LA STORIA CONTEMPORANEA
dalla prima guerra mondiale ad oggi


IL PRIMO DOPOGUERRA ITALIANO
(1919-21)

Emilio Longoni, L'oratore dello sciopero, 1890

Finita la prima guerra mondiale la situazione socio-economica era in Italia così disastrosa che il paese sembrava avesse perso la guerra e non vinta.

I morti erano stati 650-700.000; gli invalidi (tutti maschi, nelle fasce centrali dell'età) circa 450-500.000; i feriti circa un milione. Durante la guerra si era dovuto importare quasi tutto: carbone, petrolio, rame, materie prime tessili, derrate alimentari ecc. In percentuale rispetto al pil, negli anni 1914-19, le spese militari erano quintuplicate e il debito pubblico era raddoppiato, mentre le entrate era rimaste identiche, anche perché la popolazione, nel complesso, era ancora molto povera (il debito estero, al 99% con Gran Bretagna e soprattutto Stati Uniti, era quadruplicato e copriva i 2/3 delle risorse finanziarie necessarie allo Stato). Le imposte straordinarie nel periodo bellico erano aumentate di 10 volte, ma nel 1920-21 di 25 volte!

Nettamente calata la produzione agricola a causa della riduzione della classe contadina decimata al fronte: quella del grano era passata da 52 milioni di quintali nel 1914 a 46 milioni nel 1919 e a 38 milioni nel 1920. Vi era anche un eccesso di moneta circolante nel paese (era aumentata di dieci volte) che produceva inflazione: anzi il processo inflazionistico, già innescato durante la guerra, era esploso proprio nell'immediato dopoguerra. I BOT in circolazione passarono da 401 milioni di lire nel 1915 a 4,1 miliardi nel 1917, 14,5 miliardi nel 1919, fino a raggiungere la punta di 24,1 miliardi nel 1922. Complessivamente, nel periodo tra gli esercizi finanziari 1914-15 e 1921-22, i rilevanti disavanzi di bilancio provocarono un aumento del debito pubblico del 429%.

Ben visibile la svalutazione della lira nel cambio col dollaro: se nel 1914 per 1 $ ci volevano 5,17 lire, nel 1920 ne occorrevano 28,57. Forte anche il carovita: fatta 100 la media dei prezzi nel 1913, si era passati a 825 nel 1920. Vasta la disoccupazione: oltre 2 milioni nel 1919.

La guerra aveva stimolato, con le commesse statali, le industrie siderurgiche, meccaniche e chimiche (Fiat, Montecatini, Ansaldo e Ilva), ma ora non vi erano capitali per la riconversione alle produzioni civili. I reduci non trovavano lavoro, e le terre promesse ai contadini-militari, non venivano assegnate.

La Confederazione Generale del Lavoro (CGL), di orientamento socialista, aumentava di molto i propri iscritti: 312.000 nel 1914; 1.116.000 nel 1919; 2.220.000 nel 1920. A confronto il sindacato cattolico (CIL), fondato nel 1918, coi suoi 200.000 iscritti nel 1920, era ben poca cosa.

Lo sciopero del 1919, che inaugurò il cosiddetto "biennio rosso" (1919-20) fece ottenere agli operai l'accordo di Genova che prevedeva aumenti salariali e soprattutto le otto ore di lavoro, rivendicate per oltre trent'anni; al sud vi fu anche una parziale redistribuzione delle terre incolte già occupate, e nelle campagne padane e pugliesi l'imposizione di una quantità minima di manodopera bracciantile da impiegare in rapporto alla grandezza delle aziende.

Il 10 aprile dello stesso anno avvenne il primo sciopero politico a Roma (poi Milano, Torino, Genova, Bologna...) a favore dei rivoluzionari tedeschi in lotta per il socialismo e per il ritiro delle truppe italiane mandate a combattere in Russia con le potenze dell'Intesa contro i bolscevichi.

