LA STORIA CONTEMPORANEA
dalla prima guerra mondiale ad oggi


LA FINANZA VATICANA - LA BANCA VATICANA - L'EVASIONE FISCALE - L'ARCHIVIO DARDOZZI - QUANTO PAGHIAMO PER LA CHIESA

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di Mauro Munafò - www.mauromunafo.it

L'ESPRESSO

I

(22 agosto 2011)

Durante il week end la pagina Facebook 'Vaticano pagaci tu la manovra fiscale' ha superato di slancio le centodiecimila adesioni. Un "partito" che tuttavia non trova sponde o quasi nella politica: di tagliare i privilegi della Chiesa, ad esempio, non c'è traccia nella contromanovra che il Pd sta studiando in questi giorni. «Quello dei soldi Oltre Tevere è un tabù che nessuno ha intenzione di affrontare», scuote la testa Mario Staderini, segretario dei Radicali, che ha per primo lanciato la proposta di eliminare le esenzioni fiscali di cui godono gli enti ecclesiastici. «Si potrebbero recuperare 3 miliardi di euro all'anno senza neppure rivedere il Concordato», sostiene.

Ha ragione? Quantificare con precisione il "costo" della Chiesa Cattolica per lo Stato italiano è un'operazione quasi impossibile, che in parte si basa su dati certi e in altri casi solo su stime.

Se è infatti relativamente facile stabilire quali sono le spese principali a carico dello Stato italiano, trattandosi di fondi che restano nel bilancio, molto più complesso è stabilire quali sono i mancati introiti derivanti dalle agevolazioni fiscali cui hanno diritto gli enti ecclesiastici.

Per fare un po' di ordine è meglio dividere i capitoli.

Iniziamo analizzando le spese principali che lo Stato si accolla per gli enti ecclesiastici. In questa categoria si possono far rientrare i prelievi dell'Irpef diretti alla Conferenza Episcopale Italiana (l'otto per mille), i fondi per gli stipendi dei professori di religione cattolica nelle scuole, gli stipendi dei cappellani che svolgono funzioni per lo Stato italiano, i finanziamenti alle scuole paritarie e alle università private che in buona parte ruotano attorno alla Chiesa. Un pacchetto da circa 2,5-3 miliardi di euro l'anno, solo per lo Stato centrale. Altri capitoli di spesa, come la sanità, ricadono infatti nei bilanci regionali e non rientrano in questi conteggi.

La prima voce di spesa per lo Stato, e una delle più contestate, è l'otto per mille, ovvero la percentuale Irpef che il cittadino può destinare ad un credo religioso o lasciare allo Stato Italiano. Solo per la Chiesa Cattolica l'otto per mille ha fruttato nel 2011 la cifra record di un miliardo e 118 milioni di euro, circa l'85% dell'intera torta.

A essere contestati nell'otto per mille sono almeno tre aspetti: il metodo di ripartizione, la "mancata concorrenza" e l'ammontare dell'aliquota Irpef. A differenza delle altre tasse infatti, l'otto per mille di ogni contribuente non viene destinato al credo da lui scelto: la firma di ogni cittadino vale come un voto e influisce sulla ripartizione complessiva dei fondi. In questo modo, anche se non si firma, la destinazione dei fondi viene stabilita solo dai "votanti".

Questo meccanismo finisce per avvantaggiare la Chiesa Cattolica che, conquistando la maggioranza delle firme, riceve una grossa fetta anche dei finanziamenti senza destinazione. Il sistema è stato molto contestato dai Radicali e da associazioni come lo Uaar, che segnalano il completo monopolio cattolico per quanto riguarda gli spot pubblicitari: le confessioni più piccole non possono permettersi le campagne milionarie, mentre lo Stato non investe un centesimo sull'argomento, lasciando nei fatti il campo libero alla Chiesa Cattolica.

