STORIA LOCALE DELLA ROMAGNA
Ravenna - Forlì-Cesena - Rimini


Romagna e Università

di Stefano Servadei

Mappa della Romagna

La Romagna ha avuto per secoli, al Monte di Cesena, una sua Università autonoma. La quale, nello Stato Pontificio, stava quasi alla pari, sul piano culturale e delle frequenze, con La Sapienza di Roma e con l’Alma Mater bolognese.

Per fare un evidente dispetto a Papa Pio VII (Barnaba Chiaramonti di Cesena), suo avversario, e per ingraziarsi Bologna, la cui Università aveva in quella cesenate una forte concorrente, Napoleone Bonaparte, con proprio decreto da Milano nei primi giorni dell’anno 1800, la soppresse.

Il vantaggio per l'Università bolognese fu notevole. Si liberò di una forte concorrente e divenne punto di riferimento obbligato anche per gli studenti romagnoli. Se non per altro, per la vicinanza chilometrica.

Durante la Restaurazione le sollecitazioni romagnole per un ripristino non mancarono. Alla fine, però, prevalse lo “status quo” come risposta alle simpatie giovanili romagnole per Bonaparte e per la ventata di nuove idee venuta dalla Francia.

Peraltro, la diffidenza rispetto alla gioventù intellettuale romagnola non venne meno neppure dopo l’Unità d’Italia, coi vari governi monarchici impegnati a spegnere l’idealità repubblicana. E, per altro verso, solleciti alle raccomandazioni che continuavano a giungere da sotto le “Due Torri”.

In buona sostanza, da noi l’attuale Università è giunta oltre una ventina di anni fa. Non sulle ali di questo o quel personaggio o per “grazia ricevuta”, bensì sulla base di una giusta ed illuminata legge nazionale: quella del “riequilibrio universitario”, approvata nell’anno 1982 e fortemente voluta dalla maggioranza di centro—sinistra di allora, costituita dalla DC e dal PSI, PSDI, PRI, PLI. La legge si preoccupò, giustamente, di eliminare i “vuoti universitari nel territorio peninsulare ed insulare”. Nel nostro caso, aggravato dalla circostanza, estranea ad ogni tipo di programmazione che, al vuoto romagnolo, facevano riscontro Sedi Universitarie corrispondenti a ciascuna delle sei Province emiliane.

Uno dei primi progetti di legge governativi sulla materia, nella presentazione scritta specificava, addirittura, quali erano i maggiori “buchi neri” dell’allora sistema universitario nazionale: il Piemonte, il quale poteva contare soltanto sulla Università di Torino, la Puglia, avente come unico riferimento quella di Bari, la Romagna la quale, in una Regione a fortissima presenza universitaria (Bologna, Ferrara, Modena, Reggio Emilia, Parma, Piacenza), ne risultava totalmente sprovvista, pure essendo dotata di più di un milione di abitanti (oltre un quarto dell’intera popolazione emiliano—romagnola). Aggiungo che, al momento di rendere per parte nostra operativo il riequilibrio (metà anni ’90), due Ministri all’Università, appartenenti a schieramenti politici contrapposti, ci suggerirono motivatamente la realizzazione di una nostra Università autonoma, mettendoci anche a disposizione fondi particolari.

Niente da fare: l’Università di Bologna, la Regione Emilia—Romagna, il Partito politico egemone nella nostra realtà regionale e locale, ecc. colsero al volo la circostanza che Bologna superava di gran lunga il numero di studenti previsto dalla legge, e non intendeva realizzare sotto le Due Torri una seconda Università, fonte di notevoli oneri, per legare i costituendi Poli Universitari romagnoli all’Alma Mater Studiorum con funzione di “alleggerimento” e di rientro nella legalità della complessiva realtà bolognese. E da quel momento, di fatto, la nostra vicenda universitaria è divenuta complementare e subordinata alla realtà del capoluogo regionale.

In questo modo, abbiamo rinunciato ad un rapporto diretto col Governo nazionale per la scelta delle Facoltà da realizzare nel nostro territorio, le quali andavano acquisite sulla base delle nostre obiettive necessità e dei problemi e delle vocazioni del territorio stesso ai fini di una più complessiva promozione anche sul piano dello sviluppo. E le Facoltà sono sostanzialmente state scelte da Bologna sulla base della sua ottica e dei suoi interessi.

Ci siamo privati della presenza fissa in Romagna di un corpo docente in grado di arricchire la nostra complessiva realtà scientifico—culturale. Ci siamo privati, ai fini dei finanziamenti nazionali, della possibilità di un nostro diretto rapporto con Roma, senza le interessate “mediazioni bolognesi”. In una realtà ed esperienza nella quale Bologna, anche qui, più che “mater”, è nostra spregiudicata “concorrente”.

