Storia della campagna d'Etiopia (1935-1936)
La conquista dell'impero

“… la storia del popolo italiano fu una lunga tragedia. La realtà è che la storia d’Europa fu molto più vissuta e molto più vitale per gli italiani che per gli altri popoli, precisamente perché la storia d’Europa è in modo particolare la storia d’Italia. Sono gli italiani, più che qualsiasi altro popolo, quelli che hanno sofferto a causa dei difetti e delle ambizioni, non solo dei propri compatrioti, ma in sommo grado di quelli degli stranieri. L’impulso fascista per affermare la personalità italiana non deve essere considerato con una certa aria di superiorità, come cosa quasi ridicola. Fu un’esplosione di un sentimento represso per molto tempo. Fu l’esplosione d’un sentimento d’ingiustizia, fu una reazione psicologica…”. (Hambloch “Italy Militant”, Gallancz, Londra 1941).

2 ottobre 1935: il popolo italiano, chiamato a raccolta, era in attesa, nelle piazze già gremite, così pure gli italiani sparsi nel mondo, là dove c’era una radio, un altoparlante. A Roma, in piazza Venezia, la folla scandiva ritmicamente la sua invocazione al duce. E il duce apparve dall’alto del balcone, con il suo solito e studiato atteggiamento. Scoppiò l’entusiasmo popolare, quindi fu subito silenzio e sulla ‘adunanza oceanica’ (1), caddero, come colpi scanditi di martello, le sue parole:
“Camicie Nere della Rivoluzione! Uomini e donne di tutta Italia! Italiani sparsi nel mondo, oltre i monti e oltre i mari, ascoltate! Un’ora solenne sta per scoccare nella storia della Patria. Venti milioni di uomini occupano in questo momento le piazze di tutta Italia. Mai si vide, nella storia del genere umano, spettacolo più gigantesco. Venti milioni di uomini: un cuore solo, una volontà sola, una decisione sola. La loro manifestazione deve dimostrare e dimostra al mondo che Italia e Fascismo costituiscono una identità perfetta, assoluta, inalterabile. Possono credere il contrario soltanto cervelli avvolti nella più crassa ignoranza su uomini e cose d’Italia, di questa Italia 1935, anno XIII dell’Era Fascista.
Da molti mesi la ruota del destino, sotto l’impulso della nostra calma determinazione, si muove verso la meta: in queste ore il suo ritmo è più veloce e inarrestabile ormai! Non è soltanto un esercito che muove verso i suoi obiettivi, ma è un popolo intero di 44 milioni di anime, contro il quale si tenta di consumare la più nera delle ingiustizie: quelle di toglierci un po’ di posto al sole (2).
Quando nel 1915 l’Italia si gettò allo sbaraglio e confuse le sue sorti con quelle degli alleati, quante esaltazioni al nostro coraggio e quante promesse! Ma dopo la vittoria comune, alla quale l’Italia aveva dato il contributo supremo di 670.000 morti, 400.000 mutilati e un milione di feriti, attorno al tavolo della pace esosa non toccarono all’Italia che scarse briciole del ricco bottino coloniale.
Abbiamo pazientato tredici anni durante i quali si è ancora più stretto il cerchio degli egoismi che soffocano la nostra vitalità. Con l’Etiopia abbiamo pazientato quarant’anni! Ora basta!
Alla Lega delle Nazioni, invece di riconoscere i nostri diritti, si parla di sanzioni. Sino a prova contraria, mi rifiuto di credere che l’autentico e generoso popolo di Francia possa aderire alle sanzioni contro l’Italia. I seimila morti di Bligny (3), caduti in un eroico assalto che strappò un riconoscimento di ammirazione allo stesso nemico, trasalirebbero sotto la terra che li ricopre.
Io mi rifiuto del pari di credere che l’autentico popolo di Gran Bretagna, che non ebbe mai dissidi con l’Italia, sia disposto al rischio di gettare l’Europa sulla via della catastrofe, per difendere un paese africano, universalmente bollato come un paese senza ombra di civiltà (4). Alle sanzioni economiche opporremo la nostra disciplina, la nostra sobrietà, il nostro spirito di sacrificio. Alle sanzioni militari risponderemo con misure militari. Ad atti di guerra risponderemo con atti di guerra. Nessuno pensi di piegarci senza prima aver duramente combattuto.
Un popolo geloso del suo onore, non può usare linguaggio né avere atteggiamento diverso. Mi sia detto ancora una volta, nella maniera più categorica – e io ne prendo impegno in questo momento sacro davanti a voi – che noi faremo tutto il possibile perché questo conflitto di carattere coloniale non assuma il carattere e la portata di un conflitto europeo. Ciò può essere nei voti di coloro che intravedono in una guerra la vendetta dei tempi crollati, non dei nostri. Mai come in questa epoca storica il popolo italiano ha rilevato le qualità del suo spirito e la potenza del suo carattere.
Ed è contro questo popolo, al quale l’umanità deve talune delle sue più grandi conquiste, ed è contro questo popolo di poeti, di artisti, di eroi, di santi, di navigatori, di transmigratori, è contro questo popolo che si osa parlare di sanzioni.
Italia proletaria e fascista, Italia di Vittorio Veneto e della Rivoluzione, in piedi! Fa’ che il grido della tua decisione riempia il cielo e sia di conforto ai soldati che attendono in Africa, di sprone agli amici, e di monito ai nemici in ogni parte del mondo: grido di giustizia, grido di vittoria!”

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(A questo punto è necessario sfatare alcune leggende e menzogne, diventate luogo comune in vari pseudo-storici e politici stranieri, con relazione all'‘inadempimento dell’Italia agli impegni presi con i suoi alleati’, al ‘tradimento all’Austria-Ungheria, nel 1915’, sulle ‘pugnalate alle spalle’, alla sua ‘politica machiavellica’, ecc., obbligandoci a rivedere alcuni fatti, documenti e trattati: nel 1881 l’alleata ed amica Francia, conoscendo le intenzioni italiane di conquistare la Tunisia (dove vivevano cento italiani per ogni francese), organizzò in tutta fretta una spedizione militare e l’occupò. L’Italia si sentì vigliaccamente offesa (non diremo ‘pugnalata alle spalle’, frase coniata da Roosevelt e tanto cara ai francesi quando si tratta di appiopparla all’Italia’), e si separò dalla tradizionale alleanza e, non restando altra soluzione per non restare isolata, stipulò un trattato coi nemici della Francia, che purtroppo erano stati anche i suoi, storicamente e sentimentalmente. Nacque così, nel 1882, la Triple alleanza tra la Germania, l’Austria-Ungheria e l’Italia.

Rileggiamo tre dei suoi articoli:
Articolo 3: se una delle due parti firmatarie, senza provocazione diretta da parte loro, sono attaccate o entrano in guerra contro una o più potenze non firmatarie del presente trattato, il casus foederis si presenterà simultaneamente per tutte e tre le parti firmatarie.
Articolo 4: nel caso in cui una Potenza non firmataria del presente trattato minacci la sicurezza di una delle parti firmatarie e la costringa ad attaccare, le altre due parti firmatarie si impegnano di osservare, verso il loro alleato, una neutralità benevola…
Articolo7: L’Austria-Ungheria e L’Italia s’impegnano ad usare le loro rispettive influenze per impedire quei cambi territoriali che possano occasionare vantaggi a una delle due Potenze suddette. Se, malgrado ciò, l’Austria-Ungheria e l’Italia si troveranno nella necessità di modificare lo status quo dei Balcani, temporaneamente o permanentemente, tale occupazione non avverrà se non dopo previ accordi tra le due Potenze, sulla base d’una reciproca compensazione per ogni vantaggio acquistato, territoriale o no.
Inoltre l’Italia specificò, in una clausola addizionale, che in nessun caso il Trattato doveva interpretarsi contro l’Inghilterra.

***

L’Italia agì in modo abbastanza logico e corretto, in un'epoca in cui Bismarck aveva, qualche anno prima, attaccato proditoriamente e sconfitto prima l'indifesa Danimarca, quindi l’Austria, con la quale posteriormente (nel 1879) firmò un trattato segreto in funzione anti-russa, e un altro, nel 1887, mentre ancora era valido l’anteriore, con la Russia in funzione anti-austriaca; inoltre nel 1870 falsificò il famoso telegramma di Ems, che il re di Prussia Guglielmo I aveva inviato all’imperatore di Francia, Napoleone III, affinché la Francia si sentisse offesa e dichiarasse la guerra alla Prussia, già da tempo militarmente pronta. Guerra che causò la sconfitta francese, l’abdicazione di Napoleone III e la nascita della Germania nazionalmente unita.

Nel 1908 l’Austria-Ungheria, senza consultare l’Italia, si annesse la Bosnia-Erzegovina. Appellandosi al suddetto articolo 7, l’Italia chiese dei compensi, perlomeno la Venezia Giulia e il Trentino, territori italiani che ancora subivano la feudale dominazione austriaca. Ma l’Austria, malgrado i favorevoli consigli tedeschi, non volle conceder nulla. Rispondendo alla richiesta italiana con il solito disprezzo ed alterigia.

Anche quando nel 1914 l’Austria-Ungheria attaccò la piccola Serbia, causando una guerra mondiale, l’Italia non venne avvisata né interpellata. L’Italia incassò anche quella volta, e siccome non si era dato il casus foederis dell’articolo 3, restò neutrale.

Dopo vari tentativi italiani e tedeschi di convincere l’Austria a rispettare il trattato, l’Italia lo denunciò.
Il 26 aprile 1915 si giunse così al trattato segreto di Londra, firmato con l’Italia dall’Inghilterra, dalla Francia e dalla Russia. Furono accettate le proposte inglesi, molte promesse, le solite promesse anglosassoni, anche in questo caso, mai mantenute.