Un aspetto sottovalutato dell'otto per mille è però l'ammontare dell'aliquota di prelievo, che secondo la legge può essere ridefinita da una apposita commissione ogni tre anni. L'articolo 49 della legge 222/85, che ha istituto l'otto per mille, prevede che "Al termine di ogni triennio successivo al 1989, un'apposita commissione paritetica, nominata dall'autorità governativa e dalla Conferenza episcopale italiana, procede alla revisione dell'importo deducibile di cui all'articolo 46 e alla valutazione del gettito della quota IRPEF di cui all'articolo 47, al fine di predisporre eventuali modifiche".

Si tratta di un sistema di verifica pensato al momento del passaggio dall'assegno di Congrua (con cui lo Stato pagava fino agli anni ?€˜80 lo stipendio dei preti) al nuovo regime, che permette di rivedere i prelievi se questi si rivelano troppo bassi o troppo alti. "Abbiamo chiesto di accedere agli atti della commissione incaricata di valutare l'aliquota – spiega Mario Staderini – ma sulle relazioni è stato apposto il segreto di Stato, e anche il Tar del Lazio ha confermato che quei documenti devono restare riservati".

II

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(22 agosto 2011)

Se le casse dello Stato piangono, il gettito dell'otto per mille per la Chiesa è invece cresciuto di cinque volte in venti anni, passando dai 210 milioni dei primi anni novanta al miliardo e 100 di oggi. Aumentando il gettito è cambiata radicalmente anche la destinazione di questi capitali: oggi un terzo viene usato per lo stipendio dei religiosi, circa un quinto per interventi caritativi, e poco meno della metà per "esigenze di culto", una voce che al suo interno prevede anche la costruzione di nuove chiese (125 milioni di euro solo nel 2011).

L'aumento del gettito dell'otto per mille degli ultimi anni è stato così importante che ha permesso alla Chiesa di realizzare una serie di accantonamenti (55 milioni nel 2011, 30 milioni nel 2010): un piccolo tesoretto per futuri usi insomma.

La seconda voce di spesa a vantaggio della Chiesa Cattolica sono gli stipendi degli insegnanti di religione delle scuole, che sono più di 25 mila (circa la metà di ruolo) e costano una cifra superiore agli 800 milioni di euro l'anno.

La posizione della Cei sull'argomento, riportata in varie comunicazioni ogni volta che la questione viene rilanciata, è che questi stipendi non vanno alla Chiesa, ma agli insegnanti che per oltre l'80 per cento sono laici (l'87 per cento nel 2009/2010 - Leggi le relazioni in proposito 1 | 2 | 3).
In realtà, il controllo dei vescovi su questa voce di spesa non è da sottovalutare, visto che per ottenere l'idoneità all'insegnamento serve proprio un nulla osta del religioso. Il Canone 805 del Codice canonico prevede infatti che "E' diritto dell'Ordinario del luogo per la propria diocesi di nominare o di approvare gli insegnanti di religione, e parimenti, se lo richiedano motivi di religione o di costumi, di rimuoverli oppure di esigere che siano rimossi".

In altre parole, gli insegnanti di religione sono gli unici a non essere scelti sulla base di graduatorie di Stato, ma sono di fatto assunti in ogni diocesi dal vescovo locale. Assunti dalla Chiesa ma pagati dallo Stato, insomma. Inoltre, e i casi di cronaca lo hanno confermato, chi divorzia può essere licenziato da un anno all'altro.

Oltre agli stipendi degli insegnanti, lo Stato si accolla direttamente anche una parte degli stipendi dei religiosi, quando questo svolgono compiti come il cappellano militare, nelle carceri o il già citato insegnante di scuola. Secondo la Cei le "remunerazioni proprie dei sacerdoti" valgono 112 milioni di euro l'anno. Una cifra che non si può però sommare alle altre voci, poiché in parte già calcolata tra gli stipendi degli insegnanti (che nell'11% dei casi sono sacerdoti o religiosi).

Il capitolo dell'insegnamento apre un altro frangente di spesa per lo Stato, ovvero il finanziamento alle scuole paritarie (private). Queste strutture sono in buona parte gestite da enti ecclesiastici, anche se esistono non pochi istituti laici nel nostro paese.

