LA STORIA CONTEMPORANEA
dalla prima guerra mondiale ad oggi


STATO D'ISRAELE: NASCITA E SVILUPPI

Gli ebrei fondatori dell'odierno Stato d'Israele si considerano i discendenti del popolo che fino a 1900 anni fa viveva nell'area che i romani chiamarono Palestina. Dopo la distruzione di Gerusalemme ad opera dei romani, e la ricostruzione della città, agli ebrei fu vietato risiedervi, per cui essi si sparsero in tutto il mondo, venendo ovunque perseguitati (perché di religione ebraica, usurai, ecc.).

La prima liberazione degli ebrei avviene con la Rivoluzione francese, che riconosce loro gli stessi diritti degli altri uomini. Ma l'uguaglianza giuridica ottenuta è solo formale: di fatto essi continuano a restare discriminati sul piano sociale e politico. Di qui il loro interesse prioritario per l'emancipazione economica (commercio. affari, usura, ecc.).

Alla fine dell'800 nasce un movimento politico ebraico mondiale chiamato SIONISMO (dalla città di Sion). Esso rivendica il diritto di tornare in Palestina, cioè di avere una propria nazione (ancora non si parlava di Stato indipendente). I sionisti rifiutano la proposta occidentale di trasferire gli ebrei in Argentina o in Uganda.

In attesa di ritornare in Palestina, molti ebrei cominciano a partecipare alle rivoluzioni comuniste dell'URSS e di altri paesi, al fine di poter avere una propria autonomia nazionale all'interno del paese in cui vivevano, senza però riuscirvi.

Intanto la Palestina, dopo essere passata dalle mani dei romani a quelle dei bizantini, finì nelle mani degli arabi, mentre dal 1517 al 1917 fu governata dai turchi.

In Palestina gli ebrei non sono mai mancati. Si sa, ad es., che quando fu fondata da ebrei russi, nel 1882, la prima colonia agricola, vi erano almeno 24.000 ebrei. Il fatto di mettersi a lavorare la terra in Palestina, dopo 2.000 anni, determinò subito dei gravi contrasti tra loro e i contadini arabi.

D'altra parte il ritorno degli ebrei in Palestina era sostenuto dall'Inghilterra, che voleva sottrarre ai turchi la Palestina e altri territori della regione mediorientale.

L'immigrazione degli ebrei in Palestina incontrò una battuta d'arresto: 1) con la I G.M., poiché molti
emigrarono verso le Americhe, 2) con la Rivoluzione bolscevica, che separò 3 milioni di ebrei dal resto della loro comunità mondiale.

Tuttavia, nel 1917 con la DICHIARAZIONE BALFOUR (ministro degli esteri inglese) l'Inghilterra si assicurava ufficialmente il compito di aiutare gli ebrei a tornare in Palestina.

Ma nel 1921 si hanno i primi scontri tra i palestinesi e gli immigrati ebrei che si appropriano di terre arabe.

Nel 1922 l'Inghilterra ottiene dalla Società delle Nazioni il mandato su Palestina e Transgiordania. Ora l'immigrazione viene molto più facilitata. Commercianti, intellettuali, religiosi diventano operai, contadini, costruttori, organizzatori, pur di poter realizzare la nuova nazione. Gli ebrei in Palestina passano da 57.000 nel 1918 a 450.000 nel 1939.

Le ostilità tra arabi e palestinesi aumentano notevolmente quando gli arabi si accorgono che in Irak e in Siria, Francia e Inghilterra si comportano come paesi colonizzatori. Non potendo avere l'indipendenza in Siria e Irak, la pretendono in Palestina.

A questo punto l'Inghilterra comincia ad adottare una posizione ambigua: da un lato favorisce l'immigrazione degli ebrei per tenere sotto controllo gli arabi, dall'altro la ostacola per timore di scontentare gli arabi.

In pratica dall'inizio degli anni '20 sino allo scoppio della II G.M. ebrei e palestinesi non fanno che combattersi, tanto che gli inglesi cominciano a pensare all'eventualità di dividere la Palestina in tre zone: una affidata agli ebrei (fascia costiera), una seconda affidata agli arabi (Stato arabo unito alla Transgiordania) e una terza in mano agli inglesi (Giaffa, Gerusalemme e Betlemme). Questo progetto naturalmente viene subito accettato dai sionisti e rifiutato dagli arabi.

Nel corso della II G.M. gli ebrei palestinesi si impegnano a fianco degli inglesi. Alla fine della guerra, quando gli inglesi si accorgono che i sionisti vogliono costruire uno Stato autonomo, indipendente dall'Inghilterra, cercano subito di bloccare la loro immigrazione in Palestina.

Dal 1945 al '48 gli ebrei iniziano la lotta contro gli inglesi, anche con azioni terroristiche, al fine di togliere il mandato all'Inghilterra e consentire la libera immigrazione agli ebrei superstiti di tutta Europa.

Quando alla lotta ebraica contro gli inglesi si associa anche quella araba, e soprattutto quando gli ebrei cominciano a chiedere l'appoggio degli USA, a partire dal '45, l'Inghilterra si vede costretta ad affidare all'ONU la soluzione della questione palestinese.