A questo punto vale la pena chiedersi: ‘da che parte è il tradimento?’ Il trattato di Londra stipulava:
Articolo 4: Con il trattato di pace, l’Italia otterrà il Trentino, il Tirolo Cisalpino con la sua frontiera geografica naturale, Trieste, le province di Gorizia e Gradisca, tutta l’Istria fino al Quarnaro, includendo Volosca (Abbazia) e le isole istriane di Cherso e Lussino, così come le isolette di Flaunig, Unie, Palazzuoli, San Pietro dei Nembi, Asinello, Gruizza ed altre adiacenti.
Articolo 5: si aggiudicherà all’Italia la Dalmazia nei limiti amministrativi attuali…
Articolo 6: l’Italia riceverà la piena sovranità su Valona, l’isola di Saseno e territorio adiacente…
Articolo 8: l’Italia riceverà la piena sovranità sulle isole del Dodecanneso che già occupa…
Articolo 9: nel caso di divisione parziale o totale della Turchia in Asia, l’Italia dovrà ottenere una parte giusta della regione del Mediterraneo adiacente alla provincia di Adalia…
Articolo 13: nel caso in cui la Gran Bretagna e la Francia aumentino i loro territori coloniali in Africa a spese della Germania, queste due Potenze sono d’accordo in via di principio che l’Italia reclami compensi equi…

L’Italia entrò in guerra. Combatté quattro anni perdendo tra morti e feriti due milioni di uomini, i suoi rappresentanti si sedettero al tavolo della pace insieme al presidente degli Stati Uniti Wilson, al francese Clemenceau e all’inglese Lloyd George. Wilson, che voleva una ‘pace giusta’, tirò fuori i suoi famosi 14 punti, che la stampa europea ridicolizzò affermando che Dio s’era accontentato soltanto di 10 punti… Clemenceau e Lloyd George risero sotto i baffi e fecero man bassa delle colonie e dei beni tedeschi; quindi, già sazi, si schierarono a favore dei 14 punti wilsoniani a discapito della più debole delle potenze vincitrici: l’Italia.

Cercarono con ogni mezzo e pretesto di non rispettare il trattato di Londra. Wilson dichiarò che non l’avrebbe mai accettato, dato che gli Stati Uniti non l’avevano firmato. Gli altri aggiunsero in coro che l’intervento americano aveva realmente cambiato la situazione ed anche le condizioni del trattato (… ma solo per l’Italia). I rappresentanti italiani insistettero; allora gli altri tre cambiarono tattica e cominciarono ad ignorarli, e questi, offesi, se ne ritornarono in Italia, confidando in un ripensamento degli alleati e in un richiamo. Ma il richiamo non venne, anzi gli alleati, considerando la posizione ‘intransigente’ assunta dall’Italia, continuarono a stipulare i trattati di pace senza di essa, e cominciarono a studiare la possibilità di dichiarare decaduto il Trattato di Londra.

Ai rappresentanti italiani non restava altra soluzione che quella di ritornare a Versalles, per non perder anche le briciole che ‘gentilmente’ si degnavano di conceder loro. Furono accusati di essere entrati in guerra un anno dopo, le vittorie dei soldati italiani furono minimizzate, la ritirata di Caporetto ingigantita, mentre le sconfitte franco-inglesi della Somme, del Chemin des Dames, d’Yprès, dei Dardanelli, ecc., divennero piccoli e insignificanti insuccessi di scarsa importanza. La vittoria italiana a Vittorio Veneto, che obbligò l’Austria alla resa, passò quasi sotto silenzio.

Cosicché i rappresentanti italiani furono obbligati a mercanteggiare umilmente, quindi a cercar di lottare coi denti per aver l’Istria e l’Alto Adige, però niente isole istriane, niente Dalmazia, né Valona, né Fiume, né Saseno. La Turchia fu smembrata; gli stati arabi, anche loro ingannati dall’Inghilterra, si convertirono in colonie franco-britanniche. All’Italia, nulla. Per colmo volevano anche toglierle le isole del Dodecanneso, conquistate alla Turchia nel 1911-12. Anche le colonie tedesche furono spartite tra la Francia, che ne ebbe 922 mila chilometri quadrati, e l’Inghilterra, che ottenne il resto, pari a 2.620.000 chilometri quadrati. All’Italia, nulla. Alcuni scrittori alleati riconobbero che l’Italia fu trattata in modo… non equo, e ‘forse’ ingiusto. Anni dopo, i nostri alleati si commossero e vollero ‘regalarci’ fette di deserto in Somalia (l’Oltre Giuba) e in Libia (il Fezzan).

A questo punto ritorniamo a chiederci: “da che parte stanno le ingiustizie e i tradimenti?” Non bisogna dimenticare che come conseguenza di tali ed altri fatti sorse il fascismo in Italia e il nazismo in Germania.

***

Ritornando al discorso ‘oceanico’ di Mussolini, l’entusiasmo della folla dilagò come non mai. Mai più come in questi momenti, fino alla presa di Addis Abeba, il popolo si sentì identificato col fascismo e con il duce.
Pochi furono gli oppositori, troppo pochi, anche se il 12 ottobre Antonio Pesenti affermava al congresso di Bruxelles organizzato dagli antifascisti: “Vengo dall’Italia e parlo a nome dei gruppi socialisti operanti in Italia. Abbiamo voluto essere presenti anche noi a questo Congresso contro la guerra per dimostrare che non è vero che in Italia Mussolini abbia con sé tutto il popolo italiano. E' vero il contrario; è vero che i miti fascisti cadono in quei pochi che si erano illusi, è vero che si sviluppa ogni giorno di più una opposizione cosciente, è vero che il malcontento è generale in tutti gli strati della popolazione. E' vero infine che il popolo italiano nella sua grande maggioranza è contrario alla guerra. L’immensa maggioranza degli italiani vorrebbe essere qui con voi a protestare contro l’insulto che le viene fatto dalla stampa fascista nazionale e straniera, di voler una guerra barbara, stupida, rovinosa.
……
Spero dunque che questo Congresso non si chiuda solo con parole, non rappresenti solo la nobile protesta degli italiani contro la guerra e contro il fascismo, che dopo aver gettato l’Italia nel baratro della guerra vuol anche disonorare il nostro paese dichiarandolo complice dei suoi misfatti; ma che serva a rafforzare l’azione antifascista. Perché la protesta sia attiva e sia degna e non rappresenti l’inutile manifestazione di parole, il Congresso deve esprimere la nostra volontà di lottare fortissimamente e con ogni mezzo contro il fascismo.
Dico con ogni mezzo, approfittando di qualsiasi alleanza, perché la caduta del fascismo in qualunque modo avvenga è il primo passo per la riscossa totale” (5).

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La crisi economica nordamericana del 1929 si ripercosse in Italia un anno dopo. La grande industria riuscì a superarla nel 1932, ma non la piccola e media industria. L’indice della produzione industriale diminuì d’un 20%. Mussolini dimostrava che era socialista solo a parole, dato che l’alto capitalismo italiano e straniero lo finanziava lautamente.

Durante il 1935 si ebbe la massima depressione, con un risultato di un milione di disoccupati. Gli stipendi diminuirono, ed anche l’emigrazione: quest’ultima a causa della propaganda fascista che cercava di limitarla in più possibile. Il fascismo aveva bisogno di più soldati e l’emigrazione aveva tolto all’Italia, dal 1876 al 1935, 19 milioni di uomini. Bisognava formare una coscienza e un futuro a una nazione di secondo piano, che faticosamente s’apriva il passo tra gli egoismi delle grandi nazioni d’Europa. Bisognava distruggere ‘l’Italietta’ e formarne un’altra grande e potente… I giovani erano aiutati ed esaltati, le donne erano consigliate a restarsene a casa, a non togliere agli uomini lo scarso lavoro che c’era, e a ‘produrre’ figli. Gli scapoli riuscivano con difficoltà a far carriera e dovevano pagare una tassa speciale sul celibato. Il fascismo agevolava e incoraggiava i matrimoni con premi, prestiti in denaro, studi gratis ed esenzioni dalle tasse alle famiglie numerose.

Mussolini ammoniva: “I popoli dalle culle vuote non possono conquistare un impero, e se lo hanno già, verrà il tempo in cui per essi sarà estremamente difficile conservarlo e difenderlo. Hanno diritto all’impero i popoli fecondi, quelli che hanno l’orgoglio e la volontà di propagare la loro razza sulla faccia della terra, i popoli virili nel senso più strettamente letterale della parola”.

Intanto il livello medio della vita economica scese d’un 20%, il reddito medio da lire 4.000 nel 1926 (L. 22 per 1 $ Usa), scese a lire 2.492 mel 1931. I salari diminuirono progressivamente: nel 1927 il salario nominale degli operai era di lire 579,6; nel 1933 di lire 430,8; nel 1936 di lire 401,1. Le calorie raggiungevano appena le 2.639; con eccezione della Spagna e del Portogallo erano le più basse dell’Europa occidentale.

Lo Stato era in deficit e cominciò ad esercitare il controllo sull’economia, decretando la fine del liberalismo economico. Il deficit, in miliardi di lire, era il seguente:

1930-31 -0.5

1934-36 -12.7

1932-33 -3.9

1937-38 -12.2

1933-34 -6.4

 

L’agricoltura languiva: 1/5 della superficie redditizia era suddivisa in 3.500 latifondi superiori ai 500 ettari. 300.000 italiani vivevano in case di legno d’una sola stanza e l’analfabetismo raggiungeva ancora il 20% (6).

I principali antifascisti rimasti in Italia, come Croce, Vittorini, Moravia, Montale, Trilussa, Omodeo, De Ruggero, Venturi, Borgese ed altri tacevano, volenti o nolenti, o erano ignorati.

L’arte imitava fascisticamente la monumentalità gloriosa dell’Impero Romano, ma era falsa, interpretata da un romanticismo ridicolo, propagandistico e più irreale che reale.

A Mussolini occorreva una politica forte e decisa, interna ed estera, che avvicinasse il popolo al partito, che gli creasse diversivi, che gli facesse dimenticare i guai e sopprimesse il malcontento. Neppure lui sfuggiva alle manie, all’egocentrismo, all’avidità di fama, alla leggerezza nelle decisioni, all’incompetenza, così comuni a tutti i dittatori. E fece il possibile per divinizzare se stesso e il partito, cercando i possibili cammini più facili per coprirsi di gloria e di onori.