Nell'ultima finanziaria la spesa prevista per il finanziamento alle paritarie ammonta complessivamente a poco meno di 500 milioni di euro, in calo rispetto all'anno precedente ma rimpinguata dopo una prima pesante sforbiciata. Nonostante le polemiche legate al finanziamento di queste strutture (che l'articolo 33 della Costituzione vuole "senza oneri per lo Stato"), uno studio dell'associazione dei genitori delle scuole cattoliche, ripreso anche dal ministro Gelmini, sostiene come queste scuole consentano un risparmio per lo Stato quantificato in circa sei miliardi di euro. La complessità della materia e le sue tante sfaccettature non possono comunque essere esaurite in poche righe.

Alle fonti di finanziamento citate si devono poi aggiungere altre voci, non sempre facilmente rintracciabili nei documenti ufficiali. Un capitolo tutto suo lo merita ad esempio la fornitura dell'acqua alla Città del Vaticano, interamente a carico dello Stato italiano. L'articolo 6 dei patti Lateranensi del 1929 recita infatti che "L'Italia provvederà, a mezzo degli accordi occorrenti con gli enti interessati, che alla Città del Vaticano sia assicurata un'adeguata dotazione di acque in proprietà".

Su queste due righe sono state avanzate diverse interpretazioni, con strascichi che arrivano fino ai giorni nostri. Nonostante l'opposizione dei radicali, secondo cui l'adeguata dotazione di acqua significa che bisogna far arrivare i tubi al Vaticano e nient'altro, l'interpretazione vincente è che i costi dell'acqua siano a carico dello Stato, ma un discorso diverso vale per la depurazione e la gestione degli scarichi.

La questione è esplosa nel 1998, quando la romana Acea si è quotata in borsa ed ha chiesto al Vaticano di pagare una bolletta da 25 milioni di euro che, dopo diverse peripezie, è stata invece pagata dallo Stato.

Proprio lo Stato italiano dal 2005 versa anche 4 milioni di euro l'anno all'Acea per la depurazione, da sommarsi al costo dell'acqua stessa. Il costo totale della fornitura non è però esente da equivoci e la sua cifra complessiva tra depurazione, costo dell'acqua e dello smaltimento è finita di recente al centro di una polemica alimentata da una "gola profonda" del Pdl che sostiene, senza però presentare la documentazione, che questi costi ammontino a circa 50 milioni di euro l'anno.

Dopo aver passato in rassegna le voci di spesa dello Stato per il finanziamento della Chiesa Cattolica e delle sue attività, bisogna andare al capitolo dei mancati introiti, legati ai regimi fiscali privilegiati a cui hanno diritto alcuni stabili e fabbricati. Come affermato in precedenza, tanto le spese sono note ed evidenti nel bilancio dello Stato, quanto l'entità delle detrazioni è frutto di stime molto meno certe. Per chiarezza è quindi meglio dividere ogni voce e chiarire i riferimenti normativi, le critiche e il loro presunto costo per le casse statali.

Le due voci principali di detrazione fiscale a cui ha diritto la Chiesa, non in forma esclusiva, sono l'esenzione dall'Ici e la riduzione del 50 per cento dell'Ires, l'imposta sul reddito delle persone giuridiche (le società). Questi privilegi sono anche finiti nel mirino della Commissione Europea che, dopo una denuncia dei deputati radicali, ha aperto nei confronti dell'Italia un procedimento per verificare se si tratta di aiuto di Stato o meno e il cui esito finale è atteso entro il 2012.

L'abbattimento del 50 per cento dell'Ires si applica agli enti di assistenza sociale e con fini di beneficenza ed istruzione, anche quando questi svolgono in parte attività commerciale: in questo caso però la normativa vuole che vengano distinte le fonti di reddito e sulla parte commerciale venga pagata l'intera tassa. Trattandosi inoltre di un'agevolazione nata negli anni '50 (e poi rivista varie volte), la Commissione europea ha deciso di farla rientrare tra gli aiuti di Stato esistenti, che possono essere annullati ma per cui non può esser richiesto il rimborso degli "arretrati".