E l'ONU decide di dividere la Palestina in due Stati (33 voti a favore, 13 contrari [tutti i paesi arabi] e 10 astenuti [fra cui Inghilterra]). Lo Stato ebraico si sarebbe esteso sul 56% circa del territorio palestinese con 498.000 ebrei e 497.000 arabi; quello arabo sul 43% circa del territorio con 725.000 arabi e 10.000 ebrei; infine vi sarebbe stata una zona internazionale di Gerusalemme con 105.000 arabi e 100.000 ebrei. Il ritiro britannico era fissato definitivamente per il maggio 1948.

Quali furono le motivazione che spinsero l'ONU a proporre questa spartizione?
1) L'occidente nutriva forti sensi di colpa nei confronti degli ebrei sterminati dai nazisti.
2) L'URSS non si era opposta a questo progetto, aveva solo detto che l'ideale sarebbe stato uno Stato binazionale.
3) I palestinesi, in quel momento, non avevano la forza politica sufficiente per opporsi alla spartizione, né appoggi internazionali validi.
4) L'ONU era convinto che Israele avrebbe rispettato alla lettera il progetto.

Gli ebrei infatti accettano subito la spartizione, i palestinesi no. Gli scontri iniziano subito. Lo stesso giorno in cui gli inglesi se ne vanno si proclama a Tel Aviv lo Stato d'Israele, senza però riferirsi ai confini stabiliti dall'ONU. Poche ore dopo gli eserciti arabi di Egitto, Giordania, Siria, Libano, Irak e Arabia Saudita varcano i confini della Palestina e scatenano la Guerra arabo-israeliana del 1948-49, che si conclude in tal modo: alla Giordania la sponda occidentale del Giordano, all'Egitto la striscia di Gaza, ma i palestinesi non ottengono alcuno Stato, mentre Israele occupa il 78% del territorio della Palestina.

La seconda guerra è quella Israelo-egiziana, scoppiata nel 1956, in seguito alla nazionalizzazione egiziana della Compagnia che controllava il Canale di Suez. Francia e Inghilterra intervengono subito militarmente e Israele si allea con loro, in quanto l'Egitto aveva intenzione di chiudere il canale al suo commercio. Israele risponde occupando la penisola del Sinai, ma USA e URSS la costringono a riconsegnarla all'Egitto, il quale, in cambio, dovrà tenere aperto il canale per Israele. Il canale resta nazionalizzato.

La terza guerra è quella dei sei giorni del 1967. Inizia ai confini di Israele/Siria, ma prosegue in Egitto e in Giordania. L'Egitto chiude di nuovo il canale a Israele, ma gli ebrei lo attaccano all'improvviso con l'aviazione e si annettono l'intera penisola del Sinai, inclusa la striscia di Gaza. La Siria perde le alture del GOLAN. La Giordania perde la CISGIORDANIA. Alla fine della guerra Israele si trova ad occupare un territorio tre volte maggiore di quello previsto dall'ONU.

Le ostilità proseguono lungo il canale di Suez (guerra di usura o di attrito) negli anni 1969-70, con duelli di artiglieria, guerriglia, sabotaggi, improvvisi attacchi.

Intanto nel 1964 viene fondata l'OLP. Nel 1974 essa ottiene il riconoscimento dello status di osservatore dell'ONU.

Nel 1973-74 scoppia la guerra del Kippur o Ramadan, voluta dall'Egitto per riprendersi il Sinai e cacciare gli ebrei dal canale. Il mito della invincibilità d'Israele crolla. Egiziani e Siriani attaccano contemporaneamente. Israele è costretta a cedere una parte dei territori conquistati con le guerre precedenti, ma riesce ad occupare nuovi territori in Egitto.

Nel '77 l'Egitto fa un trattato di pace con Israele: per la prima volta un paese arabo riconosce lo Stato d'Israele. In cambio vuole la totale restituzione dei territori occupati.

Nel '78 a Washington si fa la pace di Camp David. Israele restituisce tutta la penisola del Sinai, i palestinesi ottengono una semplice autonomia amministrativa (ovvero Gaza e Cisgiordania restano a Israele). Gli accordi non piacciono al mondo arabo. L'Egitto viene isolato, per cui i suoi rapporti coll'occidente si fanno più stretti. Dopo l'assassinio del presidente egiziano Sadat, l'Egitto si riavvicina al mondo arabo.

Nel '78 Israele invade il sud del Libano, contro l'OLP e la sinistra libanese. Occupa Tiro. A tutt'oggi la zona non è stata completamente evacuata. Nessun paese arabo ha mosso un dito a favore dell'OLP. Per la prima volta in Israele gruppi di ebrei democratici protestano contro questa guerra che non ritengono difensiva.

Alla fine del 1987 scoppia l'Intifada in Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme-est.

Attualmente lo Stato d'Israele è sul 78% (contro il 56% assegnato dall'ONU) del territorio della Palestina, con 3.400.000 ebrei e 800.000 arabi. La Cisgiordania (compresa Gerusalemme-est) e la striscia di Gaza rappresentano il 22% del territorio, con 1.700.000 arabi e circa 80.000 ebrei. Su questi territori dovrebbe essere istituito lo Stato di Palestina proclamato nell'88 dall'OLP ad Algeri. La capitale dovrebbe essere Gerusalemme-est.

