LA STORIA CONTEMPORANEA
dalla prima guerra mondiale ad oggi


PRIMO GIBELLI

Negli anni 1918-1921, sui campi di battaglia, in difesa della Russia sovietica, si forgiarono numerosi eroi fra gli internazionalisti: fra questi gli italiani P. Gibelli, D. Sticsa, M. Godoni. Il reggimento della 13a armata sul fronte sud-occidentale era comandato dall'italiano Arturo Zironi. Con la decorazione all'ordine della Bandiera rossa fu insignito anche l'operaio torinese Primo Gibelli.

Chi era Primo Gibelli? Molti hanno parlato di lui in termini particolarmente positivi, ma frammentari. Forse la biografia più interessante, in questo senso, è quella curata da alcuni compagni e parenti di Gibelli, Carla e Aldo Stuani: Un uomo un eroe (Caravaggio, 1982).

Gibelli nacque il 27 dicembre 1883 in una frazione della periferia di Milano, all'Ortica, da una famiglia operaia. Il padre era falegname, di idee socialiste. Lavorando tutto il giorno fuori casa, i genitori avevano affidato il bambino al nonno, ex operaio contadino e garibaldino. Poi si trasferirono a Torino, nel quartiere operaio, perché il padre lavorasse alla Fiat. Primo riuscì a finire la quinta elementare. A 12 anni venne mandato in Francia, a Besançon, presso alcuni parenti, e qui frequentò il ginnasio per tre anni. Dopodiché tornò a Torino, per lavorare in una piccola officina frequentando la scuola tecnica serale. In seguito entrò nella Fiat: reparto collaudo motori d'aviazione.

In fabbrica prese contatto con molti compagni socialisti e si iscrisse alla Federazione giovanile socialista, divenendone membro attivo e organizzatore. Conosciuto Gramsci, partecipò con lui alle riunioni di fabbrica e ai comizi. In particolare lottava contro la decisione del parlamento e del governo, per un intervento dell'Italia in Libia. In quegli anni alla “Stampa” e alla “Gazzetta”, che attiravano i disoccupati verso la Libia con il miraggio di facili ed enormi raccolti di grano e di grappoli d'uva, ribattevano con energia l'”Avanti!” e il “Grido del Popolo”, e si organizzavano manifestazioni popolari. In una di queste Primo venne arrestato, ma la prigione non gli impedì di continuare la sua attività di propagandista e agitatore.

Nel 1915 l'Italia entrò nel primo conflitto mondiale. Primo non fu richiamato perché indispensabile alla fabbrica, essendo specialista in collaudo motori d'aereo. Accolse con entusiasmo, nel 1917, la fine della dittatura zarista e la notizia della rivoluzione d'Ottobre. Perso il diritto di lavorare in fabbrica perché nuovamente arrestato in occasione di una conferenza antimilitarista davanti alla questura, venne inviato a una scuola militare, ma per sua fortuna non raggiunse il fronte, perché il 4 novembre 1918 fu firmato l'armistizio. L'anno dopo tornerà alla Fiat.

Il movimento operaio era però in una fase di fermento. Tanto che nel settembre 1920, in risposta alla serrata degli industriali che non volevano nemmeno discutere le rivendicazioni degli operai, si decise di occupare le fabbriche. Qui, pensando di preparare una rivoluzione analoga a quella bolscevica, venivano messe a punto armi e munizioni. Purtroppo però il Psi era ancora debole, mancava di unità e soprattutto di una direzione decisa, capace di portare a compimento gli intenti rivoluzionari. Mussolini ne approfittò subito. Con l'approvazione degli industriali, terrorizzati dal movimento operaio, le sue bande nere scorrazzavano per la città, picchiando, uccidendo, incendiando sezioni di partito e redazioni di giornali, sotto l'occhio indifferente della polizia.

Febbrilmente si raccolsero e si nascosero le armi. Incominciarono gli arresti in massa degli organizzatori e partecipanti al movimento operaio: fu necessario provvedere all'espatrio clandestino di quelli minacciati. Nel gennaio 1921 si teneva a Livorno il XVII congresso del Psi. I lavori procedevano lentamente, mentre fuori gli operai si scontravano a sangue con le squadracce fasciste, assoldate apertamente dagli industriali e dagli agrari. L'ala sinistra del partito, guidata da Gramsci, abbandonò l'aula, per ricomporsi al teatro S. Marco nel 1° congresso del Partito comunista d'Italia. Primo Gibelli vi si iscrisse subito dopo.

Intanto il re nel 1922 aveva “regolarizzato” la posizione fascista chiamando Mussolini al governo. In tutta Italia si scatenò la furia devastatrice delle camicie nere: a Torino si distinse in modo particolare. Ci furono pestaggi, barbare uccisioni, come quella del compagno Ferrero, che fu legato dietro un camion e trascinato per le vie della città. Redazioni di giornali, case dei lavoratori, sezioni di partito vennero date alle fiamme. Molti dirigenti comunisti e socialisti vennero arrestati, torturati, uccisi e molti furono costretti a emigrare. Primo fu arrestato nuovamente, ma riuscì a fuggire.

