STORIA DEL MEDIOEVO
Feudalesimo e Cristianesimo medievale


PER UNA TEORIA DEL CROLLO DEL FEUDALESIMO

Una zecca medievale

Quando si parla di "crollo del feudalesimo", non si può affermare che le cause principali siano state quelle esterne al sistema, e cioè il commercio, il valore di scambio, il denaro ecc.

La causa principale del crollo di un sistema antagonistico, generalmente va cercata nell'antagonismo stesso. Ovviamente questo non significa che nella lotta delle classi, quella oppressa non possa servirsi di elementi esterni al sistema per influire su quelli interni, accelerandone la dissoluzione.

Quando si afferma che il feudalesimo crollò a causa del sempre crescente lusso della nobiltà, la quale, avendo bisogno di contanti, prese a sfruttare massicciamente i contadini, che fuggirono verso le città; quando cioè si afferma che la causa del crollo fu il commercio a lunga distanza, non ci si rende conto di confondere la causa con l'effetto. Lo sviluppo del commercio infatti è già una conseguenza della crisi del feudalesimo, che è interna al sistema.

Il secondo servaggio, cui andarono incontro alcune nazioni o alcune regioni di alcune nazioni europee, nel momento in cui in altre nazioni (o in altre regioni) s'andava sviluppando il capitalismo, dipese appunto dall'arretratezza della cultura, che non sapeva trovare un'alternativa al servaggio né in modo borghese, né in modo democratico, ma soltanto modificando il rapporto feudale, trasformando cioè la rendita in natura in rendita monetaria, ovvero il servo della gleba in un mezzadro, oppure creando una proprietà fondiaria di tipo usuraio. Questo fu possibile anche perché il commercio liquidò la classe dei piccoli contadini indipendenti.

Il capitalismo industriale delle nazioni borghesi indusse i feudatari ad adeguarsi alle circostanze, ed essi lo fecero sulla base della loro arretrata cultura. La rendita monetaria non faceva che acutizzare le contraddizioni del feudalesimo.

In Asia invece continuò a prevalere la rendita in natura e da questa rendita, attraverso la lotta di classe, si passò al socialismo.

VERA E FALSA DEMOCRAZIA

E' semplicistico pensare allo sviluppo del fenomeno comunale medievale come a uno sviluppo dell'idea di democrazia.

In realtà si può parlare di democrazia solo nel senso che i ceti urbani più ricchi cercavano di opporsi allo strapotere dei latifondisti, chierici o laici che fossero.

E vi fu sviluppo della democrazia anche là dove i Comuni lottarono contro l'idea di sacro romano impero (questa lotta agli storici appare, generalmente, come uno scontro tra poteri, decentrati gli uni, centralizzati gli altri). Tuttavia, non dobbiamo mai dimenticare che fu sempre un confronto tra poteri forti, per una diversa distribuzione di aree di competenza e di dominio.

Il popolo aderì e si sacrificò convinto di poter trarre dei vantaggi da questo scontro cruento, ma fu, come al solito, ingannato dalle classi egemoni.

Questo è un cliché che si ripete tantissime volte nella storia. Basterebbe studiare la storia per concetti per arrivare a comprenderla senza neppure entrare nei dettagli.

Ogni idea e ogni struttura che la rappresenta hanno la loro evoluzione: quando questa giunge verso il culmine, per poi imboccare la strada discendente, raramente le istituzioni accettano di farsi superare dal nuovo, e si piomba così nell'involuzione, dove i progressi acquisiti vengono di fatto ridimensionati se non perduti. Non si cedono mai spontaneamente i poteri acquisiti. Di qui le inevitabili e sanguinose conflittualità.

Purtroppo la storia ci dice anche che ogni idea e ogni struttura è soggetta a corruzione e non c'è modo di porre le basi per alcuna esperienza di lunga durata, e questo pare tanto più vero quanto più si esaminano le cosiddette "civiltà", dove al massimo ci si misura sulla lunghezza dei mille anni, mentre nella cosiddetta "preistoria" la longue durée si misurava sulle decine di migliaia di anni.

