e quella contro Albino in Gallia (197), è senza dubbio la prima quella più degna di essere ricordata: con essa difatti l'Impero arriva a conquistare alcune zone della Mesopotamia rimaste estranee persino alla conquista traianea, e per di più con minor dispendio sia di mezzi che di tempo.

Ma le campagne orientali sono importanti anche per altre ragioni. Con esse ha inizio infatti: a) la pratica di arruolamento di ausiliari locali (Arabi, Parti, ecc.) nelle milizie imperiali, in altri termini l'impiego dei Barbari contro i Barbari che caratterizzerà la strategia romana fino alla caduta; b) la creazione di tre nuove legioni (segno evidente delle accresciute esigenza difensive); c) un'ulteriore apertura degli eserciti, anche nei gradi superiori, a personaggi appartenenti all'ordine equestre anziché a quello nobiliare.

Sotto Settimio dunque, assistiamo a una consistente crescita quantitativa degli eserciti e del loro peso (anche politico) all'interno della società romana.

E le spese per il loro mantenimento saranno una delle principali cause del deficit dello Stato (e ciò, come si è detto, nonostante le modifiche subite dalle finanze imperiali in questi anni), portando tra l'altro il fenomeno inflazionistico ad un livello mai raggiunto prima (la presenza di argento nel denario, la moneta romana, arriverà in questi anni a toccare il picco negativo del 42%).

Nel 208 Settimio si trasferisce, assieme ai suoi due figli Caracalla e Geta, in Britannia, dove combatte contro i Caledoni per l'annessione della Scozia. Le campagne non si riveleranno un gran successo, pur concludendosi con una vittoria romana.

Nel 211, sempre in Britannia, Settimio muore. Sul letto di morte egli consiglierà ai propri figli, futuri imperatori, di compiacere soprattutto gli eserciti, largheggiando in stipendi e in donativi.

Un consiglio che, infondo, è il suggello stesso della sua politica: una politica incentrata attorno all'idea di uno Stato forte, capace di 'tenere saldamente in pugno' la situazione sia dentro che fuori dai confini, e la cui principale risorsa sono - in ultima analisi - proprio gli eserciti!

C. La crisi del sistema schiavista

Si è già accennato a come, in realtà, non sia soltanto l'aumentata pressione fiscale (dovuta essenzialmente alle accresciute esigenze militari) la causa dell'impoverimento dei ceti medi e bassi nonché, in generale, di un po’ tutta la popolazione dell'Impero.

Vi sono difatti anche altri e più profondi motivi alla base della crisi del mondo romano, motivi di ordine produttivo.

L'economia antica è un'economia schiavile. Essa ha nella schiavitù la sua vera (se non l'unica) forza-lavoro, essendo lo schiavo una sorta di "macchina-umana", priva di qualsiasi (anche del più elementare) diritto, utilizzabile quindi dal padrone nei modi più svariati e senza alcuna limitazione di sorta.

A livello produttivo, l'utilizzo di maggior rilievo degli schiavi è quello agricolo. E infatti - come si è già detto più volte - la produzione agraria è la base stessa di tutto il sistema economico imperiale.

Il ricambio continuo di schiavi, dovuto alle frequenti guerre di conquista romane in terre straniere, garantisce all'economia imperiale, almeno fino a un certo momento, l'afflusso di sempre nuova linfa aumentando o quantomeno impedendo una diminuzione della produttività.

Ma quando, raggiunti i suoi limiti estremi, l'Impero sarà costretto per ragioni strutturali a rinunciare ad ulteriori espansioni territoriali (ciò da cui deriverà una drastica diminuzione di manodopera schiavile), le sue capacità produttive finiranno per esserne pesantemente compromesse.

Sarà appunto una tale diminuzione, assieme alle aumentate spese per il mantenimento dello Stato e degli eserciti, una delle principali cause del tracollo economico del III secolo!

Ma le nefaste conseguenze della diminuzione della forza-lavoro schiavile colpiscono inevitabilmente più la piccola e la media proprietà rispetto alla grande.

Anche se infatti, come è ovvio, un tale fenomeno riguarda tutta la produzione agricola, sono tuttavia i piccoli e i medi produttori - in quanto più vulnerabili di fronte ai mutamenti del mercato - a patire maggiormente queste trasformazioni, ciò che li porta a riversarsi nelle grandi proprietà fondiarie alla ricerca di un più solido rifugio.

Viceversa, le grandi proprietà riusciranno a rimediare alla carenza di manodopera schiavile accogliendo questi nuovi soggetti, provenienti peraltro non solo dalla piccola e dalla media proprietà agraria, ma anche dalle città.

Inizia, in questi anni, il processo di formazione della classe dei 'coloni', ovvero di quella classe che nei secoli futuri finirà - attraverso un lento processo che culminerà con la formazione dell'economia feudale - per sostituire quella degli schiavi.

E diviene inoltre col tempo sempre più visibile lo svuotamento delle città (dovuto, in massima parte, alla stagnazione dei traffici), così come l'ampliamento dei latifondi e il diffondersi in essi dell'economia 'colonica'.

Non bisogna credere però, che - sotto i Severi - un tale processo conosca già il suo apice. Al contrario, in questo periodo l'economia di scambio è ancora molto florida, soprattutto in alcuni settori.

E tuttavia è indiscutibilmente già in atto quella trasformazione (le cui basi per altro sono state poste proprio nel 'periodo aureo', quando l'Impero avendo toccato i suoi limiti espansivi ha bloccato il proprio processo di dilatazione) che gradualmente porterà a un rovesciamento della situazione, a vantaggio delle forze particolaristiche e locali, e a svantaggio dello 'Stato sovranazionale' romano.


1) La fine dell'Età aurea
3) Caracalla (211-217) e la cittadinanza universale
4) Il breve regno di Elagabalo (217-222)
5) Alessandro Severo (222-235) e la ripresa della politica senatoria
Adriano Torricelli

Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Storia
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Aggiornamento: 11/09/2014