LA STORIA ANTICA
dal comunismo primitivo alla fine dello schiavismo


Un segreto dialogo
(Considerazioni sulla scrittura degli etruschi)

Pier Paolo Vaccari

La scrittura etrusca è erratica: la prima caratteristica saliente, che noti e ti stupisce, è questa; essa sembra inoltrarsi sulla superficie dove è tracciata senza un preciso indirizzo, senza alcun rigore formale.

Scritture appartenenti a popoli più antichi appaiono ordinate e precise, occupando lo spazio loro assegnato in maniera regolare e composta, con senso rigoroso delle proporzioni e armonia compositiva.

Questa no, non segue alcuno schema, non si lascia inquadrare in spazi definiti, si sviluppa liberamente, senza preoccupazioni grafiche; sembra scritta così come viene, le lettere ora grandi, ora piccole; gli spazi fra le stesse non tutti uguali.

La tentazione è di considerarla primitiva; ma come si concilia tale ipotesi con la condizione per altri versi assai evoluta di quella società e i rapporti costanti con altri popoli di consolidata e gloriosa tradizione?

Sembra opportuno soffermarci sul significato del passaggio da una cultura orale ad una scritta. Esso risponde in generale a due esigenze precise: trasmettere messaggi all’esterno e costituire base documentale valida e univoca per il presente e per i posteri.

In entrambi i casi è necessario un presupposto: chi scrive deve porsi almeno in parte al di fuori dell’ambito nel quale avvengono i fatti descritti, rappresentandone una sorta di mediazione che li renda intelligibili all’esterno della comunità e ai posteri.

Processo che configura un’istanza di razionalizzazione.

Infatti all’interno della comunità, o del clan, la comunicazione di norma privilegia contenuti emozionali e qualitativi; è solo quando si attraversano i confini, e ci si pone mentalmente al di fuori di un certo ambito, guardando i fatti dall’esterno, è allora che ciò che prima si presentava con una connotazione esclusiva e totalizzante acquista un carattere relativo, numerico, razionale.

Il passaggio dalla lingua parlata a quella scritta, inoltre, proprio in quanto condizionato da evidenti ragioni di semplificazione e schematizzazione, comporta di noma anche una perdita consistente di valori espressivi.

Per chiudere il quadro si può anche osservare come la lingua scritta a sua volta finisca per influenzare la lingua parlata, assimilandola a sé, vale a dire imponendole quelle medesime semplificazioni da cui essa stessa era nata.

Ebbene, qui si avanza l’ipotesi che tale processo, nella sua completezza, per gli etruschi non sia mai avvenuto; che cioè la loro cultura sia rimasta sempre essenzialmente una cultura orale, nella quale la scrittura ha conservato un ruolo secondario, per così dire di complemento, senza mai ambire a travalicare  l’ambito del clan di provenienza.

Un popolo quindi d’analfabeti; nel senso più aristocratico ed esclusivo del termine.

Da molti si sostiene invece che l’essere pervenute a noi così poche scritte etrusche non significhi affatto che gli etruschi abbiano davvero scritto pochissimo, ma solo che la loro letteratura sia andata perduta con la fine di quella nazione.

Nessun reale supporto sembra però confortare una tale opinione, se non una sorta di vocazione all’auto-assimilazione, così forte presso gli etruscologi, sempre propensi chissà perché a mettere l’accento sulle somiglianze con la nostra cultura, piuttosto che sulle differenze.

Ora, è vero che da fonti latine si apprende dell’esistenza di alcuni testi di storia etrusca e di religione; ma da qui a parlare di letteratura ci corre; troppo poco per cambiare la sostanza della nostra opinione, anche perché tali testi possono benissimo aver svolto un ruolo interno al clan e ai suoi riti, senza con questo arrivare a costituire un vero e proprio tramite culturale.

La storia etrusca non si perde nella notte dei tempi; essa è contemporanea ad altre fiorenti civiltà, dalle quali ci sarebbe comunque pervenuta notizia di un eventuale consistente corpus letterario e documentale; e con le quali invece non risulta da parte degli Etruschi essere avvenuto alcun vero scambio culturale.

Infatti attraverso i canali commerciali e poi direttamente da fuorusciti greci, pervenne agli Etruschi l’illustrazione dei grandi miti di quella cultura, nonché ogni altro genere di notizie; ma non pare vi sia stato analogo flusso di informazione in senso inverso, neppure embrionale e generico, se addirittura risulta sconosciuta al mondo greco l’esistenza stessa di una città popolosa e ricca come Vulci, fra l’altro primario emporio della stessa produzione attica di vasellame.

Isolati e orgogliosi, pronti a carpire ma restii a darsi, gli etruschi erano interessati ad accogliere quanto di meglio poteva venirgli dal resto del mondo; ma che comunque per loro doveva sempre rappresentare qualcosa d’accessorio, di complementare, di fronte al sancta sanctorum della propria identità culturale, che si concentrava nel soprannaturale, e che non poteva essere oggetto di scambio.