Il suo carattere e i suoi atteggiamenti avevano molto in comune con quelli del kaiser Guglielmo II: arrogante, vanitoso, volubile, amante dell’aspetto più appariscente e più rude del militarismo e della disciplina, lasciava sempre aperte tutte le possibili soluzioni di un problema, ne tirava i fili quasi fino a spezzarli, per poi, all’ultimo momento, lasciare tutto nelle mani del destino, sfidava e provocava tutto e tutti, aumentando progressivamente la sua megalomania. L’opinione del papa Leone XIII sul kaiser, calzava perfettamente anche in relazione al duce: “E' una persona vanitosa e capricciosa, il cui regno avrà una triste fine”.

Intanto aumentava il suo prestigio e, di riflesso, anche quello dell’Italia, raccogliendo e facendosi paladino del risentimento italiano contro i suoi ex-alleati per le ingiustizie subite a Versalles.

A Napoli, nel 1931, affermò: “Come si può parlare di ricostruzione europea se non verranno modificate alcune clausole di alcuni trattati di pace che hanno spinto interi popoli sull’orlo del disastro materiale e della disperazione morale? E quanto dovrà ancora passare per convincersi che nell’apparato economico del mondo contemporaneo c’è qualcosa che s’è incagliato e forse spezzato?” Mussolini, pur di cercare di far modificare il trattato de Versalles, o semplicemente per prendersi una rivincita sugli ex-alleati, giunse perfino a giustificare le lagnanze tedesche.

Il 2 settembre del 1933 la Germania firmò un patto di non aggressione con la Russia, valido per cinque anni. L’Inghilterra e la Francia cominciarono a preoccuparsi e, nel 1934, firmarono un patto che garantiva l’indipendenza dell’Austria contro le pretese del 'caporale austro-tedesco'. Mussolini rispose con atteggiamenti antisovietici (7) ed antinazisti (8), affinché gli inglesi e i francesi, timorosi del comunismo e del nazismo, ma non ancora decisi su quali dei due fosse più pericoloso, gli permettessero di saldare i suoi conti in Africa.

Per meglio convincerli emise qualche grido e qualche minaccia (9), diffondendo i suoi slogan: “Lotta di nazioni giovani e proletarie contro le nazioni decrepite e ricche d’Occidente”, “Abbiamo un sacrosanto diritto d’un posto al sole”, “E' l’aratro che traccia il solco, ma è la spada che lo difende”, “Credere. Obbedire. Combattere”, “Se avanzo seguitemi, se indietreggio uccidetemi, se muoio vendicatemi”, “Meglio vivere un giorno da leoni che cent’anni da pecora”, “Libro e moschetto, fascista perfetto”, “Tireremo Diritto”, “Arrivare nudi alla meta”, “Mussolini ha sempre ragione”. Quasi tutti presi ‘in prestito’ da Nietzsche, da Sorel, da Blanqui e perfino da uno sconosciuto soldato italiano della prima guerra mondiale che lo scrisse su un muro d’una casa semidiroccata.

Era giunto il tempo di vendicare la sconfitta di Adua del 1896, dove 15 mila italiani ed ascari eritrei (i soldati italiani erano 8 mila circa), furono accerchiati da più di cento mila abissini, l’80% dei quali armati di fucili, comandati da ufficiali europei, in maggioranza francesi; gli italiani avevano un maggior numero di cannoni, ma la capacità di fuoco dell’artiglieria abissina era superiore. Dopo una strenua lotta 6 mila italiani ed ascari furono uccisi, 2 mila i feriti e 1.800 i prigionieri. I restanti si ritirarono, mentre gli etiopici lasciarono sul terreno 15 mila morti.

Alcuni autori stranieri scrissero che ‘Gli italiani lottarono con eroismo suicida…’, ma altri si burlarono della sconfitta, dimenticandosi che la storia degli ultimi decenni aveva registrato numerose sconfitte europee in terre africana e asiatiche:
Marocco 1921, ad Annual la Spagna perse 15 mila soldati in una sola battaglia, circondati, uccisi e catturati dai ribelli arabi di Abd-el-Karim. Se non fosse stato per l’aiuto francese gli spagnoli non avrebbero mai potuto sottomettere il Marocco.
Afghanistan 1841, a Kabul ed a Selalabad 16 mila inglesi furono volti in fuga, catturati uno per uno e massacrati (solo uno riuscì a salvarsi).
India 1849, a Chilianwala fuggirono gli inglesi lasciando nelle mani degli indù 2.400 morti, tre bandiere di sua maestà britannica e vari cannoni.
Sudafrica 1879, ad Isandhlwana 1.600 inglesi furono sconfitti ed uccisi dagli zulù, armati di lance e frecce.
Sudan 1881, due colonne anglo-egiziane furono volte in fuga e praticamente distrutte dai dervisci.
Afghanistan 1881, a Maiwand si ebbe una rotta precipitosa degli inglesi sconfitti dagli afghani.
Sudafrica dal 1881 al 1900: si ebbe tutta una serie di sconfitte inglesi nella lotta contro i boeri. Li sconfisse Kruger nel 1881 a Majuba Hill, scapparono a Magersfonstein nel 1899, scappò il generale Gatacre a Stormberg. Il generale Botha con 5 mila boeri sconfisse a Ladysmith il generale Buller coi suoi 15 mila inglesi.
E gli inglesi erano i padroni del mondo, con la loro secolare esperienza in conquiste e rapine, mentre gli italiani avevano conquistato la loro indipendenza e unificazione nazionale da solo 36 anni ed erano alla loro prima esperienza coloniale.

***

E in Etiopia, nemmeno a farlo apposta, Ailé Selassié, re dei re e imperatore, permise una politica che s’opponeva a qualsiasi iniziativa conciliante italiana. Malgrado la precaria situazione del suo impero, senza sbocco sul mare e chiuso al nord e al sud dalle colonie italiane dell’Eritrea e della Somalia, confidava nell’aiuto di affaristi e politicastri angloamericani e con la speranza di riuscire, presto o tardi, ad avere qualche porto eritreo a spese dell’Italia. Mussolini, avido di facili vittorie militari, non attendeva che l’occasione propizia, e il Negus non gliela lesinava…

Il 4 novembre1934 il consolato italiano a Gondar fu attaccato da bande etiopiche che causarono vari morti tra gli ascari eritrei. Dal 5 al 6 dicembre un migliaio di abissini attaccò il piccolo forte somalo di Ual-Ual, che difendeva i 359 pozzi di una zona di confine non ben definita. Dopo aspra lotta i duecento dubat di guarnigione, con un’ottantina di perdite, riuscirono a respingerli. Mussolini protestò veementemente e, conforme al trattato italo-etiopico del 1928, pretese l’onore alla bandiera e il versamento di 200 talleri per le famiglie dei caduti. Il Negus non rispose e, consigliato dall’ambasciatore inglese, presentò il caso alla Lega delle Nazioni a Ginevra, appellandosi all’articolo XI (10).

Ma il duce inviò rinforzi alla frontiera somala e quindi a quella eritrea, mobilitando, nel mese suddetto,70 mila uomini circa. Il Negus dichiarò che gli attaccanti di Ual-Ual facevano parte della scorta assegnata al colonnello Clifford, che era giunto con l’incarico di definire la frontiera della Somalia inglese con l’Etiopia, e che si era reso conto che gli italiani stavano occupando abusivamente del territorio abissino (e in realtà era proprio così. Inoltre, chi furono i primi a cominciare a sparare? Furono i dubat del capitano Roberto Cimarruta, gli abissini del ‘fitaurari’ Chiferra Balcha insieme all’espatriato somalo Omar Samantar? Non si saprà mai con certezza).

La Francia, che temeva la Germania nazista, era disposta a chiudere un occhio sulle pretese fasciste; l’Inghilterra, che pensava di usare la Germania nazista in funzione antisovietica e l’Italia in funzione antinazista, cercava di trovare una soluzione accomodaticcia, dato che, dominando la Lega delle Nazioni, poteva continuare ad agire secondo i propri criteri ed interessi.

Seguendo tali principi fu inviato a Roma, il 4 gennaio, il ministro francese Laval, il quale, esaltando la grandezza del duce, disse: “Voi avete scritto la pagina più bella della storia moderna. Mettendo il vostro prestigio al servizio dell’Europa, apporterete un aiuto indispensabile al mantenimento della pace”. E gli offrì delle ratifiche di frontiera in favore della Libia e dell’Eritrea (che in sostanza erano belle fette di deserti), ed anche un pacchetto di azioni della ferrovia francese Addis Abeba-Gibuti (capitale della Somalia francese), garanzie per gli italiani in Tunisia e infine, ‘sembra’, mano libera sull’Etiopia (infatti non si seppe mai la verità fino in fondo. Laval dichiarò più tardi. e continuò ad affermarlo dopo la Seconda Guerra Mondiale, di fronte al tribunale che lo condannò a morte per tradimento e collaborazionismo coi tedeschi, che ‘mano libera’ era nel senso esclusivamente economico e non militare).

Mussolini accettò tutto e ben comprese il senso delle parole, che era quello che lui voleva. Il 16 dello stesso mese il generale Emilio De Bono, uno del quadrunviri, fu nominato alto commissario per l’Eritrea. L’11 febbraio si mobilitarono due divisioni, la ‘Peloritana’ e la ‘Gavinana’ e s’inviarono in Africa. Il 7 marzo il generale Rodolfo Graziani fu nominato comandante militare della Somalia. Dal primo al tre gennaio ci fu la conferenza anglo-franco-italiana di Londra; Mussolini, Laval, Flandin, MacDonald e Simon si misero d’accordo sui problemi scottanti del momento: Hitler, il riarmo tedesco, la difesa dell’indipendenza austriaca.

Il 19 gennaio la Lega della nazioni riconobbe ‘la buona fede delle due parti’ e decise che il caso venisse trattato tra le due parti interessate… Il 17 marzo gli abissini presentarono un altro ricorso, appellandosi all’articolo XV della Lega (11). Dall’11 al 14 aprile a Stresa, in un’altra riunione europea, tutti i rappresentanti si trovarono d’accordo (a parole) contro il riarmo tedesco.