Sempre nell'88 l'OLP ha riconosciuto per la prima volta il diritto di Israele ad esistere secondo la formula "due Stati per due popoli" e ha ripudiato il terrorismo. Israele rifiuta la formula sia perché in questo momento domina i palestinesi, sia perché vuole avere tutta Gerusalemme come propria capitale. Attualmente Israele invia nuovi coloni nei territori occupati al fine di togliere la terra ai palestinesi costringendoli così a emigrare.

ISRAELE OGGI. L'ECONOMIA

Attualmente gli istituti specializzati dell'ONU classificano Israele tra i paesi capitalisti industrializzati dell'immensa regione asiatica, a fianco del Giappone. L'impetuosa crescita del suo potenziale economico negli anni 1950-70, i cambiamenti avvenuti nell'ultimo decennio, avvenuti nella struttura produttiva e nell'export hanno permesso a Israele di partecipare più attivamente agli scambi economici del capitalismo su scala mondiale. La sua quota nel PIL dei paesi capitalisti avanzati è passata da 0,22% del 1960 a 0,27% del 1970, per raggiungere lo 0,56% nel 1987. Quanto al PIL pro-capite, Israele supera i paesi a livello di sviluppo medio, come ad es. Spagna, Irlanda, Grecia, Portogallo, ed è sul punto di raggiungere l'Italia. Va crescendo anche la sua partecipazione alla divisione internazionale del lavoro, mentre la sua quota nell'export dei paesi capitalisti industrializzati è passata da 0,32% nel 1970 a 0,48% nel 1987 (la quota nell'import oscilla attorno a 0,60%). A questi dati si può aggiungere che il paese è povero di risorse naturali e che il suo territorio e la sua popolazione costituiscono, rispettivamente, lo 0,06% e lo 0,5% del suddetto gruppo di paesi.

Gli articoli di consumo corrente provenienti da Israele non sono pochi in occidente. Per molto tempo Israele si è limitata a esportare prodotti agricoli e derrate alimentari, oltre ai diamanti tagliati, all'abbigliamento, alle calzature ed ad alcune materie prime chimiche. La situazione ha cominciato a cambiare verso gli anni '70, allorché la politica statale ha favorito la crescita accelerata dell'industria chimica, delle costruzioni meccaniche (soprattutto dei mezzi di trasporto), dell'elettrotecnica ed elettronica. L'export ha acquisito un'importanza vitale per Israele.

Priva d'un mercato interno sviluppato e di materie prime in quantità sufficiente, essa dipende in gran parte dai legami economici esteri. In ciò la produzione industriale fa la parte del leone. Il rapporto export agricolo/export industriale è passato da 1 : 6 nel 1970 a 1 : 12 nel 1987 (il valore delle esportazioni, in questo periodo, è stato moltiplicato per undici). Alla metà degli anni '80 circa il 40% dei prodotti industriali erano esportati. Se vi si aggiunge la produzione dei materiali ausiliari (imballaggi, ecc.) la cifra supera il 50%. Nel 1985 Israele era fra i dieci più grossi fornitori capitalisti mondiali di prodotti dell'industria aeronautica, di attrezzature mediche elettroniche, di materiale ottico, di articoli di gioielleria e di alcuni tipi di fertilizzanti. La competitività di questi prodotti è dovuta alla loro notevole qualità e ai prezzi modici, sostenuti dallo Stato, nonché da un corso monetario non elevato. Ciò significa che le merci israeliane non hanno sbocchi facili.

Numerose imprese dotate di impianti sofisticati si sono specializzate nella produzione di armi. Nel 1981-85 esse rappresentavano il 22-25% del totale dell'export industriale e il 16-18% dell'insieme dell'export, ovvero dal 50 al 60% delle esportazioni dei prodotti forniti dall'industria di lavorazione dei metalli e dall'elettronica (settori ad alto contenuto tecnologico). Ovviamente la produzione di materiale militare non può servire da base per la specializzazione economica a lungo termine, per non parlare delle ricadute politiche o morali negative che può comportare la vendita di armi al Sudafrica, al Cile e alle peggiori dittature politiche dell'Africa e del Sudamerica. Senza il forte export industriale Israele non potrebbe sostenere un'industria bellica che attualmente occupa il 40% di tutti i lavoratori dell'industria.

L'intenzione iniziale di ripartire gli sforzi dell'export su tutto il ventaglio delle produzioni industriali o i tentativi di vendere prodotti altamente tecnologici in mercati ove la concorrenza è accanita, oggi non vengono neppure presi in considerazione. Alcune imprese che avevano cercato di guadagnare posizioni-leader in un determinato settore del commercio mondiale, non sono poi riuscite a lanciare una produzione di massa ad alta tecnicità. P.es. le imprese ELSCINT (simulatori medici) e SCITEX (computer grafici) sono fallite perché i loro sbocchi sono stati subito saturati con merci competitive prodotte in grande quantità dalle maggiori corporazioni occidentali. Espulse dal mercato nel 1986, ELSCINT e SCITEX hanno perso, rispettivamente, 116 e 33 milioni di $. Lo Stato è intervenuto per salvarle dalla bancarotta.