L'Italia comunale, sotto questo aspetto, non arrivò mai a realizzare la democrazia, proprio perché sul piano economico non arrivò mai a realizzare il socialismo. Tant'è che se da un lato si arrivò ad affermare una certa autonomia dal potere feudale (locale o quello universale dell'imperatore), dall'altro si finì coll'imporre alle zone rurali una forte dipendenza dalle esigenze urbane.

Non ha senso parlare di democrazia politica quando non si può parlare di contestuale democrazia economica. L'importanza della democrazia economica è stata scoperta dal socialismo, prima utopistico poi scientifico, non certo dal liberalismo, le cui idee economiche sono semplicemente quelle della proprietà privata, della competizione, del monopolio e del libero scambio ecc.

La presenza di uno Statuto comunale può di per sé far pensare a una forma politica vicina alla democrazia, ma se si guarda p.es. al fatto che alla stesura di tali Statuti partecipavano solo quelli che disponevano di un certo patrimonio, per il quale potevano ottenere cariche politiche o amministrative, si capisce facilmente come lo sviluppo del fenomeno comunale (che è stato tipico dell'Italia borghese e che caratterizza ancor oggi buona parte del capitalismo nazionale) fu in realtà un movimento interno ai ceti borghesi.

Non avendo fatto la riforma protestante il capitalismo italiano è rimasto per così dire circoscritto entro limiti di uno sviluppo industriale a gestione familiare. Il timore di cadere in un capitalismo selvaggio è stato scongiurato da una gestione borghese nei limiti (divenuti sempre più elastici) della morale cattolica.

L'Italia non è diventata una grande potenza industriale quando doveva diventarlo e oggi che potrebbe diventarlo, avendo abbandonato nella sostanza (se non nelle forme) ogni riferimento alla morale cattolica, non ne ha più le possibilità materiali, in quanto, nel frattempo, nuovi soggetti politici ed economici sono emersi sulla scena internazionale e questi non le permetterebbero di espandersi oltre un certo livello.

NASCITA DELLA RIVOLUZIONE COMMERCIALE NEL MEDIOEVO

Intorno al Mille non furono semplicemente dei fattori tecnici o ambientali che determinarono la rivoluzione commerciale. Generalmente si parla di crescita della popolazione, di valorizzazione di terre incolte, di fine delle epidemie e delle invasioni, di aumento della produzione agricola grazie al rinnovamento delle tecniche (aratro pesante, giogo frontale, collare da spalla, ferratura degli zoccoli, mulini ad acqua e a vento, rotazione bi-triennale ecc.), addirittura si parla di miglioramento del clima.

In realtà dovevano esserci condizioni socio-economiche molto difficili nel mondo agrario, dominato dallo strapotere dei grandi feudatari, che inducevano molti a fuggire dal feudo e a rifugiarsi in città.

Alla lunga il servaggio diventa come una sorta di schiavismo, nel senso che se l'agricoltore non ottiene motivazioni sufficienti con cui guardare con fiducia il proprio destino, se non per sé almeno per i propri figli, è inevitabile che ad un certo punto decida, potendolo fare, di andare a vivere altrove.

Per impedire questo il latifondista avrebbe dovuto cedere in proprietà il lotto su cui l'agricoltore aveva lavorato da una vita, ma nella stragrande maggioranza dei casi si preferiva soltanto cambiare la tipologia del contratto, in maniera tale che il canone diventasse economico (in denaro) e non fosse più naturale (frutti della terra o corvées).

Ma una dipendenza più contrattuale che personale non sempre è un vantaggio per il contadino, che infatti deve procurarsi il denaro andando a vendere i propri beni in un ambiente che non gli è certo favorevole: quello dei mercati di città, dove vige la tendenza ad abbassare i prezzi delle merci provenienti dal mondo rurale e dove in generale esiste, da parte dei cittadini, la pretesa di dominare la campagna (percepita come rozza e ignorante).