Gli scioperi economici, a causa del carovita, erano imponenti, ma non trovavano dirigenti rivoluzionari né tra il partito socialista (PSI) né tra i sindacalisti della CGL, perché questi erano ancora legati alla tattica e alla strategia della II Internazionale.

Il PSI era lacerato dalla divisione di due tendenze opposte: riformista (Turati, Treves, Modigliani, Buozzi...) e massimalista (Serrati, Lazzari, Bombacci...). La prima era favorevole alla democrazia parlamentare borghese; la seconda riteneva imminente la caduta del capitalismo, ma non coinvolgeva le masse. Nessuna delle due correnti era in grado di organizzare una vera strategia rivoluzionaria.

L'unico gruppo che si pose il problema di una svolta decisiva organizzata fu quello torinese (costituitosi nell'aprile 1919), attorno alla redazione dell'Ordine Nuovo, i cui leader erano Gramsci, Togliatti e Terracini. Il gruppo era favorevole ai Consigli di fabbrica come forma di autogoverno operaio, però non voleva separarsi dalla frazione massimalista del partito e non si estese oltre Torino, né oltre la classe operaia.

Al XVI congresso bolognese del PSI (ottobre 1919) presero la maggioranza i massimalisti, ma, nonostante gli intenti rivoluzionari, non fecero nulla per metterli in pratica, anche perché i riformisti controllavano la CGL, le cooperative e i Comuni ad amministrazione socialista.

I contadini, soprattutto meridionali, si organizzarono per occupare da soli i latifondi, vista l'indifferenza del governo Nitti, il quale si limitò ad acconsentire alle leghe contadine di occupare le terre incolte per un periodo di quattro anni, pagando adeguate indennità ai loro proprietari.

Di fronte alle sollevazioni popolari e all'incapacità di tenerle a freno, da parte del governo liberale, i ceti della piccola e media borghesia provvidero a creare, nel gennaio 1919, con l'appoggio del papato, un partito cattolico denominato partito popolare (PPI), in grado di costituire un elemento di concorrenza nei confronti del PSI.

Nella sostanza il PPI si rifaceva alla dottrina sociale della chiesa, delineata nella Rerum Novarum di papa Leone XIII (1891), e i suoi punti programmatici erano i seguenti: rifiuto netto della lotta di classe, tutela della proprietà privata, colonizzazione dei latifondi (previo indennizzo ai proprietari parassitari), Stato neutrale e interclassista, ampio spazio alle autonomie locali, libertà d'insegnamento religioso nelle scuole statali, voto alle donne, senato elettivo, sistema elettorale basato sul proporzionale.

Fu però l'imponente sciopero del 20-21 luglio 1919, progettato dai socialisti, insieme, in Europa, ai laburisti britannici e francesi, contro l'aggressione militare ai danni delle nuove repubbliche comuniste sorte tra guerra e dopoguerra in Russia e Ungheria, e contro il Trattato di Versailles, che indusse la borghesia a cercare una soluzione alla crisi in forze extra-parlamentari, i cui leader in quel momento parevano essere D'Annunzio, Marinetti e Mussolini.

Mussolini era uscito dal PSI perché giudicava inetta la sua dirigenza, e nel marzo 1919 aveva fondato il movimento dei Fasci di combattimento, chiaramente antisocialista, anche se il programma teoricamente non sembrava esserlo (giornata di otto ore, gestione proletaria delle industrie, imposta straordinaria sul capitale, sequestro dei beni ecclesiastici, sequestro dell'85% dei profitti di guerra). L'antisocialismo era nei fatti, cioè nella violenza con cui si distruggevano i beni del PSI (tipografie, sedi di partito...). La prima impresa fascista violenta fu quella del 15 aprile 1919 contro una sede dell'"Avanti!".

Alla Conferenza di pace di Parigi il primo ministro Orlando e il ministro degli esteri Sonnino rappresentavano soprattutto i nazionalisti e i liberali di destra, incluso il giornale di Mussolini, "Il popolo d'Italia", che sostenevano una politica di conquiste territoriali. Infatti Sonnino pretendeva che gli Alleati onorassero gli impegni presi col trattato di Londra, consentendo all'Italia di stabilire un protettorato sull'Albania, l'amministrazione sull'Anatolia meridionale (compresa Smirne) e di occupare vasti territori della Dalmazia.