Quanto agli agricoltori, essi si sono specializzati in orticoltura e frutticoltura. Approfittando del clima, Israele s'è assicurata posizioni stabili in Europa occidentale, soprattutto nel periodo invernale. La qualità e l'ampia gamma dei prodotti, le forniture rapide hanno permesso agli agricoltori israeliani di vincere la concorrenza. I fiori, consegnati in una settimana, restano ancora freschi per 7-10 giorni. Gli agrumi e il cotone hanno un ruolo-chiave nell'export agricolo. L'impresa JAFFA è conosciuta in tutto il mondo: negli anni '80 ha avuto un export di agrumi superiore di due volte a quello della Grecia e di tre volte a quello dell'Egitto. Per quanto riguarda il cotone, il suo rendimento -grazie all'applicazione di tecnologie avanzate- è p.es. di due volte più elevato rispetto a quello delle repubbliche dell'Asia centrale sovietica. Inoltre, in questi ultimi anni si sono visti apparire sui mercati mondiali nuovi prodotti dell'export agricolo israeliano: avocadi, meloni, kiwi, arachidi e alcuni prodotti dell'avicoltura.

Nell'industria leggera le imprese evitano di concorrere con gli articoli a buon mercato provenienti da Hong Kong o da Taiwan. Il monopolio tessile POLGAT esporta in Europa e negli USA prodotti più cari ma di qualità. Nel 1985, ad es., esso ha fornito i magazzini britannici "MARKS & SPENCER" di abbigliamento per un valore di 85 milioni di $. Mentre nei settori civili dell'industria ad alto contenuto tecnologico si registra uno sbocco per le seguenti specializzazioni: informatica e programmazione, mezzi di comunicazione e computer, attrezzature mediche e preparati farmaceutici, elio-energetica, produzione di tecnologie chimiche sofisticate. Attualmente questi articoli non sono ancora fabbricati su vasta scala. Molto sviluppato invece è l'export dei diamanti tagliati. Nel 1987 sono stati tagliati 8 milioni di carati, l'import dei quali costa circa 1,6 miliardi di $, mentre l'export ha fatto guadagnare circa 2 miliardi di $.

L'ente che aiuta le imprese ad affermarsi all'estero è l'Istituto israeliano dell'export, che raccoglie e diffonde informazioni commerciali relative ai mercati, alle imprese concorrenti, offre consultazioni di ogni tipo, cura la pubblicità, organizza l'esposizione dei prodotti nazionali in 50-55 fiere internazionali: dalle sfilate di moda ai saloni aeronautici. Sono sempre meno i prodotti israeliani che vengono venduti con i marchi e le etichette di altri paesi. Il "made in Israel" si sta affermando a livello mondiale.

* * *

La base della moderna economia israeliana -paese di coloni- è stata creata importando forze produttive. Grazie all'afflusso di capitali esteri, attraverso ogni sorta di canali, le importazioni costituiscono una delle fonti più importanti della viabilità dell'economia nazionale. Da quando lo Stato esiste la quota dell'import è andata crescendo: dal 26% del 1960 è passata al 45,1% nel 1970 per raggiungere il 47,6% nel 1987 (calcolata ai prezzi del '70). Nei negozi israeliani i consumatori possono scegliere una gamma di prodotti molto ampia: dagli elettrodomestici nipponici alle derrate alimentari della CEE, dagli orologi svizzeri all'abbigliamento del Sud-est asiatico. Tuttavia, nel costo totale dell'import i beni di consumo occupano un posto modesto: dall'8 al 10%, in quanto la priorità viene concessa ai beni d'investimento (17,9%) e alle materie prime (70,8%) -così nel 1987.

L'import inoltre gioca un ruolo decisivo nella formazione dei fondi fissi per la produzione. Nella parte attiva degli investimenti, la quota dei prodotti importati quasi unicamente dai paesi capitalisti industrializzati cresce in proporzione allo sviluppo dell'economia israeliana, raggiungendo oggi i 4/5 nell'industria e nell'edilizia, i 2/3 nell'agricoltura, nel commercio e nel terziario. Viceversa, lo sviluppo delle costruzioni meccaniche ha permesso, negli anni '70, di ridurre di tre volte gli acquisti di impianti tecnici per i trasporti.

Israele, prive di risorse naturali di numerose materie prime, dipende assai considerevolmente dai fornitori stranieri per prodotti intermediari, come ad es. il carburante. L'aumento dei prezzi petroliferi negli anni '70, la restituzione all'Egitto della penisola del Sinai e dei suoi giacimenti petroliferi hanno scosso la stabilità dell'economia israeliana. Negli anni '80 il costo annuale dell'import petrolifero ha rappresentato fino ai 3/4 dell'ammontare del deficit della bilancia dei pagamenti del paese. A ciò si deve aggiungere che l'isolamento cui gli esportatori petroliferi del Vicino Oriente obbligano Israele, costringe quest'ultima a rifornirsi di greggio presso Norvegia, Messico e Venezuela, spendendo moltissimo nei trasporti.

Per quanto riguarda l'import di materiale bellico, negli anni '80 esso ha costituito circa il 40% del deficit della bilancia commerciale. Tuttavia, a partire dall'anno fiscale 1984/85 gli acquisti di impianti bellici vengono interamente coperti dall'aiuto americano gratuito. Dal 1948 ad oggi Israele ha ricevuto 1/10 (più di 30 miliardi di $) degli aiuti americani ai paesi stranieri. A tutt'oggi Tel Aviv riceve 1/3 di tutto l'aiuto economico estero americano (di cui 32 paesi beneficiano) e 1/4 del suo aiuto militare. Israele riceve più della metà della somma offerta dagli USA ai paesi mediorientali. E' appunto grazie all'appoggio americano che l'economia e il complesso militare riescono a sopravvivere.

