LA RIVOLUZIONE D'OTTOBRE
dall'esordio al crollo


LE ORIGINI DELL'INDUSTRIALIZZAZIONE DELL'URSS

Alle origini dell'industrializzazione dell'URSS vi è senza dubbio il "piano di elettrificazione" del Paese (GOELRO), approvato dal XVIII congresso dei soviet nel dicembre 1920. Conformemente a tale piano si doveva non soltanto ricostruire in 10 anni tutta l'economia nazionale, ma anche portarla a un livello avanzato. Si trattava, in primo luogo, di allestire un'industria che permettesse di meccanizzare l'agricoltura, l'edilizia e i trasporti. Progetto, questo, che s'ispirava alle idee di Lenin di costruire non soltanto una potente industria, ma anche la gestione statale del processo d'industrializzazione della popolazione, le cui caratteristiche salienti erano la massiccia urbanizzazione e la crescita numerica della classe operaia.

Il piano GOELRO venne elaborato mettendolo in relazione alle teorie marxiste sulla riproduzione allargata, e in tutte le sue sezioni esso era supportato da calcoli dettagliati sulla quantità necessaria di energia, materie prime, materiali da costruzione, personale e manodopera, ecc. Si forniva anche una stima delle spese indispensabili per ristabilire e potenziare l'industria e i trasporti. Più di 1/3 degli investimenti dovevano essere ottenuti non da fonti interne, ma da concessioni e crediti stranieri.

Tuttavia, le speranze di migliorare la situazione economica grazie a uno sviluppo industriale rapido, incontrarono subito seri ostacoli. Nel 1921 il Paese non aveva ancora superato la soglia critica della propria sopravvivenza: la mancanza di combustibili, di materie prime, di energia obbligava a chiudere le imprese, intere branche produttive. La razione quotidiana di pane doveva essere ulteriormente ridotta. Preoccupati di non lasciar morire di fame i propri familiari, gli operai abbandonavano le fabbriche, dando vita al fenomeno dell'esodo urbano.

A ciò si deve aggiungere il calo della produzione agricola, la quale nel 1920 era del 33% inferiore a quella del 1913, l'ultimo anno prima del conflitto mondiale (quello che spesso gli economisti sovietici utilizzano a fini statistici). Dopo la fine della guerra civile e dell'intervento straniero (1918-20), i contadini non accettarono più le requisizioni del grano (praticate nel corso del "comunismo di guerra"), anche perché l'industria nazionalizzata non era ancora in grado di offrire loro i beni di cui avevano veramente bisogno. Il tentativo di forzare la costruzione del socialismo attraverso "l'assalto" - come diceva Lenin -, ovvero scegliendo "la via più corta, più rapida e più diretta", era fallito clamorosamente. La NEP, che sostituì il "comunismo di guerra", si pose appunto il compito di realizzare le condizioni preliminari per la transizione graduale al socialismo.

Tutti i piani adottati nel 1920, che mettevano l'accento sulla ricostruzione prioritaria della grande industria (specie quella pesante), vennero rimessi in discussione, pur nel rispetto dell'idea-madre di elettrificare l'intero Paese.

Nel 1918-20 l'anello principale della pianificazione della produzione, era rappresentato dalle direzioni settoriali del Consiglio superiore dell'economia nazionale. Tale Consiglio (CSEN) era stato istituito dopo la crisi del 25 ottobre 1917, allorché gli imprenditori capitalisti risposero alla rivoluzione col sabotaggio: niente salari e niente investimenti. Le fabbriche praticamente erano bloccate, la fame imperversava nelle città, già rovinate da tre anni di guerra mondiale. Il 26 ottobre lo stato-maggiore della rivoluzione, che era riunito nell'Istituto Smolny, iniziò a discutere la questione del controllo operaio e della creazione di un organo di gestione dell'economia. Il 14 novembre il governo emanò il relativo decreto, forte della consapevolezza che "il socialismo - come dirà Lenin - non può stabilizzarsi e consolidarsi finché la classe operaia non ha imparato a dirigere l'economia". Così nacque il Consiglio superiore dell'economia nazionale.