Per quanto riguarda l'Ici (l'imposta comunale sugli immobili) la questione è più complessa e prevede diversi livelli. Innanzitutto la legge prevede l'esenzione totale per i luoghi di culto, ma la parte più contestata riguarda l'esenzione per le attività commerciali svolte nei locali di enti non commerciali (come quelli religiosi). Un'interpretazione della Cassazione del 2004 (la legge risale al 1992), giudicata troppo restrittiva dagli organi della Cei, ha stabilito come potessero accedere all'esenzione solo le strutture che non svolgessero alcuna attività commerciale: in poche parole l'Ici doveva essere corrisposta da tutti gli istituti che prevedevano un pagamento per le loro prestazioni, fossero esse mense per i poveri,alberghi per pellegrini o cliniche private. L'anno successivo, una legge del Governo Berlusconi ha cambiato le carte in tavola, stabilendo che l'esenzione Ici valesse anche in caso di attività commerciali: un regalo alla Chiesa che ha fatto scattare subito la denuncia alla Commissione europea per i suoi effetti sulla concorrenza.

A mettere una pezza alla situazione ci ha pensato il governo Prodi nel 2006, con l'introduzione di una nuova interpretazione della legge che prevede l'esenzione dell'Ici solo per chi svolge attività "non esclusivamente commerciale". Dalla diversa interpretazione di queste tre parole nascono buona parte degli attuali contenziosi tra chi sostiene che basti una cappella in un albergo per non pagare l'Ici e la Cei, che sostiene invece la bontà della norma e definisce "mistificazioni" gli articoli che affermano il contrario. Tanto per far capire quanto l'argomento sia caldo, un editoriale di Avvenire (il quotidiano della Cei) è tornato sull'argomento il 18 agosto scorso.

Delle detrazioni dalle tasse italiane usufruiscono poi tutti gli stabili di Città del Vaticano che godono dell'extra-territorialità e previsti dal Concordato. La somma di queste esenzioni, secondo una stima fornita dall'Anci e segnalata nel libro "La Questua" di Curzio Maltese, valeva nel 2007 tra gli 1,5 e i 2 miliardi di euro l'anno. Da quanto è emerso invece in un'interrogazione fatta dai radicali al Comune di Roma pochi anni fa, il costo dell'esenzione Ici per la sola capitale è di circa 25 milioni di euro l'anno.

Altra tassa risparmiate alla Chiesa, o sarebbe meglio dire ai suoi "dipendenti", è l'esenzione dell'Irpef per tutti i lavoratori della Santa Sede e della Città del Vaticano: almeno duemila persone tra giornali, radio, tribunali ecclesiastici, segreterie e congregazioni. Con il Concordato del 1984 è stato inoltre stabilita la possibilità di detrarre dalla dichiarazione dei redditi le donazioni fino alle vecchie due milioni di lire (poco meno di mille euro).

Il conto complessivo delle detrazioni, almeno sulla base delle stime, supera quindi agilmente i 3 miliardi di euro. Ma la politica non ci sente: «Togliere i fondi alla Chiesa italiana significa togliere il pane agli affamati», ha commentato Rocco Buttiglione dell'Udc. Compatto nella difesa dei privilegi ecclesiastici il Pdl. Poche le voci dissonanti nel Pd, partito la cui presidente Rosi Bindi ha chiuso la porta a ogni ipotesi di Pd di tassazione degli immobili del Vaticano, perché«la Chiesa è una grande ricchezza per la società italiana e le opere di carità della chiesa sono ancora più importanti per la crisi economica che sta mordendo le famiglie». Amen.

III

Chiesa, la beffa dell'8 per mille

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Dei 144 milioni che gli italiani destinano allo Stato, più di 50 finiscono alla manutenzione di parrocchie e basiliche. Un regalo che si assomma alla 'devoluzione proporzionale' che porta nelle casse del Vaticano l'87 per cento del gettito con il 34,5 per cento delle firme (29 agosto 2011).

In un modo o nell'altro, l'otto per mille degli italiani finisce quasi sempre alla Chiesa Cattolica. Se non bastasse il sistema proporzionale di distribuzione dei fondi, che finisce per dirottare l'87,2 per cento del gettito direttamente nelle casse della Conferenza episcopale italiana (anche se quelli che scelgono la Chiesa sono il 34,5) ci pensa poi lo Stato a girare un altro 3-4% alla Cei, prelevandolo direttamente dalla sua quota.