D'altra parte è proprio attraverso Israele che Washington può accordare sovvenzioni dissimulate alle corporazioni militari-industriali americane. Ciò peraltro è particolarmente vantaggioso per le banche americane che beneficiano d'una parte considerevole dell'aiuto ufficiale a Israele, laddove si prevede il rimborso dei crediti e dei tassi d'interesse da parte di Tel Aviv. Attualmente l'aiuto americano va per intero al servizio dell'enorme debito estero, invece di accrescere l'import di beni di consumo e di altre merci civili.

Si tratta -come si può notare- di un modello di sviluppo dipendente. Il consumo dei beni e dei servizi supera sempre, largamente, la loro produzione. Dal 1948 ad oggi la produzione nazionale non è mai arrivata a coprire le spese di consumo e gli investimenti. Ciò ha impedito che il paese imboccasse con successo la via dello sviluppo economico intensivo. Lo scarto produzione/consumo è stato finora compensato, e continua ad esserlo, dall'afflusso estero di risorse monetarie e di merci, controbilanciato solo parzialmente dai mezzi finanziari e dalle merci di produzione nazionale. Praticamente da 1/5 a 1/3 del costo delle risorse utilizzate è stato coperto da importazioni non compensate dall'export. In particolare, sin dalla fine degli anni '60, il consumo militare -soprattutto la voce "import"- è divenuto il principale fattore di destabilizzazione.

Il deficit permanente della bilancia commerciale allarga sempre più il debito d'Israele, in quanto l'aiuto economico degli USA e di altri paesi capitalisti (così come le donazioni della diaspora ebraica) non sono sufficienti a colmare che una parte del deficit. Il debito interno ed estero di Israele ha raggiunto, nel 1988, 71 miliardi di $ (più di 2,5 volte il suo PIL annuale): è una somma astronomica per un piccolo paese.

Si potrebbe rimediare alla situazione aumentando l'export, ma la diminuita efficacia degli investimenti, negli anni '80, così come il calo del tasso di crescita della produttività del lavoro, hanno avuto per causa proprio il passaggio dalla specializzazione "civile" dell'industria allo sviluppo prioritario delle branche militari ad alta tecnologia. Il complesso militare-industriale di questo paese ha oggi dimensioni tali da poter manipolare l'economia fino al punto da considerare relativamente importante il ruolo della nazione nella divisione internazionale del lavoro.

Verso la metà degli anni '80 l'industria militare israeliana è entrata, per la prima volta nella sua storia, in un periodo di rapida regressione, anche a causa dei forti conflitti d'interessi con i complessi militari-industriali americani. Infatti Israele, che possiede delle tecnologie sofisticate, ha lanciato la produzione di quel materiale bellico (utilizzando impianti americani) che fino a ieri veniva fornito sul mercato mondiale dagli USA (ad es. materiale aeronautico e missilistico). Le compagnie militari americane non hanno per nulla accettato che Israele si sia affermata con successo sui loro mercati e su quelli euroccidentali.

La situazione degli esportatori israeliani di prodotti civili non è certo migliore: l'assenza di legami economici diretti coi paesi vicini limita alquanto la possibilità d'aumentare il numero dei contratti commerciali. Per più di 20 anni la Cisgiordania e la striscia di Gaza sono servite come sbocco dei prodotti israeliani. Negli anni '86-'87 questi territori occupavano ancora il secondo posto, dopo gli USA, fra i paesi importatori di prodotti israeliani. Inoltre Israele ha sempre cercato di sfruttare le terre palestinesi occupate come "ponte" per la vendita segreta dei suoi prodotti alla Giordania e ad altri paesi arabi. Nell'87 tale espansione commerciale le ha permesso d'intascare ben 642 milioni di $. Tuttavia, con l'insurrezione palestinese, cominciata nel dicembre 1987, la situazione economica d'Israele è andata velocemente peggiorando. Alla metà dell'89 le perdite dovute all'intifada s'aggiravano sui 2,5 miliardi di $. Solo nei primi sei mesi dell'88 il boicottaggio degli articoli israeliani da parte dei commercianti palestinesi ha provocato un danno di 200 milioni di $.

I leaders israeliani hanno cercato di reagire organizzando con le loro merci l'attacco economico dei mercati esteri più lontani, altamente competitivi e protetti da barriere doganali, come quelli della CEE e gli USA (i 2/3 del giro d'affari del commercio estero israeliano dipende da questi mercati). Nel maggio '75, come noto, è stato firmato un accordo fra CEE ed Israele per istituire progressivamente una zona di libero scambio che prevedesse la totale eliminazione, entro il '79, delle restrizioni relative ai prezzi e alla quantità dell'export industriale israeliano, e verso l'89 di quelle relative all'import industriale israeliano di merci provenienti dalla CEE. Tuttavia, nonostante le facilitazioni concesse alle merci israeliane, questo paese continua ad importare più di quanto riesca ad esportare. Nel 1987 il deficit del commercio con la CEE è stato di 3,6 miliardi di $, più dell'ammontare complessivo del debito estero israeliano in quell'anno. Naturalmente Israele ne fa risalire la causa agli stessi europei, i quali avrebbero voluto circoscrivere la zona di libero scambio ai soli prodotti industriali d'Israele, senza tener conto di quelli agricoli, che costituiscono più del 20% di tutto l'export israeliano verso la CEE. La situazione si è ulteriormente aggravata per Israele da quando Grecia, Spagna e Portogallo hanno ottenuto l'adesione alla CEE: i loro prodotti agricolo-alimentari sono fortemente competitivi.