Il 17 giugno alla Lega si studiò la forma di ricorrere a misure contro la Germania che ‘calpestava’ il trattato di Versalles, ma il giorno seguente gli inglesi stipularono un trattato navale con Hitler, che fu autorizzato a ricostruire una flotta di superficie pari al 35% di quella britannica; ed una sottomarina pari al 100%... Così gli inglesi pensarono che i loro interessi sarebbero stati difesi dai tedeschi contro la minaccia del comunismo sovietico.

Fedele alla politica del ‘do ut des’ il ministro Eden, rappresentante inglese della Lega, giunse a Roma il 24 giugno e propose: l’Inghilterra era disposta a cedere all’Etiopia un corridoio (una vera mania dell’epoca quella dei corridoi), fino alla città di Zeila, nella Somalia britannica, affinché potesse avere uno sbocco sul mare, ricevendone in cambio una ‘fetta’ dell’Ogaden, che sarebbe passato all’Italia come gentile ossequio della Gran Bretagna. Si sarebbe salvato così il prestigio inglese, la pace e assicurata la carriera di Eden. Ma Mussolini, stanco di collezionare deserti, non si lasciò ingannare e lo accompagnò gentilmente alla porta…

Il duce ne trasse la conclusione che le democrazie europee erano deboli e decadenti, che non sarebbero mai entrate in guerra per difendere gli altri popoli e che doveva continuare a minacciare, a far la voce grossa, per incutere rispetto e timore. Ma da quel giorno Eden cominciò ad odiare il fascismo e l’Italia, rappresentando la corrente dei giovani inglesi disposti a far concessioni a Hitler, ma non al duce, spianando così il cammino alla Seconda Guerra Mondiale.

A Parigi, dal 16 al 18 ottobre, Laval e O’Hoare, ministro inglese, studiarono un altro piano: sviluppare economicamente l’Etiopia con capitali anglofrancesi, sotto controllo italiano. L’Abissinia accettò, l’Italia no.
Il 4 settembre Aloisi, rappresentante italiano alla Lega, denunciò la schiavitù imperante in Etiopia e trentatré aggressioni a danno dell’Italia, ma nessuno se ne interessò.

Il 6 settembre fu nominato il Comitato dei Cinque: Inghilterra, Francia, Spagna, Polonia e Turchia, che propose lo sviluppo dell’Etiopia, con la partecipazione internazionale, ma tenendo in conto gli interessi italiani. L’Italia non accettò. Mussolini era indeciso se trovare una soluzione di compromesso o ricorrere alla guerra. Il 20 ottobre l’Inghilterra inviò la flotta nel Mediterraneo (144 navi da guerra) e vi navigò avanti e indietro. Ma Mussolini non s’intimorì, maestro nel gioco d’intimorire gli altri, ma si seppe poi che era riuscito a far decifrare un messaggio segreto inglese nel quale si ordinava alla flotta di non intervenire contro l’Italia per nessuna ragione.

Il 2 ottobre, seppure lasciando uno spiraglio ancora aperto alle trattative diplomatiche, dette ordine alle truppe di varcare le frontiere etiopiche. Cominciò così la guerra che per 216 giorni vide combattere fianco a fianco unità nazionali ed eritree, somale e libiche, in una terra arida, senza strade, senza ponti, infestata da malattie, con un caldo atroce di giorno e freddo intenso di notte, su ‘Ambe’ che raggiungevano i tremila metri. I soldati furono seguiti, e a volte preceduti, da migliaia e migliaia di genieri ed operai che dovettero costruire centinaia di chilometri di strade e di strutture pertinenti. La tenacia e il valore dei soldati, la risoluzione dei problemi tattici e strategici fu straordinaria e riconosciuta in tutto il mondo.

In Eritrea si formarono tre Corpi d’Armata al comando del generale Emilio De Bono, il cui capo di stato maggiore era il generale Gabba. Il I Corpo d’Armata era composto da soldati nazionali, al comando del generale Santini e la divisione camicie nere ‘XXVIII Ottobre’ al comando del generale Somma. (Le divisioni di camicie nere erano composte da volontari e gli ufficiali provenivano dai quadri dell’esercito). II Corpo d’Armata, composto quasi esclusivamente da soldati nazionali al comando del generale Maraviglia, era formato dalla divisione ‘Gavinana’ al comando del generale Villasanta, e da una brigata della 2ª divisione indigena (tutti gli ufficiali delle truppe indigene erano italiani). Il Corpo d’Armata indigeno, al comando del generale Pirzio Biroli, era formato dalla 1ª divisione al comando del generale Di Pietro, dalla 2ª divisione al comando del generale Vaccarisi, e dalla divisione camicie nere ‘XXIII Marzo’ al comando del generale Bàstico.

Nei mesi successivi al gennaio del 1936 entrarono in azione altri due corpi d’armata: il III Corpo formato dalle divisioni ‘Sila’ e ‘XXI Aprile’ e il IV formato dalle divisioni ‘Cosseria’ e ‘I Febbraio’. Inoltre c’erano varie divisioni di rinforzo, come la ‘Gran Sasso’, la ‘III Gennaio’, la ‘Assietta’ e la ‘Libia’. In totale c’erano in Eritrea 218 mila soldati con 628 cannoni, 142 carri armati leggeri, 28 autoblindo, 126 aerei e 8.750 automezzi. L‘aviazione era comandata dal generale Aimone Cat; la marina, comandata dall’ammiraglio Barone, si componeva di cinque incrociatori, due cacciatorpediniere e quattro sommergibili, ma non avendo l’Etiopia né porti né flotta fu utilizzata solo da scorta ai convogli truppe e materiali.

In Somalia le forze italiane che dipendevano dal generale Rodolfo Graziani, erano formate dalla divisione ‘Peloritana’ al comando del generale Pavone e da vari aggruppamenti di truppe somale irregolari. In seguito si formarono altre forze, tra cui la divisione ‘Tevere’, integrata da volontari italiani residenti all’estero, da mutilati ed invalidi della Grande Guerra, da universitari ed altri. In totale 50 mila uomini con 140 cannoni, 30 carri armati leggeri, 27 autoblindo, 38 aerei e 3.660 automezzi.

Il totale generale delle due colonie era di 300 mila uomini (tra cui 50 mila lavoratori civili, che poi aumentarono fino a 100 mila), che formavano otto divisioni dell’esercito, sei della milizia, due eritree, una libica ed altre unità irregolari somale, con 768 cannoni, 173 carri armati leggeri, 164 aerei (bombardieri Caproni 111, caccia FIAT e ricognitori R01), 12 mila automezzi e 40 mila muli…

Le forze abissine, regolari ed irregolari, al comando del Negus Neghesti Hailé Selassié e dei vari ‘ras’ si calcolavano di circa 350 mila uomini, con 200 cannoni vecchi e una cinquantina di nuovi, dalle mille alle duemila mitragliatrici, con 300 mila fucili circa, una dozzina d’aerei, di cui solo otto erano efficienti e una quindicina di carri armati e autoblindo. Avevano come istruttori militari ufficiali svedesi, belgi, francesi ed egiziani. Le armi provenivano principalmente dal Belgio, dalla Francia, dall’Inghilterra e dalla Cecoslovacchia.
Gli abissini erano ottimi soldati, combattenti accaniti e fanatici, agevolati anche dall’eccellente conoscenza del terreno, con uno spregio della vita, allo stile orientale, attaccavano anche disarmati, lanciandosi direttamente sulle linee delle traiettorie delle mitragliatrici, e quelli che non erano colpiti raggiungevano i serventi e li uccidevano a colpi di bastone.

L’Italia aveva fretta di vincere al più presto possibile in previsione delle annunciate sanzioni economiche ed anche a causa delle scarse riserve accumulate. Ma c’erano anche altri fattori come il prestigio nazionale ed internazionale e l’arrivo, a maggio, della stagione delle grandi piogge.

La strategia era la seguente: contenere il nemico sul fronte somalo, sferrare l’attacco principale sul fronte eritreo cercando di stringere a tenaglia il nemico, distruggendo il grosso delle sue forze.

Gli abissini, abilmente consigliati, cercarono invece di temporeggiare, approfittare del clima e del terreno arido e senza vie di comunicazione e cogliere eventuali occasioni per attaccare rapidamente, incunearsi, rompere ed accerchiare le forze italiane se avessero commesso qualche errore tattico, con la speranza di ritardare l’avanzata fino all’arrivo delle grandi piogge. Sicuri di ottenere un benché minimo successo che avrebbe incoraggiato l’Inghilterra, e il suo concerto di nazioni, ad intervenire più energicamente su Mussolini.

Alla mezzanotte del 2 ottobre il genio lanciò i ponti sul Mareb, nel pomeriggio del 3 i primi ascari, seguiti dai fanti della ‘Gavinana’ (12), entrarono in Etiopia. Soldati abissini apparivano e scomparivano rapidamente, sparando qualche colpo isolato, mentre da lontano s’udivano i rulli dei negarit che li chiamavano a raccolta. Il Negus nel Parlamento di Addis Abeba dichiarò: “Se i nostri ripetuti sforzi e la nostra buona volontà falliranno, la nostra coscienza resterà pura. Il popolo etiopico è unito, ha fiducia e si rivolge a Dio che saprà difendere la giusta causa del nostro Paese”.

***

Il I Corpo d’Armata puntò su Adigrat, il II corpo su Adua e il Corpo indigeno, al centro, su Enticciò. Il giorno 5 si raggiunsero gli obiettivi quasi senza colpo ferire. Il 6, dopo un breve scontro a fuoco, Adua veniva occupata. Il generale De Bono decretò l’abolizione della schiavitù in tutta l’Etiopia, ma il bando non ebbe quasi effetto, date le condizioni del paese e l’arretratezza delle popolazioni né sui proprietari né sugli schiavi; molti di questi ultimi si presentarono al comando italiano chiedendo chi li avrebbe sfamati ora che erano liberi.