Basta infatti andare a guardare la destinazione dei fondi gestiti dallo Stato per accorgersi che almeno un terzo della torta finisce comunque per avvantaggiare il Vaticano: una cifra che solo nel 2010 oscillava tra i 50 e i 60 milioni di euro sul totale di 144 milioni a disposizione dell'otto per mille "laico".

Questo finanziamento aggiuntivo si perpetua da anni attraverso l'opera di restauro e conservazione di chiese, monasteri e basiliche. Fatti due conti, circa un terzo di tutti i fondi dell'otto per mille destinati allo Stato vengono quindi impiegati nella ristrutturazione dei luoghi di culto presenti nel paese. La fatica di firmare per lo Stato Italiano il proprio modulo è quindi sprecata.

Andando a sfogliare il Decreto della Presidenza del Consiglio pubblicato lo scorso dicembre (qui), si può notare come dei 343 progetti finanziati, 262 riguardano i beni culturali e la metà di questi interessano chiese e parrocchie.

Scorrendo l'elenco si possono vedere il milione e mezzo di euro speso per la Basilica di Sant'Andrea a Mantova, il milione e 800mila euro per il restauro della Chiesa dei santi Vittore e Carlo a Genova, il milione e 200mila euro per san Raffaele a Pozzuoli e il milione e 400mila euro per le suore Benedettine di Lecce, ma non mancano gli interventi da 100mila e persino 50mila euro. Una lista lunga 52 pagine, in gran parte con nomi di parrocchie e chiese della provincia italiana beneficiate dall'otto per mille destinato allo Stato, almeno sulla carta.

Ma le buone notizie per la Cei non finiscono qui. Dopo anni di gestioni folli dell'otto per mille statale, di volta in volta razziato dalle finanziarie e prosciugato per missioni di pace o per aggiustatine di bilancio, lo scorso anno le Commissioni bilancio del Parlamento hanno approvato una legge che rimettesse ordine sull'uso di questi fondi, "costringendo" i Governi ad utilizzarli per il contrasto alla fame nel mondo, alle calamità naturali, per l'assistenza ai rifugiati e per la conservazione dei beni culturali. Grazie a questa necessaria modifica, la quota dell'otto per mille in mano allo Stato per finanziare interventi sociali è cresciuta a dismisura, arrivando a 144 milioni e triplicandosi rispetto ai 43 milioni del 2009 (qui) e moltiplicandosi di 50 volte rispetto ai miseri 3 milioni e mezzo del 2008 (qui). Un vero e proprio tesoretto che poteva andare alle missioni del terzo mondo o essere usato per combattere le calamità naturali, ma che per oltre 100 milioni è rimasto in Italia ed è stato speso in restauri.

Viste le cifre in gioco sorge però una domanda: non potrebbe essere la Cei, con i proventi del suo otto per mille, quello destinato alla Chiesa Cattolica, a sobbarcarsi il costo delle ristrutturazioni dei beni ecclesiastici? Cercando la verità nei bilanci, la risposta è certamente sì. Il solo gettito dell'otto per mille arrivato nelle casse dei vescovi nel 2011 ammonta infatti a 1 miliardo e 118 milioni di euro, di cui 190 sono stati destinati all'edilizia di culto (qui). Di questi, 65 milioni sono destinati alle ristrutturazioni ("tutela beni culturali ecclesiastici"): una cifra quasi identica a quella investita per lo stesso scopo dallo Stato.

Anche non volendo andare ad intaccare il fondo di ben 125 milioni destinato alla costruzione di nuove chiese in Italia, la Cei potrebbe limitarsi a investire nella ristrutturazione una parte di quei 55 milioni che nell'ultimo bilancio sono stati "accantonati", cioè messi da parte per future esigenze. Ma finché ci pensa lo Stato a pagare i restauri, perché spendere di tasca propria?

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Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Storia
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Aggiornamento: 04/12/2012