Ma, oltre a queste condizioni difficili sul versante socio-economico del mondo contadino, dovevano esserci altre condizioni, questa volta di tipo culturale, che in qualche mondo tendevano a favorire il passaggio dall'economia naturale basata sull'autoconsumo a quella mercantile basata sullo scambio merce/moneta.

I contadini sono quelli che subiscono in modo peggiore le conseguenze culturali della nuova mentalità, di cui i campioni per eccellenza sono i borghesi (artigiani, mercanti, banchieri, professionisti...). La chiesa non solo non ostacola lo sviluppo di questa mentalità ma in un certo senso lo favorisce, poiché nei suoi livelli istituzionali essa è già profondamente corrotta (le cariche vescovili e persino pontificie sono continuamente oggetto di trattativa tra i potentati politici ed economici e sfuggono del tutto a un controllo dal basso).

Moralmente la chiesa romana, a livello di alto clero, non è titolata a frenare un processo che sta ponendo il profitto economico a regola di vita, e la riforma autoritaria, voluta da Gregorio VII, dal punto di vista etico andrà soltanto a peggiorare la situazione, in quanto farà del pontefice una sorta di semidio, un sovrano quanto mai arrogante, che pretende assoluta sottomissione da parte di chiunque, fossero anche re e imperatori. La vera riforma morale della chiesa venne tentata soltanto dai movimenti pauperistici ereticali, tutti duramente repressi dalla chiesa.

E' del tutto inutile infatti dare una risposta politica autoritaria a un problema di corruzione morale. Vanno responsabilizzate le masse riducendo l'arbitrio dei potentati, la loro sfera d'azione, la loro capacità di manovrare le cose da una posizione privilegiata. Il nuovo papato di origine monastica, invece, pur cercando di combattere la corruzione del clero, finì col favorirla, in quanto eliminò quella compagine popolare che ne avrebbe potuto rappresentare l'alternativa concreta.

Ovviamente i commerci non nascono dal nulla. Tuttavia, una cosa sono i commerci saltuari, che avvengono in fiere annuali o che riguardano singoli mercanti che in luoghi remoti hanno cercato di fare fortuna, correndo non pochi rischi, acquisendo competenze e conoscenze molto particolari, acquistando spezie o prodotti di lusso, introvabili in Europa occidentale e destinati a un target molto selezionato; ben altra cosa è creare dei mercati regolari, quotidiani, delle attività lavorative, delle operazioni commerciali e finanziarie sempre più lucrose, in città che ruotano attorno al concetto di "corporazioni di arti e mestieri" e che si avvalgono di specifici Statuti politici e giuridici, che si affidano a priori, podestà, consigli comunali e che fruiscono dell'appoggio della sede vescovile e di qualche autorità di origine aristocratica, che guarda con favore allo sviluppo urbano.

Che la borghesia avesse bisogno per muoversi agevolmente, con relativa sicurezza, dell'appoggio o comunque di un tacito consenso da parte delle istituzioni allora dominanti, cioè la grande feudalità laica ed ecclesiastica, appare pacifico. Le città erano ampiamente esistite nel mondo romano: durante il mezzo millennio dell'alto Medioevo potevano anche essere andate profondamente in rovina, ma sarebbe sciocco pensare che non esistesse assolutamente la possibilità materiale di farle rinascere. Se ciò non era avvenuto, non era stato tanto per motivi tecnici quanto per motivi culturali. Infatti quando questi motivi vengono in qualche modo modificati, le città rinascono in un batter d'occhio.

Nell'alto Medioevo la campagna domina politicamente la città e quindi la domina anche economicamente; nel basso Medioevo la città si emancipa economicamente dalla campagna e alla fine riesce a sottometterla anche politicamente. Nel mezzo di questa transizione epocale vi sono i fattori culturali, quelli che rendono possibile un mutamento di mentalità.