Il 15 ottobre il II Corpo raggiunse Axum, la città santa. Le autorità civili e religiose della chiesa copta fecero atto di sottomissione all’Italia. Con frequenza si presentavano, facendo il saluto romano, intere tribù che desideravano combattere a fianco delle truppe italiane. In questi primi scontri si registrarono le seguenti perdite: 26 nazionali e 108 eritrei.

L’8 novembre il I Corpo raggiunse Macallè. De Bono ordinò di consolidare le posizioni raggiunte, ma Mussolini era impaziente, dato che da Roma s’era messo in testa di voler dirigere lui la campagna; fissandone le mete, le posizioni e le battaglie a colpi di telegrammi, e gli ordinò perentoriamente di continuare l’avanzata. Non soddisfatto inviò il generale Pietro Badoglio a ‘sorvegliarlo, rendersi conto della situazione e riferirgli’.

Giunsero in Eritrea anche alcuni gerarchi, senatori e deputati (Piero Parini, Attilio Teruzzi, Roberto Farinacci, Alessandro Pavolini, Giuseppe Bottai, Carlo Scorza, Nino Dolfin, Achille Starace, e perfino il famoso Marinetti, fondatore del ‘Futurismo’, che Mussolini aveva attirato nella sua orbita annullandolo (lo stesso che era successo a Gabriele D’Annunzio), e altre persone rinomate come il duca di Bergamo e il duca di Pistoia. La maggior parte restò in Africa il tempo sufficiente (per qualche giorno, alcuni perfino per qualche ora…), per aver il diritto di fregiarsi del nastrino della campagna, poi se ne tornò in Italia. Tra i numerosi giornalisti italiani c’erano Enrico Emanuelli, Mario Appelius, Gian Gaspare Napolitano, Luigi Barzini jr., Sem Banelli e Indro Montanelli.

Altri telegrammi mussoliniani urgenti giunsero a De Bono: gli si ordinava di avanzare altri 80 chilometri senza inutili soste e conquistare il massiccio dell’Amba Alagi. De Bono rifiutò considerando che era una pazzia avanzare tanto lasciando i suoi fianchi scoperti e dar al nemico l’occasione di attaccarlo e di circondarlo. Badoglio consigliò Mussolini di sostituirlo. De Bono fu promosso maresciallo d’Italia e richiamato in Italia, Badoglio prese il suo posto, con gran dispiacere anche di Graziani che sperava, e aveva brigato, per ottenere lui il comando. In ogni modo la marcia verso l’Amba Alagi non ci fu; al contrario passarono ben tre mesi nella riorganizzazione degli uomini e dei rifornimenti.

Nel frattempo si formò un altro Corpo d’Armata, il III, che operò, insieme al I, nella zona di Macallè. In gennaio s’erano riunite in massa le truppe abissine formando un ferro di cavallo di fronte allo schieramento italiano: 30 mila uomini di ras Sejum Mangascià, 40 mila di ras Cassa Darghiè, 40 mila di ras Hailé Selassié Immirù, appoggiati da altri 20 mila di ras Mulughietà, che era partito con 40 mila uomini, ma che per la defezione del degiac Aialen Burrà e per i bombardamenti aerei subiti era rimasto con la metà degli effettivi.

La prima battaglia del Tembièn si svolse nei mesi di gennaio e febbraio. Al centro dello schieramento le masse di ras Cassa, approfittando della troppo audace avanzata italiana oltre Macallè, attaccarono infiltrandosi nel settore di Abbi-Addi, decise a proseguire verso nord, per separare nettamente il II Corpo dal I e dal III.

La divisione camicie nere ‘XXVIII Ottobre’ dopo breve lotta ripiegò su Passo Uarieu (anche a causa di una incresciosa diserzione di alcuni reparti ascari, altri episodi si registrarono successivamente sia nel fronte nord che in quello sud); anche il Corpo indigeno fu costretto a ritirarsi su Passo Uarieu, dopo aver perduto 13 ufficiali e 317 eritrei, restando tutti accerchiati per una paio di giorni fino all’arrivo della 2ª divisione indigena.

Il 22 gli abissini si ritirarono lasciando sul terreno 8 mila morti, gli italiani persero 665 nazionali e 417 indigeni. Il II Corpo aveva sofferto i primi rovesci ed aveva dovuto ritirarsi sulla linea Selaclacà-Axum. Gli avamposti eritrei, avendo occupato Selaclacà (13), si trovarono improvvisamente di fronte a una massa di 5 mila etiopici, si ritirarono allora su Dembiguinà, ma il villaggio era stato ripreso da altre bande etiopiche di ras Immirù. Sei giorni durarono gli scontri tra Dembiguinà ed Af-Gagà.

Il 10 febbraio il II Corpo ricevette rinforzi dal IV Corpo d’Armata, di recente formazione, operante nello Scirè, tra i fiumi Tacazzè e Mareb. In quei giorni la propaganda etiope ed europea anti-italiana, sbandierò vittorie su vittorie, e addirittura l’invasione abissina dell’Eritrea… Mentre in Italia si cominciò a cantare una nuova canzone allusiva: ‘I morti che lasciammo a Passo Uarieu sono i pilastri del romano Impero…’.

La battaglia dell’Endertà, a sud di Macallè: dal 10 al 15 febbraio Badoglio decise d’attaccare a fondo le truppe di ras Mulughietà, nella zona del massiccio dell’Amba Aradàm. Il III Corpo ad ovest, il Corpo indigeno al centro e la divisione ‘Assietta’ ad est attaccarono e sconfissero, dopo aspri combattimenti, gli armati di ras Mulughietà, che in seguito fu raggiunto ed ucciso insieme al figlio da bande di predoni etiopici. Dopo la battaglia restarono sul terreno 5 mila abissini e 2 mila furono catturati. Gli italiani persero 657 nazionali e 145 indigeni.

Dopodiché, a fine febbraio, ebbe luogo la seconda battaglia del Tembièn: cinque corpi d’armata italiani si disposero su un fronte di 250 chilometri. Con abile manovra, il III Corpo ritornò in direzione nord-ovest, puntando su Abbi Addi e prendendo tra due fuochi le forze dei ras Cassa, Sejum e Immirù, le quali, strette tra il Corpo indigeno e il I e il III Corpo, furono accerchiate e quasi interamente distrutte. Solo le truppe del ras Immirù riuscirono a sganciarsi ed evitare l’accerchiamento, ritirandosi tra Selaclacà e Dembiguinà. 8 mila furono i morti abissini, gli italiani persero 393 nazionali e 788 eritrei.

Badoglio ordinò al IV Corpo di attaccare frontalmente i 30 mila armati di ras Immirù, mentre il II Corpo attaccava sulla destra e a sud, in una manovra aggirante. S’ingaggiò così l’aspra e cruenta battaglia dello Scirè che terminò il 3 marzo con la distruzione delle truppe d’Immirù. 4 mila furono i morti abissini, gli italiani ne persero 400.

L’aviazione non dette tregua alle colonne nemiche in fuga, mitragliandole. I figli del duce, Vittorio e Bruno, insieme a Galeazzo Ciano, che sposò poi Edda Mussolini, parteciparono alle azioni belliche nella squadriglia ‘La Disperata’.

Il III Corpo occupò Socotà, mentre una colonna celere, comandata da Achille Starace (segretario del partito fascista), giunse a Gondar, il primo aprile. E nelle sue memorie riportò: “Dopo aver schierato le truppe ed ordinato il saluto al Re e al Duce, si presentarono un bersagliere, una camicia nera e un ascaro. La camicia nera mi rivolse le seguenti parole: ‘Ci permettiamo di chiedere, al nostro comandante, a nome di tutti i nostri camerati, che sulla vetta più alta della penisola di Gongorà sul lago Tana, sulla quale sventola il tricolore, sia dato il nome di “Vetta Mussolini”. Rispondo: “Sarà fatto!”.

In quei giorni varie centinaia di abissini riuscirono a infiltrarsi dietro le linee italiane e sorpresero nel sonno un centinaio di operai disarmati, tra cui un ingegnere e sua moglie, e ne fecero un orribile scempio. Solo tre lavoratori feriti riuscirono a salvarsi. Il 28 fu conquistata l’Amba Alagi: alpini, bersaglieri e camicie nere issarono il tricolore a 3.438 metri d’altezza. Si chiuse così la prima parte della campagna.

A Ginevra la Lega delle Nazioni decise d’applicare le sanzioni economiche all’Italia. Non aveva preso le stesse misure contro il Giappone, nel 1932, che aveva invaso la Manciuria; non le aveva prese nel 1934 contro la Germania nazista che aveva fatto assassinare Dolffuss, cancelliere austriaco. Le grandi d’Europa che per secoli avevano aggredito e sfruttato l’America, l’Asia e l’Africa, insorsero compatte contro l’Italia che osava impossessarsi di un lembo di arida terra africana, che nessuno s’era mai interessato di conquistare.

Il 10 ottobre, appellandosi all’articolo XVI, la decisione fu presa: niente crediti, niente merci da comprare o da vendere all’Italia.

Articolo XVI: A: se un membro della Lega ricorre alla guerra, infrangendo quanto stipolato negli articoli XII, XIII e XV, sarà giudicato ipso facto come se avesse commesso un atto di guerra contro tutti i membri della Lega, che qui prendono impegno di sottoporlo alla rottura immediata di tutte le relazioni commerciali e finanziarie, alla proibizioni di relazioni tra i cittadini propri e quelli della nazione che infrange il patto, e all’astensione di ogni relazione finanziaria, commerciale o personale tra i cittadini della nazione violatrice del patto e i cittadini di qualsiasi altro paese, membro della Lega o no.
B: sarà dovere della Lega in tal caso chiedere ai diversi governi interessati con quali forze effettive militari, navali ed aeree contribuiranno i membri della Lega alla formazione di forze armate che si occuperanno di proteggere il complimento degli obblighi del patto.
C: i membri della Lega si trovano concordi inoltre, di aiutarsi mutuamente con mezzi finanziari ed economici con il fine di contribuire al risarcimento delle perdite e inconvenienti risultanti dalle misure suddette, e che si aiuteranno reciprocamente nel respingere qualsiasi misura speciale diretta a una di loro dal paese violatore del patto, e prenderanno le misure necessarie per facilitare il passo attraverso il proprio territorio alle forze armate di di qualsiasi nazione membro della Lega che stia cooperando a proteggere i patti della lega.