Sviluppando la cooperazione strategica con Israele, gli USA hanno fatto un passo senza precedenti, firmando nel 1985 un accordo per istituire verso il 1995 una zona di libero scambio fra i due paesi. Ma sia quello americano che quello euroccidentale sono mercati soggetti spesso a fiammate protezionistiche. Ad es. nel settembre 1988 è stata varata negli USA una nuova legislazione commerciale che prevede la tutela del mercato nazionale. Già da oggi la lobby tessile americana, che è una delle più influenti negli USA, sta cercando d'introdurre delle quote d'importazione per il tessile israeliano.

Naturalmente Israele sa benissimo che se migliorasse i suoi rapporti col mondo arabo, la sua economia ne risentirebbe positivamente. La conquista dei mercati dei paesi arabi, il cui volume delle vendite annuali supera oggi i 100 miliardi di $, comporterebbe una sensibile crescita delle proprie esportazioni e il riequilibrio della sua bilancia commerciale estera. Secondo stime attendibili, il tasso di crescita annuale dell'export israeliano da qui al 1995, se il conflitto regionale fosse regolamentato, ruoterebbe attorno al 7,7%, mentre quello dell'import raggiungerebbe il 5,3%. Viceversa, se la situazione non si sblocca è previsto un tasso, rispettivamente, del 4,8% e 3,8%. Un rapporto pubblicato dal Fondo A. Hammer per la cooperazione economica nel Medio Oriente, nota che il volume del commercio d'Israele con tre soli paesi limitrofi: Egitto, Giordania e Libano, potrebbe far guadagnare ad Israele un miliardo di $.

LE AMBIZIONI COLONIALI DI ISRAELE

E' da più di 20 anni, cioè dall'aggressione del giugno 1967, che va avanti l'occupazione israeliana dei territori palestinesi: Cisgiordania, Gerusalemme-est e la striscia di Gaza. E ciò nel più totale disprezzo, da parte dei dirigenti sionisti, delle regole del diritto internazionale, delle risoluzioni dell'ONU e persino dei diritti elementari dell'uomo. Se l'occidente fosse intervenuto nella questione palestinese con la stessa tempestività, risolutezza e unità dimostrate nella attuale crisi del Golfo Persico, da tempo i palestinesi avrebbero avuto un loro Stato indipendente.

Il fatto è purtroppo che gli interessi in gioco sono ben diversi: nel Golfo l'imperialismo deve salvaguardare una risorsa energetica di vitale importanza; la Palestina invece non può offrire che questioni di carattere politico, sociale, giuridico, etnico-religioso, umano, ecc. L'occidente non può considerare più grave della prospettiva di pagare 2.000 £ un litro di benzina, il regime di terrore instaurato da Israele nei territori occupati, che si basa su arresti, torture, espulsioni, atti di terrorismo, case distrutte, scuole chiuse, terre confiscate, stampa proibita e via dicendo. Forse non tutti sanno che più di 200 colonie ebraiche sono state costruite prima del 1988 su queste terre. allo scopo di vincolare all'economia israeliana quella dei territori occupati, creando così le basi materiali per la loro futura e definitiva annessione politica.

Naturalmente gli ambienti sionisti insistono nell'affermare, con la loro potente macchina propagandistica, che l'occupazione avrebbe determinato l'espansione economica della Cisgiordania e della striscia di Gaza, ma le informazioni provenienti da quei territori dimostrano proprio il contrario. L'economia nazionale palestinese non esiste più: l'integrazione dell'economia di quei territori con l'economia d'Israele ha assestato un duro colpo alla viabilità economica dei palestinesi. Cisgiordania e Gaza non sono che appendici coloniali d'Israele, con una struttura agraria assai arretrata. Centinaia di disposizioni ufficiali e di norme governative regolamentano al dettaglio tutti gli aspetti della vita economica dei palestinesi, dal tipo di legumi e di frutta ch'essi devono coltivare sulle loro terre fino alle licenze degli artigiani per l'acquisto delle materie prime e lo smercio dei prodotti, incluso il diritto al rifornimento idrico. Cisgiordania e Gaza non sono che: 1) uno sbocco, giuridicamente protetto, per le merci israeliane, 2) una fonte di manodopera a buon mercato per Israele, 3) un canale d'espansione del commercio estero israeliano verso i mercati dei paesi arabi limitrofi.

E pensare che la regione feconda della Cisgiordania e il litorale mediterraneo della striscia di Gaza da tempi immemorabili sono note per la loro fertilità. Vigneti e campi lavorati, agrumeti e orticoltura fino a poco tempo fa erano apprezzati da tutto il mondo arabo. Ora, con la confisca di più della metà delle terre lavorate dai piccoli coltivatori palestinesi e con la ristrutturazione forzata dell'agricoltura non solo si è avuto un calo della produzione tradizionale, ma anche lo sviluppo di una produzione agricola utile solo al mercato d'Israele. Il risultato è stato che dal 1968 al 1983 gli agricoltori palestinesi sono passati dal 42 al 22% della popolazione attiva in Cisgiordania e dal 33% al 18% nella striscia di Gaza. In questi ultimissimi anni la situazione è andata ulteriormente peggiorando, e l'inizio dell'intifada, a partire dal dicembre 1987, lo documenta con eloquenza.