I circoli che invece facevano capo a Nitti e Giolitti erano favorevoli a un compromesso col nuovo regno jugoslavo (serbo-croato-sloveno) per la penisola d'Istria e la città di Fiume, mentre erano contrari all'annessione della Dalmazia. Assolutamente contrari alle annessioni i socialisti, come già aveva detto Lenin.

A Parigi l'Italia ottenne il Trentino, il Sud Tirolo (col confine fissato al Brennero) e Trieste. Si era così violato il principio di nazionalità, poiché il Sud Tirolo (poi Alto-Adige) era abitato da quasi tutti austriaci. Non vollero assegnare all'Italia né l'Istria, perché gli italiani erano presenti solo sulle coste, né la Dalmazia, essendo nettamente slava, mentre la città di Fiume, se era prevalentemente italiana nel centro urbano, non lo era affatto nella periferia. La stessa Jugoslavia rivendicava Trieste, Gorizia e tutta la Dalmazia, avendo dalla sua parte il presidente americano Wilson.

Il fallimento dei piani annessionistici provocò la caduta del governo Orlando (giugno 1919). Il nuovo governo Nitti rinunciò subito all'Anatolia meridionale e a Smirne, e decise il rimpatrio delle truppe italiane dalla Russia. Quando poi i circoli nazionalisti e fascisti videro che il governo voleva trattare anche su Fiume e la Dalmazia, un gruppo di "legionari", guidati dal poeta-militare Gabriele D'Annunzio, con l'appoggio di alcuni vertici militari, marciò sulla città e la occupò, proclamandone l'annessione all'Italia. Le truppe alleate lì presenti se ne andarono senza intervenire. Anche il governo Nitti non fece nulla.

Il 16 novembre 1919 si tennero le elezioni parlamentari sulla base di una nuova legge elettorale, che per la prima volta in Italia introduceva il sistema proporzionale con scrutinio di lista ( i seggi parlamentari venivano attribuiti in rapporto ai voti ottenuti da ciascun partito), in alternativa al sistema maggioritario su collegio uninominale a doppio turno dei liberali, per il quale otteneva il seggio solo il candidato che in ogni collegio aveva la maggioranza. Da notare che per i liberali, fino agli anni 1912-13, il diritto di voto era l'esercizio di una capacità e non un diritto soggettivo, per cui solo con molta fatica si riuscì a estenderlo ai maschi che avevano oltre 30 anni, anche se analfabeti, e ai cittadini di età compresa tra 21 e 30 anni che sapessero leggere e scrivere, o fossero in possesso dei requisiti fissati dalle precedenti leggi o avessero compiuto il servizio militare. Solo nel 1918 venne introdotto il suffragio universale maschile, dichiarando elettori tutti i cittadini maschi di almeno 21 anni di età.

Il PSI triplicò i seggi, da 52 a 156 su 508 (32,4%): di questi ben 131 erano stati decisi nel centro-nord. Il PPI ottenne 100 seggi (20,6%): fu un successo, anche perché non aveva neppure un anno di vita. I fascisti invece persero clamorosamente e reagirono subito buttando bombe su un corteo socialista che festeggiava la vittoria. Mussolini, il mandante, venne arrestato, ma Nitti lo fece liberare. I liberali persero il controllo della Camera elettiva, passando dal 67,6% al 38,9% dei suffragi (da 383 a 216 seggi).

Tuttavia i socialisti non seppero affatto approfittare della vittoria. Solo gli operai di Torino, aderenti alla FIOM (metalmeccanici della Fiat), vedendo la città invasa da un esercito di poliziotti, con tanto di cannoni e mitragliatrici, attuarono, il 28 marzo 1920, lo sciopero cosiddetto "delle lancette" (dell'orologio), connesso all'entrata in vigore dell'ora legale (si voleva posticipare di un'ora l'ingresso al lavoro). Gli industriali replicarono con la serrata, facendo occupare le fabbriche dalla polizia.

