STORIA LOCALE DELLA ROMAGNA
Ravenna - Forlì-Cesena - Rimini


ROMAGNA 1270-1302
I temi di Guido da Montefeltro e Maghinardo Pagani da Susinana

La Romagna degli ultimi trent’anni del Duecento è una terra impoverita e violenta, caratterizzata da forti tensioni e da lotte furibonde fra guelfi e ghibellini. Terra di confine, stretta tra le mire egemoniche della guelfa Bologna e le pretese del Papato, la Romandiola diviene, insieme con la Toscana, l’epicentro dello scontro, come dimostrano le due battaglie più famose: San Procolo (1275), che ferma le mire bolognesi, e la battaglia di Forlì del 1282 (il sanguinoso mucchio evocato da Dante nel canto XXVII dell’Inferno), che blocca momentaneamente le pretese del Papato e dei suoi alleati, gli Angioini.

Fra i numerosi personaggi che attraversano la storia della “perfida” Romagna di quest’epoca turbolenta, campeggiano Guido da Montefeltro, il grande campione ghibellino, e Maghinardo Pagani da Susinana, il leoncel dal nido bianco, signore di Imola e Faenza.

È il tempo in cui si creano le condizioni politiche e sociali per la formazione delle Signorie romagnole, qui evocato da Sergio Spada in pagine suggestive.

* * *

Noi ci allegrammo, e tosto tornò in pianto:
ché della nova terra un turbo nacque,
e percosse del legno il primo canto.

Tre volte il fe’ girar con tutte l’acque;
alla quarta levar la poppa in suso
e la prora ire in giù, com’altrui piacque,

infin che ‘l mar fu sopra noi richiuso.

Così si chiude il Canto ventiseiesimo della Divina Commedia, il canto di Ulisse, uno dei più intensi, più coinvolgenti e forse anche più umani dell’intero poema. Nelle due terzine Ulisse rivela gli ultimi istanti della vita terrena sua e dei suoi compagni, la fine del folle volo. Lo fa con una pacata drammaticità che sconcerta. L’ultimo verso del canto è come il gesto di una mano che si posa su un libro, chiudendolo. Non può che seguire il silenzio e con esso il bisogno di fermarsi. Qui Dante è veramente maestro della parola ed arbitro del nostro tempo: non ci consente di procedere oltre, non subito. Il tempo si ferma, il tempo è finalmente padrone.

Qual è la distanza tra noi e il Duecento?

È una distanza che nessuno dei nostri strumenti di misurazione può valutare. Per farlo, ammesso che lo si voglia fare, bisogna ricorrere ad uno sforzo di umiltà e di creatività insieme, cercando di dare un contorno a quelle dimensioni che più allontanano le due epoche. Prime fra tutte, e ormai quasi illeggibili, sono il tempo, il silenzio, il buio.

La percezione che l’uomo del Duecento aveva del tempo era morbida, dilatata; sapeva di non esserne arbitro, non lo forzava e in questo modo lo faceva suo. Sapeva attendere, sapeva pensare a lungo. Poteva dedicare tutta la vita ad un solo progetto oppure aprire la mente ad ogni conoscenza, divorare i volumi di una biblioteca conventuale o dedicare anni a copiarne ed a miniarne uno, poteva accettare come unico orizzonte della propria vita lo sguardo gettato da un’impalcatura innalzata intorno alle guglie di una cattedrale oppure compiere viaggi interminabili nel mondo degli uomini alla ricerca di un mondo spirituale. Il filosofo e il copista, lo scalpellino e il pellegrino avevano una percezione della vita che ci è ormai impossibile recuperare.

Poi, il silenzio. Il silenzio permetteva di udire il linguaggio delle foglie e capire la natura del vento fino ad intuirne la volontà; permetteva di regolare il proprio giorno sul suono delle campane, amplificava le urla della battaglia lontana e rendeva intollerabile il tonfo degli zoccoli della cavalleria pesante mentre caricava, ma lo stesso silenzio dava pace e non impediva di ascoltare se stessi.

Infine il buio, che in sintonia con i tempi della natura costringeva ad interrompere il lavoro e a rispettare l’equilibrio tra la veglia e il riposo, tra la comunità della strada e l’intimità della casa, il buio che evidenziando la luce delle stelle creava punti di riferimento e rendeva leggibile l’universo.