Stessa cosa è avvenuta nei confronti dell'industria palestinese. L'isolamento artificiale dalle fonti tradizionali di materie prime e dagli sbocchi commerciali (principalmente i paesi arabi limitrofi), la privazione di crediti finanziari alle imprese (a causa della chiusura degli istituti bancari in Cisgiordania e a Gaza), l'assenza di una base energetica sicura in questi territori occupati, o di infrastrutture indispensabili: tutto ciò ha profondamente ostacolato l'industrializzazione dell'economia palestinese. In Cisgiordania, è vero, vi sono circa 2 mila imprese, ma solo 60 impiegano più di 20 persone, e di queste solo tre hanno più di 100 lavoratori. Il resto è costituito da piccole attività familiari (ad es. gli atelier artigianali senza salariati dominano largamente nell'industria araba di Gaza). Le autorità israeliane non permettono ai palestinesi di creare nuove imprese industriali, ad eccezione dei piccoli laboratori subappaltati da ditte israeliane per la conciatura delle pelli o per la sartoria, normalmente supersfruttati, al pari delle imprese edilizie al servizio della popolazione israeliana ivi residente. In queste condizioni è del tutto naturale che i monopoli israeliani regnino incontrastati sul mercato dei beni industriali della Cisgiordania e di Gaza. Da notare, peraltro, che l'importanza di questi territori per l'export d'Israele viene subito dopo quella di USA, Germania e Gran Bretagna.

Non solo, ma Israele cerca anche di scaricare su queste zone tutto il peso delle contraddizioni cicliche del proprio capitalismo avanzato e di quelle subìte dal capitalismo mondiale. Nel biennio 1974-75 e nei primi anni '80 l'industria palestinese incassò dei colpi durissimi: non poche ditte e imprese fallirono. A tutt'oggi, Cisgiordania e Gaza sono costrette per più del 90% a importare tutto da Israele (ad es. per i prodotti industriali la quota è intorno ai 4/5) e per più dell'80% a esportare verso Israele. Fra i prodotti agricoli palestinesi e quelli israeliani non esiste alcuna forma di concorrenza. Il grande deficit permanente della bilancia commerciale di questi territori viene compensato, parzialmente, dal saldo attivo nel commercio con la Giordania. Tuttavia, anche in questo settore chi guadagna di più è soprattutto Israele, la quale, teorizzando la politica dei "ponti aperti", si serve delle terre palestinesi per commerciare non solo con la Giordania ma, attraverso questa, anche con altri paesi arabi.

Oltre all'edificazione di colonie ebraiche, la "valorizzazione" delle regioni annesse comprende anche la creazione di una infrastruttura industriale israeliana. L'export delle merci è sempre più spesso accompagnato da un export di capitali produttivi verso i territori occupati. Intorno alla metà degli anni '80 in Cisgiordania vi erano sei centri industriali israeliani ove lavoravano circa 2.500 persone. All'inizio del 1988 su tutti i territori palestinesi si contavano almeno 350 compagnie israeliane. L'annessione è per così dire "rampante". La direzione del Congresso ebraico mondiale ha elaborato nel 1982 un piano di sviluppo a lungo termine dell'industria ebraica in Cisgiordania, che prevede la costruzione, prima del 2010, di nuove zone industriale, frutto di grandi investimenti, ad alta capacità scientifica, prevalentemente al servizio del dipartimento militare, in grado di offrire alla popolazione ebraica (non palestinese) di quelle zone almeno 83.500 posti di lavoro.

Naturalmente già da ora il governo di Tel Aviv assicura alle imprese industriali ed edilizie ebraiche nei territori occupati, condizioni particolarmente vantaggiose, ovvero concessioni di crediti agevolati, sovvenzioni, sgravi fiscali, spese a carico dello Stato per le infrastrutture ecc. Ad es., se dal 1968 al 1983 lo Stato israeliano e le organizzazioni sioniste internazionali avevano assicurato 328 milioni di $ per lo sviluppo industriale delle colonie ebraiche in Cisgiordania, nel corso del solo triennio seguente (1984-86) la cifra ha raggiunto i 457 milioni di $.

I coloni, in pratica, stanno creando uno Stato nello Stato ed è sintomatico, in questo senso, che a partire dalla fine degli anni '70 gli enti statistici d'Israele abbiano cominciato a includere l'attività economica delle colonie ebraiche in Cisgiordania e nella striscia di Gaza nei loro computi nazionali. L'annessione economica viene appunto considerata come preludio della futura annessione politica.

Le conseguenze sul livello di vita dei palestinesi si possono immaginare. Espropriati dei principali mezzi di sussistenza, migliaia di loro sono costretti a emigrare o in Israele o nei paesi arabi limitrofi. Dal 1968 al 1974, allorché Israele ha beneficiato di un forte sviluppo economico (generosamente finanziato anche dall'estero), molti palestinesi venivano impiegati in diversi settori industriali ebraici, ma le dure condizioni di lavoro e i salari da fame li hanno costretti all'emigrazione; per cui oggi l'industria civile ebraica delle colonie non può disporre di molta manodopera a buon mercato (il settore industriale militare è interdetto ai palestinesi). Mentre in Israele gli operai arabi che provengono dai territori occupati compiono i lavori meno qualificati: nell'edilizia, nell'agricoltura e nella sfera dei servizi. Nel 1985 essi rappresentavano circa il 7% di tutti i lavoratori d'Israele (in quest'ultimo quinquennio la percentuale è ovviamente aumentata). Lo sfruttamento dei lavoratori arabi è assai duro: totalmente privi di diritti sindacali, essi, al massimo, riescono ad ottenere, a parità di lavoro, il 40% del salario dell'operaio ebraico.