Grazie al fratelli Stuani, di Caravaggio, dove passava la linea ferroviaria Milano-Venezia-Trieste, riuscì a riparare in Urss, a Mosca; dove, dietro raccomandazione della sezione italiana del Comintern, entrò a far parte della giovane Armata rossa, per combattere nei pressi del mar Nero contro quella bianca. Una volta aiutò in modo rocambolesco un gruppo di soldati a spezzare l'accerchiamento del nemico. Aggirò i bianchi con la sua autoblindo a velocità folle, mentre il mitragliere, legato al sedile posteriore per non essere sbalzato fuori, sparava senza sosta. Dopo tre giri il nemico era in fuga, fra lo stupore dei rossi... Nello stesso anno venne ammesso nelle file del partito bolscevico.

Terminata la guerra civile in Ucraina, Primo tornò a Mosca, dove i compagni italiani del Comintern gli comunicarono che sarebbe stato inviato a una scuola d'aviazione, per diventare pilota. Studiò a Zaraisk, poi all'istituto di aviazione Kacinskoie, vicino a Sebastopoli. Non conoscendo ancora bene il russo, non aveva la possibilità di studiare a fondo le discipline teoriche tecnico-aviatorie; però osservando gli esperti istruttori e i compagni imparò ugualmente con relativa facilità. Nei giorni di pioggia e di neve riparava i motori degli aerei, mettendo a profitto l'esperienza maturata alla Fiat. Alla fine del corso Primo venne promosso a pieni voti.

Ottenuto il brevetto di pilota nel 1923, tornò in Ucraina per il servizio militare. Qui strinse una grande amicizia con il compagno Valeriano Maraz, che militava nel suo stesso reparto, e nel 1924 ne sposò la figlia Valentina. L'anno dopo, con il grado di tenente, prese parte alla lotta, insieme agli aviatori di Rostov, contro le ultime sacche di resistenza controrivoluzionaria nel nord del Caucaso e dell'Asia centrale. Un giorno, mentre a volo radente mitragliava gruppi di nazionalisti musulmani in una regione deserta, il suo aereo venne abbattuto da una scarica di fucileria.

Gibelli non si perse d'animo: dopo aver riparato alla meglio l'apparecchio riuscì a riprendere il volo, quando già vedeva in lontananza avvicinarsi un gruppo di cavalieri basmaci, che sicuramente gli avrebbero tagliato la testa o, come erano soliti, lo avrebbero seppellito vivo nella sabbia del deserto. Per essere riuscito a salvare, con la vita, anche l'aereo, che in quei tempi di magra era preziosissimo, ricevette la sua prima decorazione: l'ordine della Bandiera rossa di combattimento.

Nel 1928, sul finire dell'inverno, ebbe modo di distinguersi un'altra volta. Un gruppo di pescatori si era spinto sulla banchisa nel mar d'Azov per pescare più agevolmente. Il mare era brutto, ma la banchisa sembrava solida. A un tratto un'onda enorme si abbatté sul lastrone di ghiaccio staccandolo di netto. Aggrappati agli arpioni i pescatori andavano alla deriva pericolosamente sul mare grosso. Dalla base fu lanciato l'allarme. Gibelli accettò di sorvolare a bassa quota il mare in tempesta e, localizzati i naufraghi, guidò la nave del salvataggio. Per questo fu chiamato a Mosca e decorato con l'Arma personale: una pistola artisticamente lavorata, con dedica personale e diploma del comitato esecutivo della Russia.

Divenne poi pilota-istruttore, risiedendo a Rostov sul Don. (Intanto il governo fascista italiano proseguiva le ricerche sul suo conto. Venne arrestato il padre che però, nonostante le percosse, non parlò. Sarà attraverso l'ambasciata italiana a Mosca che la polizia fascista otterrà le informazioni richieste). Purtroppo Gibelli era anche un collaudatore spericolato. Paolo Robotti ricorda nel suo libro La prova che un giorno Primo scommise con un altro pilota che anche lui, come già Ckalov, sarebbe passato in volo sotto uno dei ponti della Moscova, dietro il Cremlino.

Si portò sul fiume, picchiò in basso ma non riuscì più a mettere in linea l'aereo. Così andò dritto sul fondo della Moscova, rompendosi le ossa e fracassando l'apparecchio. Dopo l'ospedale fu punito. Però non la smise con la sua temerarietà, che giustificava dicendo di voler provare i limiti dell'apparecchio in volo. E cosi, insieme al celebre Ckalov e ad altri piloti, fu escluso dai quadri dell'esercito: pena poi commutata nel divieto di volare. Promosso infatti maggiore, venne incaricato del collaudo a terra dei motori d'aviazione, poi, a Mosca, di quelli della fabbrica d'automobili.