***

L’Italia doveva essere castigata ed umiliata, e si fece anche il possibile affinché venisse sconfitta dagli abissini. La stampa ricominciò la solita gazzarra (la stessa che s’era scatenata in Inghilterra, Francia, Austria e Germania durante la conquista italiana della Libia nel 1911). Il 18 novembre, a nome di 52 nazioni s’applicarono ufficialmente le sanzioni. Si ebbero solo tre voti contrari, quelli dell’Austria, dell’Ungheria e dell’Albania, che gli inglesi tacciarono di satelliti dell’Italia, dato che non s’erano piegati alla loro volontà. Tra le nazioni che non facevano parte della Lega delle Nazioni, gli Stati Uniti decretarono di non vendere materiale bellico all’Italia, per ordine di Roosevelt e di Cordenn Hull, che erano decisamente antifascisti, ed anche la Germania hitleriana ci fu contraria, a causa del patto di Stresa; più tardi, visto che Mussolini stava vincendo, si decise ad appoggiarlo, ma continuò a vendere fucili agli abissini.

Il primo dicembre il duce parlò alle madri che avevano avuto i figli caduti nella Prima Guerra Mondiale:
“Se qualcuno negli anni gloriosi e tragici della guerra mondiale, quando la dolorosa notizia entrò nelle vostre case, fosse venuto a dirvi che sarebbe giunto il giorno in cui i paesi, ai quali avete offerto la giovinezza dei vostri figli, avrebbe rifornito di armi esplosive i nemici che lottano contro le truppe italiane, voi avreste respinto tale ipotesi… Le sanzioni economiche, in un certo senso, saranno utili al popolo italiano. Oggi finalmente ci accorgiamo di aver molte più materie prime di quello che non pensassimo. Ma quello che ci rivolta nelle sanzioni è il loro carattere morale. E' questo di aver messo sullo stesso piano l’Etiopia e l’Italia…".

E mentre in tutte le sedi comunali si murò una lapide che ricordava agli italiani le sanzioni economiche, cominciò l’utilizzazione e il consumo delle risorse e dei prodotti nazionali: la battaglia del grano, efficace ma non sufficiente, dato che si continuò ad importarlo, l’idrogenazione della lignite, le fibre artificiali estratte dal latte e dalla ginestra, la distillazione delle rocce asfaltiche, l’impulso alle industrie elettriche, estrattive, chimiche, l’utilizzazione del metano e del gas per le automobili, i fertilizzanti, la gomma sintetica, il rayon, l’estrazione della cellulosa dalla canna comune, dal granturco, dal pioppo, dal riso… L’Autarchia era in marcia e Mussolini tappezzò l’Italia con nuovi motti: “Solo Iddio può piegare la volontà fascista, gli uomini e le cose, mai!”, “Vivere pericolosamente!”, “Noi tireremo diritto!”, “Molti nemici, molto onore”.

Ci disse anche che non eravamo poveri, ma semplicemente che non eravamo ricchi… Era questione di punti di vista. Tutto cambiava, tutto aveva una nuova e fascistica interpretazione: “Cominciamo coll’inventario dal lato più negativo: quello dei combustibili liquidi, per sopperire al fabbisogno di combustibile liquido, contiamo, specie in tempo di guerra, sull’idrogenazione della lignite, sull’alcool ricavato dai prodotti agricoli, sulla distillazione delle rocce asfaltiche. Il patrimonio lignifero italiano supera i 200 milioni di tonnellate. Quanto ai combustibili solidi, non potremo fare a meno, dato lo stato attuale della tecnica, di alcune qualità di carbone pregiato. Si potrebbe sostituire quindi dal 40 al 50% del carbone straniero. Abbiamo ferro sufficiente per il nostro fabbisogno di pace e di guerra. Altri minerali che l’Italia possiede in grande quantità sono la bauxite e leucite per l’alluminio, zinco, piombo, mercurio, zolfo, manganese, ecc., stagno e nichelio esistono in Sardegna e Piemonte. Non abbiamo rame in quantità degna di rilievo. Non abbiamo, fino ad oggi, ma avremo tra non molto, la cellulosa. Non abbiamo gomma. La deficienza di talune materie prime tessili non è preoccupante: è questo il campo dove la scienza, la tecnica e l’ingegno degli italiani possono più largamente operare, e stiamo infatti operando. La questione delle materie prime va posta dunque, una volta per tutte, non nei termini nei quali la poneva il liberalismo rinunciatario e rassegnato ad un’eterna inferiorità dell’Italia, riassumendosi nella frase ormai divenuta abusato luogo comune, che l’Italia è povera di materie prime. Deve dirsi invece: l’Italia non possiede talune materie prime ed è questa una fondamentale ragione delle sue esigenze coloniali; l’Italia è ricca di molte altre materie prime. Questa è l’esatta rappresentazione della realtà delle cose. E questo spiega la convinzione che l’Italia può e deve raggiungere il massimo livello utile d’autonomia economica per il tempo di pace e soprattutto per il tempo di guerra. Tutta l’economia italiana deve essere orientata verso questa sprema necessità; da essa dipende l’avvenire del Popolo italiano”. (Dal discorso del duce all’Assemblea delle Corporazioni, del 23 marzo 1936).

Si costatò poi che le sanzioni furono applicate meno rigidamente di come il fascismo fece credere: semiufficialmente o extraufficialmente l’Italia ricevette merci dalla Svizzera, dal Belgio, dalla Turchia, dalla Cecoslovacchia e anche dalla Francia e da altre nazioni. Anche all’estero i fascisti inglesi, neozelandesi, australiani, canadesi e nordamericani sfilarono, gagliardetti al vento, in segno di protesta contro i loro governi, senza contare le dimostrazioni di solidarietà della Germania nazista che incoraggiava Mussolini alla resistenza, sperando in una guerra tra l’Italia e l’Inghilterra.

Il duce chiese al popolo di donare alla Patria le sue fedi nuziali, l’oro, l’argento, le cancellate di ferro, i rottami di metallo, tutto il rame che aveva in casa. Bisognava pagare in contanti le merci che giungevano dall’estero, bisognava avere sufficiente metallo per armare le forze armate. Le fedi d’oro venivano cambiate per altre d’acciaio, che portavano incisa internamente la data delle ‘inique sanzioni’… Tutto serviva alla propaganda fascista. A Roma la regina Elena, il 2 dicembre 1935 - XIV dell’era fascista, dette l’esempio: “Signor presidente, desidero sappiate che, fra molti anelli nuziali che le donne d’Italia offrono per la gloria della nostra cara e grande Patria, sarà l’anello nuziale del Re, simbolo d’affetto e di fede, unito all’anello mio, che dono con gioia alla Patria. Il mio anello rappresenta quanto ho di più caro, perché ricorda il giorno in cui ebbi la fortuna d’essere italiana”.

In ogni modo la benzina arrivava sempre dall’estero e il canale di Suez restò aperto: gli unici due fattori che effettivamente avrebbero impedito a Mussolini d’iniziare la campagna etiopica. Il duce aveva annunciato che: “A misure militari risponderemo con misure militari”, e poi aveva fatto sapere a mezzo stampa che ‘benzina’ e ‘Suez’ sarebbero stati considerati come misure militari contro l’Italia. Così gli anglo-americani continuarono a venderci la benzina, contro l’oro in contanti, anche se Eden ne aveva sollecitato, e non ottenuto, l’embargo. La riserva aurea italiana, malgrado gli anelli nuziali, scese dai 5 miliardi e mezzo del 1934 ai 3 miliardi 390 milioni nel 1935.

L’8 dicembre si ebbe a Parigi l’incontro Laval-Hoare, i quali decisero in segreto di dare all’Italia il Tigrè, parte della Dancalia e dell’Ogadèn. In cambio si sarebbe dato all’Etiopia uno sbocco al mare ad Assad. Mussolini, non estraneo a tali maneggi, era propenso ad accettare, ma la stampa francese scoprì il segreto, la notizia provocò una scandalo in Inghilterra e Hoare fu costretto a dimettersi. Eden subito ne prese il posto.

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In Somalia Graziani riprese le operazioni militari e in una battaglia campale, dall’11 al 20 febbraio, sconfisse i 30 mila uomini di ras Destà. Inseguì il ras per 400 chilometri circa e conquistò Neghelli, interrompendo il traffico delle carovane che gli inglesi, dal Kenya, utilizzavano per rifornire di armi gli abissini.

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In un ultimo, disperato ed inutile eroismo, dal 31 marzo al 5 d’aprile, il Negus, con 30 mila uomini, attese l’avanzata italiana nei pressi del lago Ascianghi. I primi ad attaccare furono gli ascari della 1ª divisione eritrea, ad est; della 2ª divisione, al centro, rinforzata dalla divisione ‘Sabaudia’, e ad ovest la ‘Pusteria’ rinforzata dalla divisione ‘III Gennaio’.

Il Negus partecipò alla battaglia sparando con una mitragliatrice antiaerea, circondato dalla sua guardia imperiale che attaccava disperatamente tra canti e grida di guerra. Continuamente, secondo l’uso, gli gettavano ai piedi le armi catturate al nemico.

Infine gli abissini cedettero e si ritirarono lasciando sul terreno 6 mila morti. Gli italiani persero 400 nazionali e 863 eritrei. Gli ufficiali italiani offrivano al nemico un eccellente bersaglio, distinguendosi nettamente per le loro uniformi e per il fatto di cavalcare in groppa ai muli.

Galla, amhara e scioani fuggirono sbandati, mitragliati e bombardati dall’aviazione ed attaccati dagli azebù galla, sottomessi all’Italia. Il Corpo indigeno si coprì di valore raggiungendo, il 15 aprile, Dessié ed aprendo la strada per la capitale etiopica; la campagna era praticamente terminata.

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In Somalia il generale Graziani, accettando mal volentieri l’ordine di difendersi, era desideroso anche lui di attaccare e di vincere. Contro di lui erano schierati 40 mila abissini di ras Destà Damtu nel Sidamo, e altri 30 mila nelle città fortificate dell’Ogadèn e dell’Hararghié, al comando del degiac Nasibù Zamanuel, più altri 10 mila di riserva.