E siccome era l'aristocrazia ecclesiastica che gestiva completamente la cultura del tempo, è giocoforza pensare che le giustificazioni ideologiche, al nascere della nuova mentalità borghese, siano state prese, in qualche maniera, proprio da questo ambiente, anche in contrasto con l'aristocrazia laica più potente, che non poteva certo vedere di buon occhio uno sviluppo considerevole di quel tessuto urbano, responsabile, in ultima istanza, della fuga dei contadini dai feudi.

Questo per dire una che progressiva successione di determinazioni quantitative non poteva portare a una nuova qualità in maniera spontanea, senza l'intervento di qualcosa che fosse consapevolmente culturale o ideologico (che quella volta era di tipo religioso). E' nella teologia scolastica che vanno ricercate le motivazioni che hanno reso possibile il passaggio dal feudalesimo al capitalismo, per quanto assurda possa sembrare questa tesi. Cioè non basta leggersi le opere di Lutero, Calvino, Zwingli e Melantone: bisogna anche andarsi a leggere le opere di quei teologi cattolico-romani che li hanno preceduti senza rendersi conto a cosa avrebbero portato le loro innovazioni filosofiche e metafisiche in campo teologico. Marx aveva capito vagamente questa cosa quando scrisse che il nominalismo costituiva la “prima espressione del materialismo”: una frase buttata lì, che non ebbe mai il tempo d'approfondire.

L'aristocrazia amava sicuramente vivere nel lusso e non disprezzava certo la possibilità di poter acquistare cose preziose, esotiche, rare dai mercanti, ma guardava sempre con sospetto quanti si arricchivano senza possedere terre o qualità militari, e disprezzava il cinismo con cui i borghesi facevano affari. La mentalità aristocratica è completamente diversa da quella borghese. Il nobile p.es. per principio non lavora e non è interessato a uno sfruttamento illimitato del contadino, in quanto lo basa soltanto sui prodotti in natura o sulle corvées. Il borghese invece fa del lavoro la sua fonte di arricchimento, nella fase iniziale, per poi fare dei capitali acquisiti la fonte di uno sfruttamento di tipo industriale, che porta a un arricchimento praticamente illimitato, in quanto basato sul denaro (il capitale che si autovalorizza).

Perché un aristocratico diventi borghese occorre un mutamento profondo di mentalità, che può essere indotto da situazioni particolarmente gravi, come p.es. l'indebitamento o l'abbandono delle terre da parte dei contadini (in Inghilterra - vien detto nel Capitale - i nobili trasformavano gli arativi in pascoli per vendere ai borghesi la lana delle pecore, che avevano bisogno di poco personale lavorativo per essere allevate).

La grande feudalità si sentiva depositaria di una cultura idealistica, acquisita mezzo millennio prima, venendo a contatto con la chiesa cristiana, che aveva ottenuto lo status di religione privilegiata sin dai tempi dell'imperatore Teodosio: essa credeva in valori che non avrebbero potuto permetterle d'arricchirsi come il borghese, la cui fede era qualcosa di molto più formale. Il mercante poteva sempre dire che per commerciare con paesi non cristiani, non poteva essere troppo esigente in materia di fede. Poi col tempo dirà, quando la logica del mercato si sarà affermata a livello locale, che il denaro non guarda la fede ortodossa o eretica di nessuno.

D'altra parte il borghese non era così ingenuo da non sapere che, nonostante gli alti valori professati, l'aristocrazia, laica ed ecclesiastica, viveva di rendita feudale, obbligando i contadini a un duro servaggio. Non a caso la borghesia dirà volentieri ai contadini, come una sorta di sirena ammaliatrice, di trasferirsi in città per poter diventare liberi, e lo dirà almeno fino a quando apparirà evidente che lavorando come operai o garzoni negli opifici o nelle botteghe artigiane, gli stessi ex-contadini stavano meglio quando stavano peggio. Ma ormai per loro sarà troppo tardi per tornare indietro.


Web Homolaicus

Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Storia - Storia medievale
 - Stampa pagina
Aggiornamento: 01/05/2015