Lo sciopero, appoggiato dai lavoratori di numerose città, durò un mese, senza un vero aiuto né da parte del PSI né da parte della CGL. Tuttavia nell'agosto dello stesso anno gli operai torinesi passarono dall'ostruzionismo all'occupazione delle fabbriche, venendo ben presto imitati da circa 300 aziende con oltre mezzo milione di operai coinvolti.

Il PSI però, anche questa volta, non seppe approfittare della situazione e preferì ridurla a un'operazione di tipo sindacale. Il governo Giolitti, che aveva sostituito quello dimissionario di Nitti, privo di una maggioranza liberale, e che fino a quel momento non era intervenuto, propose di fare da mediatore tra operai e industriali. Alla fine ci si accontentò di aumenti salariali e di una futura (mai realizzata) partecipazione operaia al controllo delle aziende.

Alla fine di settembre, vedendo il tradimento del PSI e della CGL, gli operai evacuarono le fabbriche: quello fu il culmine dell'avanzata rivoluzionaria e l'inizio della reazione capitalistica. La borghesia infatti, con l'appoggio dei fascisti, scatenò una guerra civile contro il proletariato e i socialisti.

Giolitti fu anche favorevole al compromesso col governo jugoslavo e nella conferenza di Rapallo (12 novembre 1920) si decise che all'Italia andava l'Istria e la città di Zara, mentre la città di Fiume diventava uno Stato indipendente, sotto la tutela della Società delle Nazioni. Poi nel 1924 l'Italia fascista pretenderà il controllo totale di Fiume, conservandolo sino al 1945. Contro i nazionalisti di D'Annunzio, che non si piegarono al trattato, il governo fece intervenire le forze armate. I legionari, lasciata Fiume nel gennaio 1921, confluiranno nelle squadre fasciste.

Intanto la sconfitta della classe operaia, durante l'occupazione delle fabbriche, portò alla definitiva scissione del PSI. La cosa avvenne al XVII congresso di Livorno il 15 gennaio 1921. Poiché non si vollero espellere i riformisti dal partito (come richiesto anche dalla III Internazionale), la parte più rivoluzionaria fondò un nuovo partito, quello comunista, in rappresentanza di 58.753 voti. Con i riformisti (14.695 voti) rimasero i massimalisti (98.023 voti). Al PCI aderirono Gramsci, Togliatti, Terracini, Bordiga, Fortichiari, Grieco, Marabini ecc. Nel nuovo partito tendeva a prevalere la corrente dei bordighiani, astensionista nelle elezioni e tendenzialmente settaria.

In definitiva non ci fu alcuna rivoluzione perché la maggioranza dei dirigenti del PSI fu sempre o riformista o settaria, incapace di realizzare un "blocco storico" tra operai e contadini. Quando si formò l'ala rivoluzionaria che diventerà comunista, in questa continuerà a dominare il settarismo e l'incapacità di creare un'alleanza strategica col mondo rurale, ch'era assolutamente maggioritario a quel tempo. Neppure vi fu mai da parte delle forze socialcomuniste una propaganda eversiva tra le forze armate. Il movimento spontaneo dei lavoratori fu di gran lunga superiore alla capacità organizzativa dei suoi dirigenti politici. Non ci si rese assolutamente conto che, vedendo la classe operaia ritirarsi in buon ordine, pur senza essere stata militarmente sconfitta, e sprecare così l'incredibile occasione favorevole alla rivoluzione, gli imprenditori (e gli agrari loro alleati) non avrebbero affatto assunto un atteggiamento più conciliante, ma, al contrario, avrebbero approfittato della debolezza per scatenare una reazione molto violenta, passando apertamente dal liberismo al fascismo, facendo persino credere che quest'ultimo avrebbe potuto realizzare meglio gli ideali del socialismo.

Fonti


Web Homolaicus

Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Storia
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Aggiornamento: 06/01/2013