Tra l’ottobre e il novembre con 38 mila uomini (di cui 15.600 italiani), su tre colonne occupò Dolo, Callafo, Dagnerei e Gherlogubi. Tra il gennaio e il febbraio inviò altre tre colonne ad occupare Neghelli. Il suo obiettivo era di raggiungere la ferrovia Addis Abeba-Gibuti, al nord di Harrar, nell’alto Ogadèn, però dovette superare le fortificazioni di ras Nasibù, coi suoi 50 mila armati, che gli sbarravano il cammino, con 500 mitragliatrici e 50 cannoni di piccolo calibro, collocati in sistemi di fortificazioni denominati ‘la linea Hindenburg’, che aveva abilmente mandato a costruire e sistemato il generale turco Wehid Pascià, tra Daggabùr, Sassabanèh e Bullalèh. La linea fortificata era stata costruita secondo le regole della tecnica militare più moderna, approfittando di ogni possibilità del terreno, con passaggi obbligati controllati dal fuoco incrociato di mitragliatrici e cannoni collocati in caverne. Dopo tre giorni di combattimenti accaniti, utilizzando anche l’aviazione e i lanciafiamme, le colonne italiane riuscirono a passare. Graziani spinse a fondo l’offensiva contro le truppe del degiac Nasibù, lo sconfisse a Gianagobo, dal 15 al 17 aprile e a Gunu Gadu, dal 23 al 25. Gli abissini lasciarono sul campo 5 mila morti, gli italiani 3 mila tra morti e feriti.

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Il generale Badoglio, promosso maresciallo, nel suo libro intitolato "Guerra Etiopica”, ne ebbe la prefazione scritta da Mussolini:
“… L’imperativo categorico della guerra africana, come di tutte le guerre, era questo: bisognava vincere, ma nella guerra d’Etiopia, a questo imperativo, le circostanze ne aggiungevano un altro non meno categorico: bisognava vincere e presto. Mai guerra in genere e guerra coloniale in particolare si svolse in condizioni più particolari: l’Italia non soltanto doveva affrontare e sconfiggere un nemico preparato da istruttori europei e munito di armi moderne sugli altipiani d’Etiopia, ma doveva battersi su due altri fronti: quello politico e quello economico, in conseguenza delle sanzioni decise ed applicate per la prima volta e soltanto contro l’Italia, dalla Lega delle Nazioni. Veniva così a determinarsi una specie di gara di velocità fra l’Italia e la Società delle Nazioni, la quale – se le vicende della guerra non fossero state propizie alle armi italiane – sarebbe probabilmente ricorsa all’applicazione di misure più drastiche, come del resto, molti ambiente societari apertamente o copertamente sollecitavano. Il fattore ‘tempo’ avrebbe lavorato contro di noi. Bisognava, per evitare questa terribile eventualità, dare a una guerra che tutti si attendevano di carattere coloniale, il carattere d’una guerra continentale e cioè fornire alla madre patria elementi di massa e di qualità tali da ottenere una vittoria sicura e schiacciante nel più breve termine di tempo possibile. Furono dunque moltiplicate per cinque tutte le previsioni iniziali: dal punto di vista numerico non 100, ma 400 mila uomini, più di 100 mila operai e materiali più che sufficienti ai bisogni previsti ed imprevisti. Tutto ciò ha richiesto uno sforzo logistico di proporzioni quasi inimmaginabili, ma questo metodo si è rilevato anche il più economico: una guerra che i calcoli ottimisti prevedevano di una durata non inferiore ai sei anni, si è risolta in sette mesi e mentre scrivo queste linee, a tre mesi dalla fine delle ostilità, non meno di un terzo delle truppe mandate in Africa Orientale è tornato o è in fase di rimpatrio.
Quando il maresciallo Badoglio giunse sul fronte, ai primi di dicembre, la bandiera italiana sventolava già da un mese su Macallè. L’occupazione di Macallè aveva certamente allungato la linea di rifornimenti, ma se non avessimo compiuto il primo gesto d’audacia, qual era quello d’occupare Macallè, molto probabilmente non avremmo compiuto gli altri. Lo schieramento presentava il saliente di Macallè, ma quanto accadde in gennaio e in febbraio su questo saliente dimostra che le disposizioni prese da De Bono e poi da Badoglio per stroncare ogni conato offensivo, si palesarono perfettamente efficaci. La forza penetrativa del nemico non si rivelò che nell’episodio, di proporzioni modestissime, di Mai-Timchet-Dembiguinà. La prima battaglia del Tembièn si risolse in uno scacco gravissimo per gli abissini. Si può dire che sin da quelle giornate, la capacità offensiva degli etiopici, fu definitivamente spezzata; da quelle giornate in poi essi avrebbero subito la nostra iniziativa, alla quale soltanto all’atto quinto del dramma cercò di sottrarsi in uno sforzo disperato e inutile il Negus, sul lago Ascianghi.
La preparazione del maresciallo Badoglio, che richiese tra dicembre e gennaio alcune settimane di sosta, fu quindi la condizione indispensabile per vincere le successive battaglie. Solo quando fosse sicuro il trampolino di partenza, il maresciallo Badoglio avrebbe potuto spiccare il salto e raggiungere la meta. Le battaglie furono tutte manovrate e concepite secondo le linee classiche della strategia più ponderata ed audace ad un tempo. Quella dell’Endertà rimase un modello. Per questo le cinque battaglie si risolsero in vittorie decisive, con imponenti perdite del nemico e non gravi le nostre. Dopo la battaglia dell’Ascianghi le forze inquadrate dell’esercito abissino erano ormai in sfacelo. Badoglio avrebbe potuto fermarsi ed attendere, ma il fattore tempo ci sospingeva. Quando il nemico è in crisi non bisogna permettergli in nessun modo di riprendersi: bisogna inseguirlo e distruggerlo fino all’ultimo uomo. Solo un comandante della statura di Badoglio poteva concepire ed attuare la marcia Dessié-Addis Abeba, poiché solo con l’occupazione di Addis Abeba la guerra poteva avere la sua trionfale conclusione. Bisogna esser grati a Badoglio di aver osato fin quasi alla temerarietà, ma nella guerra bisogna osare, poiché chi osa ha una probabilità ed è quasi sempre aiutato dalla fortuna. Bisogna soprattutto ‘osare’ quando l’elemento umano ha la tempra dei legionari d’Africa, cresciuti nel clima della Rivoluzione delle Camicie Nere. Così la guerra che va dal 3 ottobre al 5 maggio può in pieno diritto dirsi ‘fascista’, perché è stata condotta e vinta con l’animo del fascismo: rapidità, decisione, spirito di sacrificio, coraggio e resistenza oltre i limiti umani…”.

***

Due colonne puntarono, per cammini diversi, su Addis Abeba, che raggiunsero il 5 maggio. Il maresciallo Badoglio telegrafò a Mussolini: “Oggi, 5 maggio, alle ore sedici, alla testa delle truppe vittoriose, sono entrato in Addis Abeba”. E Mussolini: “Annuncio al popolo e al mondo che la pace è ristabilita. Non è senza emozione e senza fierezza che, dopo sette mesi di aspre ostilità, pronuncio questa grande parola; ma è strettamente necessario che io aggiunga che si tratta della nostra pace, della pace romana che si esprime in questa semplice, irrevocabile, definitiva proposizione: l’Etiopia è italiana”.

Il Negus fuggì portandosi dietro il tesoro della corona e abbandonando la città al saccheggio. S’imbarcò a Gibuti, capitale della Somalia francese, sull’incrociatore inglese ‘Enterprise’, diretto a Londra, via Palestina.
Il 9 maggio Mussolini, dal balcone di Palazzo Venezia, si rivolse al popolo italiano e al mondo:
“Ufficiali, sottufficiali, gregari di tutte le Forze Armate dello Stato in Africa e in Italia, Camicie Nere della Rivoluzione, Italiani e Italiane in Patria e nel mondo, ascoltate: con le decisioni che tra pochi istanti conoscerete e che furono acclamate dal Gran Consiglio del Fascismo, un grande evento si compie, viene suggellato il destino dell’Etiopia, oggi, 9 maggio, quattordicesimo anno dell’Era Fascista.
Tutti i nodi furono tagliati dalla nostra spada lucente, e la vittoria africana resta nella storia della Patria integra e pura come i legionari caduti e superstiti la sognavano e la volevano. L’Italia ha finalmente il suo Impero. Impero fascista, perché porta i segni indiscutibili della volontà e della potenza del Littorio romano, perché questa è la meta verso la quale durante quattordici anni furono sollecitate le energie prorompenti e disciplinate delle giovani gagliarde generazioni italiane Impero di pace, perché l’Italia vuole la pace per sé e per tutti e si decide alla guerra soltanto quando vi è forzata da imperiose imprescindibili necessità della vita. Impero di civiltà e umanità per tutte le popolazioni dell’Etiopia. E' nella tradizione di Roma, che dopo aver vinto, associa i popoli al suo destino.
Ecco la legge, o italiani, che chiude un periodo della nostra storia e ne apre un altro come un immenso varco aperto a tutte le possibilità del futuro. I territori e le genti che appartengono all’Impero d’Etiopia sono posti sotto la sovranità piena ed intera del Regno d’Italia. Il titolo d’Imperatore d’Etiopia viene assunto per sé e per i suoi successori dal Re d’Italia. Ufficiali, sottufficiali, gregari di tutte le Forze Armate dello Stato in Africa e in Italia, Camicie Nere, Italiani e Italiane! Il popolo italiano ha creato col suo sangue l’Impero, lo feconderà col suo lavoro e lo difenderà contro chiunque con le sue armi. In questa certezza suprema levate in alto, Legionari, le insegne, il ferro e i cuori, a salutare dopo quindici secoli la riapparizione dell’Impero sui colli fatali di Roma. Ne sarete voi degni? (Il popolo grida ‘sì’). Questo grido è come un giuramento sacro che v’impegna dinanzi a Dio e dinanzi agli uomini, per la vita e per la morte. Camicie Nere, Legionari: Saluto al Re!”