A tale decreto i maggiori capitalisti risposero, a Pietroburgo, adottando una categorica risoluzione: "Le imprese il cui personale rivendicherà il controllo operaio, siano chiuse". Il 1o dicembre il Comitato esecutivo centrale approvò lo statuto del CSEN, il quale rispose subito ai tentativi di sabotaggio con la confisca delle imprese: dapprima quelle individuali, poi i gruppi e nel gennaio 1918 intere branche industriali. Il 28 giugno fu emanato il decreto sulla nazionalizzazione dei principali settori industriali. Ora bisognava non soltanto far produrre l'industria per il mercato, ma anche riconvertire quella bellica a scopi civili.

La gestione operaia dell'industria, in poco più di un anno, effettuò una trasformazione più profonda e più complessa della stessa rivoluzione politica, confutando nei fatti la teoria borghese che vedeva nella rivoluzione un mero colpo di stato compiuto da un pugno di bolscevichi che avevano imposto al popolo la loro volontà. Difficilmente la Russia sovietica avrebbe potuto resistere all'aggressione di 14 paesi stranieri e alla guerra civile, senza l'aiuto dei comitati di fabbrica e di officina che erano stati istituiti ancor prima della rivoluzione (ad es. dei 4.400 presenti nelle imprese della Russia europea, almeno la metà erano anteriori alla rivoluzione). Nel maggio 1917 essi erano così forti che i loro delegati si riunirono in una conferenza formando un Consiglio centrale dei comitati di fabbrica e officina. L'idea stessa di creare il CSEN nacque in seno a tale Consiglio.

In migliaia d'imprese gli operai s'interessavano dello stato della produzione molto più degli stessi imprenditori, molti dei quali, durante la guerra, non pensando che ad arricchirsi con le commesse belliche, non si erano preoccupati della manutenzione dei macchinari e ora ritenevano fosse più vantaggioso abbandonare tutto, oppure aggravare ulteriormente la situazione finanziaria per fare pressione sui sindacati e per chiedere nuove sovvenzioni statali.

Il primo presidente del CSEN fu V. Obolenski, di cui Lenin apprezzò notevolmente il talento organizzativo, anche se all'inizio del 1918 egli si oppose alla firma del trattato di pace con la Germania (Brest-Litovsk) e in seguito appoggerà i "comunisti di sinistra" contro la NEP. Il secondo presidente fu A. Rykov (nominato nel febbraio 1918), il quale però decise di dimettersi per divergenze dalla politica leniniana.

Il CSEN operò in diversi settori, progettando nel breve e nel lungo periodo, in condizioni durissime, poiché vi erano la guerra e lo sfacelo economico. Il 16 agosto 1918 istituì al suo interno il Dipartimento scientifico e tecnico, che nel biennio 1918-19 intraprese, a sua volta, il progetto d'istituire 33 Centri di ricerca (alimentazione, tessile, chimica applicata, aeroidrodinamica, ecc.). Il lavoro di questi Centri non venne bloccato dal burocratismo, né dalla fame o dal dissesto economico e neppure dal sabotaggio dei funzionari del passato regime, ma dall'intervento straniero e dalle guardie bianche. Tuttavia, subito dopo la vittoria dei bolscevichi, essi ripresero a funzionare. Con la formazione dell'URSS (1922) si pose naturalmente la questione di fondare un CSEN federale: cosa che fu fatta il 30 ottobre 1923. Stalin, tuttavia, il 5 gennaio 1932, lo trasformerà nel Commissariato del popolo per l'industria pesante, con a capo G. Orgionikidze.

Questi centri di ricerca avevano il compito di fissare gli obiettivi della produzione, di distribuire le materie prime fra le imprese, commercializzandone i prodotti. Officine e fabbriche, all'inizio della rivoluzione, non avevano relazioni commerciali dirette tra loro e non fruivano di diritti legalmente riconosciuti. Tutto il rifornimento materiale e tecnico avveniva su ordinazioni, senza che le imprese pagassero alcunché per le materie prime, il combustile, i macchinari, ecc. Così pure, i loro prodotti finiti venivano spediti solo agli acquirenti designati dal potere centrale.

Con l'entrata in vigore della NEP ci si rese immediatamente conto che le condizioni del funzionamento dell'industria dovevano essere del tutto modificate. I trusts, ognuno dei quali comprendeva molte imprese, vennero autorizzati a pagarsi in proprio le materie prime, il combustibile, ecc., a vendere i loro prodotti finiti, a preoccuparsi dell'organizzazione della produzione, della sua redditività, ecc. Il governo, in pratica, li obbligava a operare sulla base del calcolo commerciale.