È molto difficile riuscire a recuperare queste dimensioni oggi. Perdendone i contorni abbiamo perso la possibilità di tradurre compiutamente il sentire del Duecento nella nostra lingua.

Possono soltanto emergere delle sensazioni ed è una di queste, e sensazione forte, quella che Dante ci ha lasciato chiudendo il racconto di Ulisse. «... infin che ‘l mar fu sopra noi richiuso...» il buio, il silenzio e la percezione del fermarsi del tempo.

La nota che scaturisce dalla musicalità del verso è profonda, persistente, calda. E passare al canto successivo richiede quasi uno sforzo, perché si teme la delusione che versi meno intensi potrebbero comportare.

Infatti si entra nel ventisettesimo quasi con diffidenza, una diffidenza che via via prende i contorni della delusione. Ma quest’ultima è legata alla caduta della tensione creatasi con gli ultimi versi del canto precedente: si vorrebbe continuare a sentir parlare Ulisse, che è personaggio della fantasia, quindi poetico; e invece un approccio che potrebbe essere definito contorto introduce l’entrata in scena di un personaggio reale. Bisognerà attendere il coinvolgimento ispirato dalle successive terzine per riconquistare quella tensione che è indispensabile per gustare la Commedia fin nella più anonima sillaba.

Il canto nel quale ci si inoltra con istintivo pregiudizio è il canto di Guido da Montefeltro e rappresenta uno dei passi forse più illuminanti sul modo di pensare, vedere e vivere la Romagna della seconda metà del Duecento.

Le lingue di fuoco all’interno delle quali arde lo spirito di Ulisse, secondo il contrappasso che accomuna tutti i consiglieri fraudolenti dell’ottava bolgia infernale, hanno appena ripreso la forma caratteristica della fiamma, dritta e appuntita mentre si sta allontanando in silenzio dopo aver ottenuto il commiato da parte di Virgilio, quando un’altra fiamma, dietro di lei, attira l’attenzione dei due poeti per il mormorio che da essa proviene.

Il rumore richiama alla mente di Dante la leggenda di un bue di rame costruito dall’ateniese Perillo per il tiranno di Agrigento, Falaride: secondo quella storia, narrata da Ovidio e da altri autori latini, il bue era uno strumento di tortura e di morte nel quale veniva rinchiuso il condannato e che, arroventato, induceva una morte atroce, trasformando le urla in muggiti. Perillo era stato il primo, come forse era giusto che accadesse, a sperimentarne gli effetti. Allo stesso modo questa fiamma, con il suo linguaggio fatto di scoppiettii e di fruscii, traduce i tentativi di articolare parole che provengono dal suo interno. Solo quando il muoversi della lingua riesce ad accordarsi con i guizzi della punta, si avverte la voce di chi brucia al suo interno.

Tu, al quale mi sto rivolgendo e che hai appena pronunciato parole di commiato in dialetto lombardo dicendo – Ora puoi andare, non ti tratterrò oltre –, non rinunciare a parlare con me, anche se forse sono giunto tardi. Come vedi, io sono disposto a farlo, nonostante stia bruciando. Se tu sei appena caduto in questo mondo buio da quell’amata terra italiana nella quale ho commesso tutti i miei peccati, dimmi se i Romagnoli sono in pace o in guerra, perché io sono nato sui monti che si alzano tra Urbino e la sorgente del Tevere.

Dante è ancora chino a guardare verso il basso quando Virgilio lo tocca sul fianco dicendo: «Parlagli tu. Questi è italiano». E Dante, che conosce bene la risposta, prende subito la parola.

Anima nascosta tra le fiamme, la tua Romagna non è, e non è mai stata, in pace nel cuore dei suoi tiranni, pur se in questo momento non vi sono guerre aperte. Ravenna è ancora, dopo tanti anni, sotto la protezione dell’aquila dei Polentani, che stende le sue ali fino a Cervia.

La città che subì il lungo assedio e fece immane strage dei Francesi è tenuta dagli artigli verdi del leone degli Ordelaffi. Il mastino Malatesta da Verucchio ed il figlio, che uccisero Montagna Parcitadi mentre era loro prigioniero, dissanguano ancora le loro terre. Faenza ed Imola, bagnate dai fiumi Lamone e Santerno, obbediscono al leoncello in campo bianco di Maghinardo Pagani, che ad ogni stagione cambia schieramento. E Cesena bagnata dal Savio, allo stesso modo in cui è adagiata tra pianura e montagna, alterna la tirannia alla libertà. Ora dimmi, ti prego, chi sei, parla come io ho parlato e il tuo nome sopravviverà nel mondo.