Nel 1926 gli nacque la figlia Ernestina e nel 1934 riuscì a far venire a Mosca i suoi genitori, che vi si stabilirono definitivamente, legandosi d'amicizia con la famiglia di Gramsci, che sperava ancora nella scarcerazione di quest'ultimo. Nel 1936, durante l'insurrezione fascista in Spagna, Gibelli, raccomandato da Togliatti, ottenne il permesso d'essere inviato come volontario nel reparto internazionale dell'aviazione repubblicana.

Volare era la sua passione e combattere il fascismo la ragione della sua vita. Pur di partire subito, accettò di pilotare vecchi apparecchi, senza aspettare l'arrivo dei nuovi. Per il primo attacco Gibelli mise a punto una nuova tattica, che poi in seguito sarà adottata normalmente, dando buoni risultati: bisognava arrivare a bassa quota sull'obiettivo, per non essere intercettati, riprendere prontamente altezza bombardandolo e ridiscendere in picchiata mitragliando quanto restava, per coprirsi la ritirata e sparire nel nulla.

Con una tattica del genere la squadriglia internazionale “Lafayette”, composta di aerei vecchi e malandati, i Breguet XIX, difformi nel tipo e nella velocità, guidati da piloti che per la diversità delle lingue stentavano a capirsi, fece cose assolutamente eccezionali. Per questa ragione Gibelli fu promosso comandante dell'aereo Potez 540 con sette uomini di equipaggio. Ma proprio con un bombardiere del genere Gibelli venne abbattuto.

Madrid andava difesa a tutti i costi distruggendo le colonne nemiche in marcia verso la città. Al comando dell'operazione era il colonnello Demenciuk. I quattro Potez 540 stavano per raggiungere l'obiettivo quando il comandante, visto che i caccia di protezione ancora non erano arrivati e che le perdite di quei giorni erano state considerevoli, decise di invertire la rotta, avvisando i piloti, sprovvisti di radio, attraverso i vetri della carlinga.

Solo dopo parecchi minuti ci si accorse che mancava l'aereo di testa, quello di Gibelli. Non aveva visto il segnale di ritirarsi o aveva voluto eseguire lo stesso l'ordine ricevuto? Mettersi in contatto con lui era impossibile e neppure tornare a cercarlo. Una volta atterrati si attendeva con ansia il suo rientro. Dopo parecchie ore il comando delle forze terrestri comunicò che l'obiettivo prefissato era stato colpito e distrutto - dal solo aereo di Gibelli!

Conclusa l'operazione, Gibelli e i suoi si erano trovati nel mezzo di un nutrito fuoco di sbarramento. L'aereo colpito e in fiamme cadde sul territorio nemico. I soldati della fanteria repubblicana appostati a pochi chilometri videro parecchi uomini lanciarsi col paracadute. Cinque giorni dopo un aereo nemico sorvolando Madrid paracadutò una cassa scura senza sparare un colpo. Nessuno osava avvicinarsi: si temeva fosse piena d'esplosivo. Finalmente qualcuno ebbe il coraggio d'aprirla. Sotto gli occhi inorriditi di una folla accorsa sul posto vi era, avvolta in un lenzuolo, una testa decapitata e sotto, a pezzi, i resti d'un corpo umano martoriato da evidenti segni di tortura: non fu facile l'identificazione, ma nessuno aveva dubbi. Dall'archivio del ministero della Difesa dell'Urss si venne poi a sapere che Gibelli era stato l'unico a essere risparmiato, dopo il lancio col paracadute, perché tutti gli altri, una volta atterrati, erano stati uccisi sul posto. Dai gradi che portava sapevano che doveva essere a conoscenza di segreti militari, di prossime operazioni e soprattutto della dislocazione dei vari campi d'aviazione militari. Ma Primo non aprì bocca.

Per questa azione venne insignito dell'alta onorificenza di Eroe dell'Unione Sovietica: fu il primo straniero a riceverla e fra i primi in assoluto a essere decorato con l'Ordine di Lenin. Ancora oggi viene ricordato e onorato da tutti gli operai delle fabbriche di automobili di Mosca. Nel 1971, in occasione del 500° anniversario della fondazione del Pci, venne consegnata una medaglia d'oro dal segretario Longo alla figlia di Primo, Ernestina, appositamente giunta da Mosca. Nel settembre 1981 la stessa figlia ottenne finalmente il permesso di entrare in Spagna per mettersi alla ricerca della tomba del padre e per avere altre testimonianze sulla sua vita.

Purtroppo però nel periodo fascista le salme dei repubblicani caduti erano state asportate e al loro posto allestito un cimitero civile. Anche tutti i documenti dell'epoca furono distrutti e non si poté recuperare niente. Il cimitero è a Fuancarral, alla periferia di Madrid. Sul muro di cinta è stata posta una grande lapide commemorativa.


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Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Storia
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Aggiornamento: 04/12/2012