Naturalmente la maggior parte dei managers industriali non aveva esperienza in materia, essendo essi abituati a lavorare nel contesto del "comunismo di guerra", cioè con la rigida centralizzazione e i metodi di gestione volontaristi e amministrativi. La stessa idea di un'attività commerciale e d'una libera iniziativa scandalizzava non pochi comunisti, i quali ritenevano indegno d'un militante sostenere le attività di profitto. Ecco perché la NEP, inizialmente, partì con molta lentezza.

Ad essa, p.es., si oppose l'erronea strategia che alcuni dirigenti del CSEN adottarono relativamente alla decisione di aumentare i prezzi della produzione industriale. In un primo momento la direttiva del luglio 1923, firmata dal vicepresidente G. Piatakov, non incontrò contestazioni di sorta, poiché era opinione comune che in tal modo si potesse accrescere la redditività delle imprese e quindi l'accumulo dei capitali, utile allo sviluppo industriale e al benessere degli operai.

A quel tempo però l'agricoltura era stata riattivata solo al 70% del livello prebellico (1913), e la grande industria solo al 39%. La disparità di questi ritmi comportava, da un lato, l'incremento dei costi della produzione industriale e, dall'altro, la flessione dei prezzi delle derrate agricole. Di qui la crisi nello smercio dei prodotti. I depositi erano stracolmi di merci inaccessibili al grande pubblico, soprattutto ai milioni di contadini. La vita stessa sembrava respingere l'idea di uno sviluppo accelerato dell'industria a detrimento della campagna.

Tuttavia, proprio nel 1924 venne propagandata, con insolito vigore, la cosiddetta teoria dell'"originaria accumulazione socialista". Un noto leader di partito e responsabile di governo, E. Preobrajenski (1886-1937), chiese addirittura di considerare la piccola produzione contadina alla stregua di una "colonia interna", principale fonte del rilancio industriale. A suo parere, compito dello Stato socialista era quello di prelevare al produttore piccolo-borghese (cioè essenzialmente al contadino) molti più beni di quanto poteva fare uno Stato capitalista. Tra i leaders del partito che si opposero a questa teoria, vanno senza dubbio ricordati N. Bucharin, A. Rykov e, anche se può apparire strano, lo stesso Stalin.

Verso la metà degli anni '20 l'economia nazionale, sulle orme della NEP, stava per raggiungere gli indici del 1913. Le difficoltà continuavano ad essere enormi, poiché non si trattava soltanto di modernizzare le imprese esistenti, ma anche di costruirne ex-novo. Il Paese infatti restava essenzialmente agricolo e la maggioranza dei lavoratori praticava un lavoro manuale. In città la disoccupazione era ancora preoccupante, mentre la campagna era sovrappopolata.

La necessità di procedere alla costruzione di nuove imprese industriali trovò un'eco favorevole nelle decisioni della XV conferenza del partito (aprile 1925), in quelle del III congresso dei soviet dell'URSS (maggio 1925) e nei documenti del GOSPLAN (commissione statale di pianificazione). L. Trotski, membro del politburo del CC, era uno dei più zelanti sostenitori della concentrazione delle forze nel settore industriale dello Stato. A quell'epoca egli lavorava nel CSEN. A suo giudizio, l'insieme dei vantaggi del governo sovietico avrebbe permesso di raddoppiare se non di triplicare i ritmi d'industrializzazione del Paese in rapporto al 1913. Gli oppositori di Trotski giustamente consideravano queste tesi come un appello alla "superindustrializzazione", da farsi a totale carico della campagna, con la minaccia più che sicura di creare un divario incolmabile tra città e campagna, fino a spezzare l'alleanza operaio-contadina e minare le basi della NEP.

Le storiche decisioni vennero prese al XIV congresso del partito (dicembre 1925), definito da Stalin, nel 1930, come quello dell'industrializzazione. Più tardi, nel Breve corso di storia del Pc(b) dell'URSS (1938), si dirà che questo congresso adottò "il piano staliniano d'industrializzazione socialista", ma lo stesso Stalin non affermò mai questo nelle sue opere apparse subito dopo il congresso.

L'importanza del XIV congresso consiste anzitutto nell'aver definito le grandi opzioni della politica economica e nel considerare l'industrializzazione una linea strategica generale del partito. Il rapporto politico del CC (letto da Stalin) e la risoluzione (il cui progetto fu preparato da Bucharin) spiegano il leit-motiv di tale opzione: trasformare l'URSS, sul piano tecnologico, da Paese importatore a Paese esportatore, in modo tale che nel contesto dell'accerchiamento capitalistico, l'URSS divenga uno Stato economicamente indipendente, capace di costruire il socialismo.