Tutte queste realtà la nostra classe dirigente e le nostre Istituzioni hanno accettato neppure in funzione di particolari benefici venutici da Bologna in ordine agli oneri di “impianto” e “gestione” di quanto di universitario esiste a Cesena, Forlì, Ravenna e Rimini. Oneri, ingenti, peraltro interamente sostenuti dai nostri bilanci locali. E, dunque, dai contribuenti romagnoli. A tutto questo aggiungo che, ad oltre 20 anni di presenza universitaria bolognese in Romagna, nulla sul nostro territorio è stato trasferito o realizzato sul piano della ricerca e della sperimentazione. Per cui anche il sogno di una Università protagonista, accanto alle imprese ed alla società civile, di un forte e stabile rilancio della nostra vita economico—sociale, in un mondo, oltretutto, fortemente globalizzato e concorrenziale, sta andando in fumo.

E fanno ridere (o piangere) coloro che, localmente, continuano a valutare gli “effetti universitari” sulla base dei panini venduti, dei pranzi consumati, delle stanze occupate, ecc. dagli studenti fuori sede. Oggi l’Università degli Studi di Bologna conta circa 100 mila studenti, di cui i tre quarti sotto le “Due Torri” ed i rimanenti nei quattro Poli romagnoli. Ed anche sul piano della ripartizioni dei docenti e dei ricercatori, pure coi miglioramenti complessivamente operati negli anni passati, la Romagna è fortemente penalizzata.

Che in questo periodo l’Università non abbia fatto crescere la realtà culturale romagnola è tesi non sostenibile. Che, però, i risultati restino, nonostante gli oneri locali sostenuti, ancora notevolmente al disotto degli obiettivi di partenza, è una verità incontrovertibile. Bologna ha fortemente propagandato alla dimensione nazionale l’esperienza relativa ai Poli romagnoli, non economizzando sugli aggettivi. Si è, però, finora ben guardata dal dare ai romagnoli adeguati spazi di rappresentanza all’interno dell’Alma Mater, nei rapporti col sistema universitario nazionale, in relazione alle relative spettanze finanziarie, ecc.

In fatto di “docenti”, poi, la dipendenza da Bologna ha impedito ai Poli romagnoli di esigere la residenza costì, di determinare ogni utile coinvolgimento degli stessi nella vita culturale e rappresentativa del nostro territorio. Uno stesso rapporto coi discenti più prolungato rispetto alla durata delle lezioni. Si tratta di materia nella quale continuano a farla da padroni gli orari ferroviari.

Nel 2008 l’Alma Mater stava entrando nella ricorrente fase elettorale per il rinnovo, o la conferma, del Magnifico Rettore. A mio parere sarebbe stata un’una ottima occasione per sollecitare ed esprimere la seria e motivata candidatura di un docente in Romagna, adeguatamente informato dei nostri problemi di crescita e rappresentanza. Impegnato a dibatterne nella fase elettorale e successivamente.

Non si tratta di una proposta—provocazione. Se facciamo tutti parte della medesima Università, oltre agli stessi doveri, dobbiamo disporre degli stessi diritti. Se l'esperienza romagnola ha caratteri di novità utili per l’intero sistema universitario nazionale ed oltre, è bene farla conoscere e valorizzare anche nel modo suggerito.

Ciò che deve dimostrarsi alla luce del sole è che la Romagna non può servire soltanto per “fare numero” nell’altrui precipuo interesse. Per cui penso che la presente proposta, oltre ai cittadini romagnoli, debba interessare strettamente le nostre Istituzioni locali. Quelle che, oltretutto, alimentano finanziariamente quanto di universitario è stato realizzato nel nostro territorio.

Mi si consenta di chiudere con una affermazione ed una domanda. Quando il peso di Bologna sulla realizzazione dell’Università in Romagna si fece particolarmente sentire, alcuni partiti politici ed Associazioni locali affermarono, anche pubblicamente, che se era opportuno partire con l’esperienza dell’Alma Mater, nulla ci avrebbe impedito, in seguito, di realizzare la nostra autonomia. Se il discorso non era di semplice occasione, a mio parere è giunto il momento di immetterci nella seconda fase.

Saremmo a questo punto se a negoziare ed a gestire anche la situazione universitaria locale fosse stata non la Regione Emilia—Romagna, ma la Regione Romagna?

E’ RUMAGNÔL, Anno IV - n. 01 e 02 - Contatto - www.regioneromagna.org - Segreteria - Youtube 2


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Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Storia
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Aggiornamento: 31/12/2012