La fiamma crepita come fa normalmente il fuoco, poi la punta prende a muoversi ritmicamente e finalmente esce la voce:

Se io pensassi di dare questa mia risposta a persona che avesse modo di tornare nel mondo, questa fiamma cesserebbe di muoversi; ma visto che mai è accaduto che da questa bolgia qualcuno tornasse alla vita, ti rispondo senza timore di esser mal giudicato.

Io sono stato guerriero prima e poi frate, perché credevo che il saio mi avrebbe aiutato ad espiare le mie colpe. E questo sarebbe accaduto se il gran prete, il Papa, maledetto, non mi avesse spinto a ricadere nel peccato; voglio che tu sappia come e perché.

Finché il mio essere fu racchiuso nelle ossa e nella carne con le quali mia madre mi aveva dato alla luce, il mio agire fu dettato più dall’astuzia della volpe che dalla forza del leone. Conobbi tutti i tranelli e le scorciatoie e me ne servii così bene che la mia fama raggiunse i confini del mondo. Quando capii di aver raggiunto quell’età in cui ognuno dovrebbe ammainare le vele e lasciare il navigare, provai disgusto per ciò che prima mi dava piacere e, dopo il pentimento e la confessione, mi feci frate per redimere i miei peccati.

Il principe dei nuovi Farisei, impegnato in una guerra vicino al Laterano, ma non contro i Saraceni né contro i Giudei perché, anzi, tutti i suoi nemici erano Cristiani e nessuno di loro aveva assediato Acri o commerciato nelle terre del Sultano, non ebbe rispetto per la santità della sua carica e nemmeno per il cordone che io portavo intorno al saio, quel cinto che smagrisce nella povertà e nell’astinenza.

Ma come Costantino mandò a chiamare papa Silvestro nella grotta del monte Soratte perché lo guarisse dalla lebbra, così costui mi chiese consiglio per guarire dalla sua superba febbre: mi chiese un consiglio e io non parlai, spaventato dalle sue parole. Egli poi mi incalzò: - Non avere timore di peccare, perché fin d’ora io ti assolvo, ma dimmi come posso fare per distruggere Palestrina (dove erano asserragliati i nemici Colonna). Io posso aprire e chiudere le porte del Cielo, come tu sai, perché due sono le chiavi che il mio predecessore rifiutò.- Allora mi lasciai convincere dal suo ragionamento, pensando che il tacere sarebbe stata la scelta peggiore, e dissi: - Padre, dato che tu mi assolvi da quel peccato che sto per compiere, ti dico che potrai trionfare promettendo molto e mantenendo poco.- Quando morii, Francesco d’Assisi venne a prendermi, ma un diavolo gli disse: - Non prendere la sua anima, non farmi questo torto. Deve seguirmi giù tra i dannati, perché ha dato quel consiglio fraudolento per il quale l’ho fin qui seguito, perché non può essere assolto chi non si pente, e pentirsi e volere allo stesso tempo non è possibile, è una contraddizione.-

Provai un gran dolore quando mi afferrò dicendomi: - Forse non immaginavi che io sapessi usare la logica!- Mi condusse allora da Minosse e questi attorcigliò la coda otto volte e la morse per la rabbia mentre diceva - Questo appartiene alla schiera dei dannati al fuoco che avvolge -; per questo io sono dannato in questo luogo e, vestito di fiamme, mentre cammino maledico me stesso.

Appena finito di parlare, il fuoco riprende il cammino torcendo e agitando la punta per il dolore.
Dante e Virgilio passano oltre, salendo sulle rocce fino al ponte successivo, che sovrasta la fossa in cui scontano la pena coloro che hanno tratto beneficio dal seminare discordia.

Fonte: www.ilpontevecchio.com - Contatto

Cesena via Caprera, 32 - tel/fax 0547333371 - tel. 0547609287

Spada Sergio, Romagna 1270-1320. I tempi di Guido da Montefeltro e Maghinardo Pagani da Susinana, 2009, Il Ponte Vecchio


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Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Storia
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Aggiornamento: 31/12/2012