Tuttavia, né il suddetto rapporto né le risoluzioni del congresso contenevano indicazioni concrete, per il breve e lungo periodo, circa le fonti dell'accumulazione, i tassi di crescita industriale, le correlazioni intrasettoriali, l'organizzazione dei nuovi cantieri, la formazione dei quadri, ecc. Nel 1925, né Stalin, né Bucharin, né i loro seguaci disponevano di un piano integrale delle trasformazioni economiche, né avevano idee precise sui ritmi e sui metodi dell'industrializzazione. Stalin, p.es., s'oppose risolutamente all'elaborazione d'un progetto di costruzione d'una centrale idroelettrica sul Dniepr, che avrebbe potuto stimolare lo sviluppo industriale dell'Ucraina meridionale, non tanto per motivi economici, quanto per contrastare i progetti di Trotski e di Dzerjinski. Per le stesse ragioni si oppose alla costruzione d'un oleodotto in Transcaucasia e di nuove fabbriche e officine a Leningrado e a Rostov. E' assurdo quindi parlare di un "piano staliniano d'industrializzazione". L'unica vera preoccupazione di Stalin era quella di estromettere dalla direzione del partito e del governo i suoi avversari politici, il primo dei quali era Trotski.

Nell'aprile 1926 il plenum del CC del partito affrontò di nuovo la politica economica, che era in quel momento la questione principale. Il rapporto d'apertura fu presentato da Rykov, presidente del Consiglio dei ministri. Esso rifletteva l'opinione di numerosi e qualificati economisti, funzionari di partito e amministratori, favorevoli a uno sviluppo rapido dell'agricoltura, che - secondo loro - avrebbe richiesto il minimo degli investimenti, permettendo così d'esportare molto più grano e d'importare tecnologia e materie prime indispensabili allo sviluppo industriale. Preobrajenski e un gruppo di suoi seguaci continuavano invece a ritenere insufficiente il ritmo previsto per l'industrializzazione. A loro giudizio, i crediti destinati all'industria erano irrisori e la condannavano fatalmente a non soddisfare i bisogni della campagna e dell'economia nazionale.

Al plenum, Rykov esaminò nel dettaglio le difficoltà che presentava l'industrializzazione d'un Paese agricolo come la Russia. Egli affermò che il successo dell'industrializzazione poteva dipendere solo dall'accumulazione dei capitali (fatta dalla stessa industria), nonché dall'aiuto che altri settori economici (anzitutto l'agricoltura) le avrebbero fornito. Rykov condivise l'idea secondo cui, posto uno scambio equivalente tra industria e agricoltura, l'industrializzazione sarebbe fallita, mentre l'agricoltura sarebbe rimasta la fonte essenziale del finanziamento dei cantieri industriali. Egli tuttavia sottolineava che le somme da prelevare nelle campagne non avrebbero dovuto superare il limite del ragionevole. Approvando i calcoli del GOSPLAN, Rykov ritenne ammissibile una crescita della produzione industriale lorda del 23% negli anni 1926-27, del 15,5% per il 1928-29 e del 14,7% per il 1929-30. In pratica aveva accettato uno sviluppo forzato dell'industria.

Significativo è il fatto che, nonostante tutti gli interventi al plenum ribadissero l'importanza di salvaguardare l'intesa operaio-contadina, le conclusioni che si traevano non erano uniformi. Così, ad es., Trotski dichiarò che si sottovalutavano le possibilità d'una rapida industrializzazione. Rifiutando le "opzioni minimaliste" del GOSPLAN, egli propose di accrescere il volume dei grandi lavori previsti per il quinquennio seguente, in modo da ridurre il più possibile la sproporzione fra l'industria e l'agricoltura, almeno fino al livello pre-rivoluzionario. Solidale con Preobrajenski, Trotski sottolineava il fatto che il Paese si trovava all'inizio dell'accumulazione socialista, il che implicava la mobilitazione generale delle forze e dei mezzi a favore dell'industrializzazione. A suo parere, la Russia sovietica doveva seguire l'esempio della giovane borghesia che, nel momento della propria accumulazione primitiva capitalistica, aveva accettato l'idea di dover compiere innumerevoli sacrifici, risparmiando ogni copeco per investirlo anzitutto nella produzione (da notare che per Trotski era stata la "borghesia" e non i "lavoratori" a fare i sacrifici).