Se l’analisi è corretta si può supporre che il rapporto individuo-clan-divinità fosse presso quel popolo così esclusivo da assorbire in sé ogni e qualsiasi reale necessità di comunicazione, rendendo di fatto secondario l’uso della scrittura, che, come detto, rappresenta intrinsecamente un mezzo di diffusione delle conoscenze.

La loro società non poteva considerare la scrittura un elemento necessario alla convivenza, perché di fatto non lo era.

Ne deriva che le scritte etrusche, private di una reale funzione comunicazionale, vedono straordinariamente potenziato il loro valore simbolico e formale.

Esse sembrano vivere una propria vita, occupando lo spazio con grande libertà e indipendenza.

Nelle figurazioni dipinte o incise su vasi e specchi non esitano a collocarsi in mezzo ai protagonisti della scena, a svilupparsi sinuose fra i personaggi di cui dichiarano l’identità come un loro naturale completamento descrittivo e formale.

Nelle iscrizioni tombali non si presentano mai nella forma "Qui giace il Tal dei Tali " ma "Io Tal dei Tali", con un’identificazione significativa fra la parola e la persona.

Quanto alle sculture poi, non corrisponde certo a un’usanza greco romana che le statue rechino impresso sul corpo o sui vestiti il proprio nome o la dedica, come è invece di regola per le statue etrusche.

La razionalizzazione delle conoscenze, la loro traduzione in termini letterari e filosofici, è ciò che consente ad un popolo di inserirsi nel divenire storico dell’umanità di concerto con le altre culture.

Questo passaggio per gli etruschi non sembra mai essere avvenuto ed è forse per questo che una volta finiti, sono finiti per sempre.

Ma la suggestione che emana dai ruderi e dalle tracce della loro esistenza è anche per questo ancora più forte ed esclusiva.

Essi sembrano appartenere ad una storia parallela dell’umanità, situata nel profondo, da dove cerca di intrecciare continuo e sotterraneo dialogo.

Un’etimologia maleodorante

La parola “sito”, fino a poco tempo fa di uso non comunissimo, riservato per lo più ai riferimenti geografici in documenti ufficiali, oggi sta diventando una delle parole più comuni e frequentate.

Ma chi ha memoria di un certo parlare toscano oramai indebolito dal tempo e in buona parte dimenticato, avrà presente un più ruvido significato di quella parola, di ben altra forza espressiva; e che era poi l’unico di fatto adottato nel linguaggio corrente.

Che sito! si diceva entrando in un luogo puzzolente per qualcosa di andato a male.

Non c’erano allora frigoriferi, date di scadenza, contenitori sotto vuoto, conservanti chimici, pastorizzazioni ecc. e il naso era l’unico, inappellabile e decisivo rivelatore chimico.

Non solo luogo quindi, ma specificamente luogo puzzolente; e per estensione dal contenitore al contenuto, puzzo tout court, nauseabondo, insopportabile, inevitabilmente accompagnato da una smorfia di disgusto.

L’etimologia della parola è evidente; essa corrisponde al vocabolo latino situs, participio passato del verbo sinere, non privo di ascendenze sanscrite, come si conviene.

E per quanto concerne il lato maleodorante basta riflettere che è proprio delle cose lasciate (sitae) a lungo in un posto l’andare a male e fare la muffa (sita).

Ma un inopinato rafforzamento di questo concetto sembra emergere da tutt’altro genere di considerazioni; come spesso accade quando si tratta di associazioni involontarie d’idee mentre si sta pensando ad altro.

Infatti è visitando la necropoli di Caere Vetera (Cerveteri), che ci colpisce una parola graffita più volte su quelle alte pareti e qualcosa comincia a frullare nella testa.

Un improvviso cortocircuito emotivo con un lontano passato, tanto più coinvolgente trattandosi di percezioni fisiche, idonee a farti riconoscere antiche presenze, pur tombali.

Vuol dire semplicemente tomba, sepoltura, in etrusco, e sostituendo ai caratteri greci quelli latini, si legge sythi, genitivo sythis, naturalmente scritto alla rovescia.

Se poi fai mente locale e realizzi che in quei siti i cadaveri venivano lasciati a putrefare sul tufo, ti rendi conto che l’odore in quei cimiteri doveva essere veramente spaventoso.

Non per nulla venivano costruiti a una quota ben diversa da quella nella quale si doveva vivere e respirare !

Un odore dunque così tremendo da scavalcare i secoli e arrivare fino a noi per il tramite di quella parola? E diffondersi poi, grazie a internet, per il mondo intero?

Che sito!

Vedi anche la scheda sugli Etruschi

Fonti


Web Homolaicus

Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Storia
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Aggiornamento: 01/05/2015