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Graziani il 6 maggio giunse a Giggiga, l’8 ad Harrar e il 9 a Dire Daua interrompendo la ferrovia Addis Abeba-Gibuti. Terminava così la battaglia dell’Ogadèn nella quale gli abissini, comandati dal generale turco Wahib Pascià perdettero 9 mila uomini; gli italiani 332 nazionali e 873 indigeni.

Il 9 maggio elementi del 46º fanteria, provenienti da Addis Abeba, s’incontrarono a Dire Daua con un battaglione della divisione ‘Tevere’, proveniente dalla Somalia: i due fronti s’erano congiunti. Le colonne che avevano raggiunto la capitale etiope, forti di 10 mila uomini circa, si trovarono accerchiate durante vari mesi da centomila abissini circa appartenenti alle sconfitte bande armate. Gli scioani attaccarono a fine luglio e, respinti, lasciarono sul terreno un migliaio di morti. La popolazione civile della città aiutò attivamente gli italiani nella difesa della capitale. Continuamente vari ras, capi musulmani, notabili e perfino Cirillo V, capo della chiesa copta, facevano atto di sottomissione all’Italia.

Furono catturati 95 mila fucili, 555 mitragliatrici e 155 cannoni. Le perdite totali italiane furono di 5.211 caduti e 6.947 feriti; indigeni 10.000 morti e 16.000 feriti. L’esercito era esausto, il consumo dei materiali e delle armi fu considerevolmente alto, ma mancava ancora il suo intervento in Spagna e quindi nella Seconda Guerra Mondiale, nientedimeno contro la Francia, l’Inghilterra, la Russia e gli Stati Uniti…

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L’Etiopia non possedeva le ricchezze che Mussolini aveva predetto e, come le altre colonie, costarono all’Italia molti milioni. In quattro anni si spesero 265 milioni di dollari (valore del 1936), per costruire 7.739 chilometri di strade, e scuole, chiese, moschee, acquedotti, ospedali, mercati, cinema, campi sportivi, interi quartieri indigeni in muratura, palazzi governativi, ecc.

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Le ultime operazioni contro i resti dell’esercito nemico, seminati su tutto il territorio, continuarono per opera delle colonne celeri. In ottobre si sottomise ras Sejum. Il 24 febbraio 1937 fu catturato e fucilato ras Destà, ma la guerriglia continuò e assunse nuovo vigore durante la Seconda Guerra Mondiale con l’arrivo e l’aiuto degli inglesi. Il 22 maggio Badoglio rientrò in Italia, Graziani fu nominato vicerè e Bottai governatore.
Aumentò la boria di Mussolini che si autoconferì l’Ordine Militare di Savoia, la più alta decorazione militare italiana, per aver ‘… preparato, condotto e vinto la più grande guerra coloniale che la storia ricordi; guerra che intuì e volle per il prestigio, per la vita, la grandezza della Patria fascista’.

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Uruguay, Cile, Guatemala ed Equador mossero i primi passi per far abolire le sanzioni contro l’Italia. L’Argentina lo propose ufficialmente. Il 4 luglio la Lega delle Nazioni decretò terminata l’applicazione dell’articolo XVI. L’unica nazione che si oppose fu il Sudafrica, lo stato più razzista e schiavista del mondo...

Il 15 luglio caddero, dopo 240 giorni, le ‘inique’ sanzioni. Mussolini lo annunciò agli italiani:
“Oggi, 15 luglio dell’anno XIV, sugli spalti del sanzionismo mondiale è stata innalzata la bandiera bianca. Non è soltanto il segno della resa, ma si vorrebbe che fosse un sintomo del ritorno del senso comune. Il merito di questa vittoria sul fronte dell’economia va tutto e integralmente al popolo italiano; va agli uomini, alle donne, va ai fanciulli di tutta Italia. Nessuno ha tremato, nessuno s'è piegato. Tutti erano pronti a qualsiasi sacrificio, pur coltivando nel cuore la certezza che alla fine la civiltà e la giustizia avrebbe trionfato in Africa e in Europa. Così è avvenuto, così sotto i simboli del Littorio invincibile avverrà domani e sempre”.

Si fece chiamare ‘fondatore dell’Impero’, e da caporale si autopromosse ‘Maresciallo dell’Impero’, e ‘gentilmente’ concesse tale grado militare anche al re, il quale accettò malvolentieri la parità gerarchica, ma tacque... Il duce euforico, chiuse un occhio sulle fughe dei capitali, sugli scandali e la disonestà dei suoi ‘ras’ (come vennero chiamati i gerarchi fascisti dopo la campagna etiopica), tra i quali primeggiava Marcello Petacci, fratello della sua amante Claretta. Il Vaticano acutizzò la tensione con allusioni indirette contro il nazismo auspicando un’azione di tutte le chiese contro il bolscevismo, ma non sotto i labari di forze pagane e anticristiane…

Giancarlo Nacher Malvaioli

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(1) Tipica frase mussoliniana (torna su)
(2) Un’altra frase mussoliniana, copiata dalla propaganda tedesca della Prima Guerra Mondiale, che affermava il ‘diritto’ italiano di conquistare colonie in Africa. (torna su)
(3) Il 3 giugno 1918 il II Corpo italiano, integrato da due divisioni al comando del generale Albricci, combattette a fianco dei francesi a Bligny, a dodici chilometri da Reims. In un memorabile attacco seimila soldati italiani caddero colpiti sotto il piombo tedesco. (torna su)
(4) Lo stesso Churchill, nelle sue ‘Memorie’, riconobbe che l’Etiopia era una terra di tirannia, schiavista e selvaggia. (torna su)
(5) Pesenti, tornato in Italia, fu arrestato e condannato a 24 anni di ‘confino’, ma le sue parole furono messe in pratica dagli antifascisti dal 1936 in poi. (torna su)
(6) Anche la situazione delle grandi Potenze non era certo rosea, per esempio gli Stati Uniti, nel 1932, avevano 13 milioni di disoccupati, 6 l’Inghilterra e 3 la Germania. Dal 1900 l’80% degli americani del nord viveva con il minimo indispensabile. Fino al 1943 gli Stati Uniti avevano il 13,9% di analfabeti, nel 1945 il 40% delle case nordamericane non aveva bagno e il 30% non aveva acqua corrente. (J. Gunther: Inside U.S.A.) (torna su)
(7) Tanto che Churchill dichiarò: “Il genio romano impersonato da Mussolini, il più grande legislatore vivente, ha mostrato a molte nazioni che si può resistere all’incalzare del socialismo e ha indicato la strada che una nazione può seguire quando sia coraggiosamente condotta”. (torna su)
(8) E Mussolini affermava: ‘Trenta secoli di storia ci permettono di guardare con sovrana pietà talune dottrine di oltr’Alpi, sostenute dalla progenie di gente che ignorava la scrittura con la quale tramandare i documenti della propria vita, nel tempo in cui Roma aveva Cesare, Virgilio e Augusto”. (torna su)
(9) “Noi fascisti abbiamo il coraggio di scartare tutte le teorie politiche tradizionali e siamo aristocratici e democratici, rivoluzionari e reazionari, proletari e antiproletari, pacifisti e antipacifisti. Basta aver un solo punto fisso: la Nazione. Il resto è ovvio”. (torna su)
(10) N. 1) Qualsiasi guerra o dichiarazione di guerra, sia che concerna immediatamente o no un membro della Lega, è dichiarata come concernente a tutta la Lega, che prenderà tutte le misure che giudichi necessarie ed appropriate per salvaguardare la pace delle nazioni. Nel caso in cui sorgesse tale emergenza, il Segretario Generale, a richiesta di qualsiasi Membro della Lega, convocherà la riunione del Consiglio.
N.2) Si dichiara che è diritto di ogni Membro della Lega sottoporre all’esame dell’Assemblea o del Consiglio qualsiasi circostanza che affetti le relazioni internazionali minaccianti la pace internazionale e le buone relazioni tra le nazioni dalle quali dipende la pace. (torna su)
(11) Se dovesse sorgere tra i Membri della Lega qualsiasi disputa che giunga ad una rottura, che non fosse stata sottomessa all’arbitraggio o ad un accordo giudiziale, secondo l’articolo XIII, i Membri della Lega dovranno sottomettere la questione al giudizio del Consiglio. Qualunque parte in disputa potrà richiedere un giudizio d’arbitraggio. Darà avviso della disputa al Segretario Generale che intraprenderà tutti i passi necessari per un’investigazione completa. A tale fine le parti interessate comunicheranno al Segretario Generale, appena possibile, le dichiarazioni del caso con tutti i particolari relativi, documenti e prove, e il Consiglio s’incaricherà della pubblicazione delle stesse. (torna su)
(12) Churchill, nelle sue memorie, scrisse: “Lanciare un esercito di quasi 250mila uomini, composto dal fior fiore della gioventù italiana, verso una spiaggia deserta a circa 5 mila chilometri dalla Patria, contro la volontà del mondo intero e senza aver il dominio del mare, e poi ingaggiare una serie di battaglie contro un popolo e un territorio che nessun conquistatore in 4 mila anni pensò che valesse la pena d’invadere, è sfidare la fortuna come mai era stato fatto prima, durante tutta la storia”. (torna su)
(13) Mio zio Maurizio, tenente della divisione ‘Gran Sasso’ fu gravemente ferito, quindi gran invalido di guerra, a Selaclacà, ed ebbe la medaglia d’argento sul campo al valor militare. (torna su)
(14) Il ministro inglese Eden accusò l’Italia di aver usato bombe all’iprite. Stampa e scrittori gli fecero eco accusando il comando italiano di barbarie. Dopo che il tenente d’aviazione Minniti fu catturato dagli abissini, decapitato e la sua testa infissa su una lancia, il generale Graziani chiese ed ottenne tre bombe al gas che fece lanciare per rappresaglia. E sicuramente ce ne furono delle altre. In cambio l’Italia accusò l’Etiopia di usare pallottole dirompenti dum-dum. (torna su)


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Aggiornamento: 14/09/2014