Senonché la maggioranza del CC, fra cui Stalin, sostenne Rykov e criticò violentemente Trotski. Stalin dichiarò nel suo intervento che l'industria doveva poggiare sulla prosperità graduale della campagna. Egli qualificò i piani di Trotski di avventurismo e di astrattezza, poiché essi non tenevano conto delle reali potenzialità dell'agricoltura. Di lì a poco però, appena dopo essersi liberato di Trotski, Stalin affermerà esattamente il contrario, e cioè che l'industrializzazione andava fatta a qualsiasi costo. Quando nel dopoguerra si procederà alla pubblicazione delle sue opere, egli ometterà del tutto, fra l'altro, questi interventi fatti nel 1926.

Nell'autunno 1926, la XV conferenza del partito lanciò uno slogan ambizioso: superare il capitalismo nel più breve tempo possibile. Gli investimenti nei grandi lavori, previsti per gli anni 1926-27, furono notevolmente incrementati. Nonostante le precedenti controversie, la conferenza si pronunciò in favore della costruzione d'una centrale elettrica sul Dniepr, che poi diventerà la maggiore d'Europa. Sia Stalin che Bucharin e Rykov esortavano a sviluppare intensivamente l'industria, facendo dipendere il benessere dei lavoratori proprio dalla realizzazione di tale progetto.

Anche le risoluzioni del XV congresso del partito (dicembre 1927) mettevano l'accento su uno sviluppo senza crisi. Le direttive del congresso, riguardanti il primo piano quinquennale, evidenziarono la necessità di assicurare l'equilibrio fra accumulazioni e consumi, fra industria e agricoltura, fra produzione di mezzi produttivi e beni di consumo. Le direttive erano basate sull'analisi scientifica della natura e delle possibilità d'una tale politica, onde accrescerne al massimo l'efficacia.

Assai più difficile era definire i ritmi dello sviluppo. Il congresso propose, come soluzione ottimale, quella di partire non dai tassi di massima accumulazione per i primi anni del piano, ma da un equilibrio ragionevole dei vari elementi dell'economia nazionale, in grado di assicurare un buon sviluppo nel lungo periodo. Disgraziatamente, la lotta per la leadership che si scatenò ai vertici del partito, impedì di rispettare queste direttive. Nel contempo, s'andava affermando il sistema di gestione burocratico.

Il 3 luglio 1926 Dzerjinski, che era presidente del CSEN, in una lettera indirizzata a V. Kuibishev, si lamentava di vedere i leader del partito coinvolti in squallide lotte di potere, e proprio mentre il Paese aveva bisogno di una stabilità governativa al fine di realizzare nel migliore dei modi l'industrializzazione. Per questo motivo egli temeva il sorgere di una dittatura che avrebbe affossato la rivoluzione. Come noto Dzerjinski morì in quello stesso mese, subito dopo aver detto queste medesime cose al plenum del CC.

L'elaborazione finale del piano quinquennale si svolse in condizioni assai contraddittorie. La NEP continuava a funzionare, assicurando l'autonomia economica dei trust industriali e dei sindacati dei commercianti, autorizzando gli scambi commerciali, l'organizzazione delle fiere, la convocazione di congressi federali e locali del commercio, ecc. Sia nel '27 che nel '28 gli indici di crescita della produzione industriale avevano superato quelli del piano, e continuavano a migliorare. Per due anni di seguito si ridussero i costi di produzione e aumentarono i profitti. Lo Stato, attraverso un ramificato sistema fiscale, imponeva tasse ai produttori, arrivando a concentrare nelle sue mani somme sempre più ingenti. I profitti delle imprese permettevano di coprire fino al 40% degli investimenti diretti all'industrializzazione.

E tuttavia, Stalin e il suo staff cominciarono a sostenere, nel 1928, l'idea che la NEP non era in grado di assicurare uno sviluppo sostenuto della produzione industriale. Essi cioè ritenevano che l'ampiezza dei nuovi cantieri era tale per cui occorrevano ben altri metodi di gestione e di finanziamento. Questa idea traeva la sua ragion d'essere nelle difficoltà emerse a livello di stoccaggio del grano, a causa sostanzialmente di una politica dei prezzi a danno dei cereali panificabili. Si temeva che le città potessero restare senza pane. Nel biennio 1925-26 si era dovuto affrontare lo stesso problema: allora si ridussero gli investimenti nell'industria, rallentando provvisoriamente i suoi ritmi di sviluppo. La situazione così era potuta migliorare.