Il colonialismo israeliano nei territori occupati ha un carattere specifico, determinato dal fatto che la resistenza palestinese all'occupazione ha indotto Israele a restringere la base produttiva. Cioè a dire, a differenza del colonialismo classico che creava la borghesia "compradora" locale, avente una funzione mediatrice fra i colonialisti e le masse sfruttate, il modello israeliano invece si fonda essenzialmente sulla riproduzione immediata del proprio capitale nei territori occupati, in forma diretta o per mezzo dello sfruttamento della manodopera che emigra in Israele. Oggi questo modello è entrato in crisi perché sul piano politico la resistenza palestinese non è diminuita ma anzi notevolmente aumentata, mentre sul piano economico esso avrebbe bisogno di allargare la propria base produttiva.

Dalla fine degli anni '60 alla prima metà degli anni '80, la crescente utilizzazione della manodopera dei territori occupati ha compensato l'esaurirsi delle altre fonti di crescita estensiva dell'economia israeliana, ma l'attuale disoccupazione, il sottoimpiego della manodopera araba, l'emigrazione, la discriminazioni sociali rischiano di creare problemi gravissimi alla transizione obbligata dell'economia israeliana verso un modello di sviluppo intensivo. Non a caso l'economia israeliana ha vissuto un periodo di profonda stagnazione nella prima metà degli anni '80. L'orientamento verso una produzione sofisticata, che esige grandi capitali, ha notevolmente ridotto il bisogno della manodopera araba poco qualificata.

I primi ad essere licenziati nei settori produttivi sono stati infatti i palestinesi, molti dei quali sono stati riassunti nel settore dei servizi, che serve a mascherare una disoccupazione latente. Nel gennaio-febbraio 1986 la delegazione dell'Organizzazione Internazionale del Lavoro, esaminando la situazione economica in Cisgiordania e nella striscia di Gaza, è arrivata alla conclusione che il livello di disoccupazione raggiungeva la cifra del 40%. Ovviamente disoccupazione e inflazione galoppante hanno ridotto la richiesta di beni di consumo nei territori occupati, limitando così lo smercio dei prodotti israeliani.

Questa crisi economica spiega anche la lotta del proletariato palestinese dei territori occupati contro il colonialismo d'Israele. Di questo le autorità di Tel Aviv non possono non tener conto. Dalla seconda metà degli anni '80, infatti, esse hanno cominciato ad appoggiare le iniziative proposte dagli USA volte a migliorare le condizioni di vita dei palestinesi. Ovvero si sta cercando di attirare in queste zone il capitale arabo estero, incoraggiandovi lo sviluppo capitalistico, legalizzando la concessione agli abitanti delle risorse provenienti dall'estero, ecc. L'espansione economica sarà diretta dal Centro mediorientale di pace e sviluppo, creato e controllato da Israle e USA, cui parteciperanno uomini d'affari israeliani e americani, inclusi gli imprenditori dei paesi arabi.

Nell'ottobre 1984 il governo di Peres ha approvato formalmente il progetto di creazione della Banca di Palestina a Nablus. Sono anche note le clausole (fino a poco tempo fa segrete) dell'accordo sull'istituzione di una zona di libero commercio fra USA e Israele, le quali prevedono che le preferenze commerciali concesse a Israele vadano estese anche ai territori occupati, a condizione che le merci esportate abbiano il marchio del "made in Israel". Washington non solo riconosce il regime di occupazione, ma, stimolando l'attività imprenditoriale dei capitalisti arabi in questi territori, cerca anche di coinvolgere taluni Stati arabi in un'alleanza economica e politica con gli USA e con Israele.

Si stanno dunque facendo seri tentativi per consolidare le posizioni dell'élite borghese compradora sulle terre palestinesi, fornendole risorse economiche sufficienti per allargare la base sociale del regime di occupazione. Il tentativo è appunto quello di porre le fondamenta economiche d'una formazione territoriale che sia al tempo stesso "autonoma" e "dipendente". Non dimentichiamo che lo sfruttamento delle terre annesse comporta per il bilancio statale d'Israele, in media, un introito annuale di 2 miliardi di $.

S C H E D A

Stato di Israele (1988):

Superficie: 14.100 kmq (secondo la risoluzione dell'ONU del 24 novembre 1947).
Popolazione: 4,4 milioni di abitanti
Immigrati nel 1985-87: 38.200
Emigrati (stesso periodo): 42.000
Unità monetaria: sciclo
PIL (ai prezzi dell'86): 27 mrd $.
PIL pro-capite: 6.136 $
Tasso medio annuale di crescita del PIL nel 1981-88: 2,8%.
Export: 8,5 mrd $.
Import: 11,9 mrd $.
Quota delle spese militari: 24%.
Debito estero: 26 mrd $.

Negazionismo della shoah

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Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Storia
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Aggiornamento: 04/12/2012