Ma nella primavera del '28, Stalin mise in guardia dal rallentare i ritmi della crescita industriale, anzi, chiedeva addirittura di aumentarli. Il problema delle forniture di grano andava risolto in altro modo. Nel discorso al plenum del CC di luglio (che sarà pubblicato solo dopo la II guerra mondiale), egli non soltanto chiese di incrementare i prezzi dei prodotti industriali venduti ai contadini, ma parlò anche di un "tributo", cioè di sopratassa da imporre all'agricoltura, proprio per finanziare i ritmi accelerati dell'industrializzazione. Nello stesso intervento, e non a caso, egli arrivò anche a giustificare la sua errata tesi secondo cui la lotta di classe s'acuisce al progredire del socialismo.

Kuibishev, che intanto era diventato presidente del CSEN, si trovava pienamente d'accordo con Stalin. Egli infatti affermò che sulla questione dei tassi di sviluppo industriale il partito non avrebbe dovuto fare alcuna concessione, e che quanto maggiori erano i successi del socialismo, tanto maggiore sarebbe stata la resistenza delle forze anticomuniste, sia interne che esterne al Paese.

Si prevedeva dunque una medesima politica per le città e le campagne. I metodi della sua applicazione sarebbero stati gli stessi: pressioni amministrative, pianificazione dall'alto, subordinazione incondizionata al potere centrale, ricorso a misure eccezionali in caso di necessità.

Per salvare la NEP e per opporsi alla politica staliniana, Bucharin intervenne prima al politburo, poi al plenum del CC di aprile e luglio 1928, e infine sulla stampa. In un articolo intitolato Note di un economista, scritto per la "Pravda", Bucharin affermava ch'era ingenuo pensare che un massiccio drenaggio annuale di risorse dalla campagna all'industria, avrebbe potuto assicurare i più alti ritmi di sviluppo industriale. Senza progressi reali nell'agricoltura -diceva- non ci sarebbe stato un durevole progresso industriale, il quale, peraltro, nell'ambito del socialismo, non si può certo porre come un processo parassitario nei confronti della campagna, ma piuttosto come uno stimolo allo sviluppo di quest'ultima.

Contro coloro che lo accusavano di frenare l'industrializzazione, Bucharin, in molti suoi interventi della fine degli anni '20 spiegava che per far decollare le nuove grandi imprese occorreva tener conto della quantità di materiali da costruzione realmente disponibili, oltre al fatto che il denaro di per sé non era sufficiente a far marciare l'industria, in quanto occorrevano quadri specializzati, macchinari adeguati, tempo sufficiente, altrimenti gli eccessivi investimenti avrebbero comportato una flessione dei ritmi di sviluppo e uno squilibrio tra i diversi settori produttivi. Bucharin, in sostanza, avvalendosi delle sue competenze economiche, chiedeva di affidarsi più alla scienza e meno al volontarismo, restando fedeli alla decisioni del XV congresso del partito (1927).

La risposta di Stalin non si fece attendere. Nel novembre 1928 il governo esaminò di nuovo il problema dei ritmi dello sviluppo economico e la possibilità d'investire di più nell'industria pesante. Il presidente del consiglio dei ministri, Rykov, ribadì la necessità di mantenere l'equilibrio tra offerta e domanda. Ma l'opinione dominante era del tutto opposta: lo squilibrio tra offerta e domanda - si pensava - avrebbe favorito uno sviluppo intensivo dell'industria. La maggioranza dei leader di partito e di governo era infatti dell'avviso che la carenza di merci sul mercato poteva essere un vantaggio dell'economia socialista, in quanto una certa eccedenza della domanda solvibile avrebbe spinto l'industria ad aumentare la sua produzione. Stalin, dal canto suo, era ancora più esplicito: egli chiedeva apertamente di rinunciare alla NEP e di ricorrere alle pressioni amministrative per accelerare lo sviluppo economico. Chi si opponeva a questa strategia confermava la tesi secondo cui i progressi del socialismo fanno aumentare la lotta di classe.


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Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Storia - Storia contemporanea
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Aggiornamento: 20/11/2012