STORIA DEL MEDIOEVO
Feudalesimo e Cristianesimo medievale


DAL FEUDALESIMO AL CAPITALISMO: IL RUOLO DELL'IDEOLOGIA

Orefice medievale

Nel capitalismo il diritto apparentemente è più importante della forza, ma nella realtà il diritto è in funzione della forza, cioè la forza economica del proprietario privato, per imporsi sul cittadino, ha bisogno di travestirsi coi panni del diritto. Perché questa finzione?

Nel feudalesimo la teologia serviva per "consolare" il servo della gleba, il quale subiva un rapporto violento, basato sulla forza, cioè sulla cosiddetta "coercizione extra-economica". Il contadino era costretto a lavorare e a produrre plusvalore perché il feudatario lo minacciava con la sua forza. E la chiesa lo consolava promettendogli d'intercedere presso il feudatario e garantendogli la fine di quel rapporto nell'aldilà. La teologia veniva usata, nello stesso tempo, per legittimare quel rapporto e per cercare di renderlo più sopportabile.

La differenza tra diritto e teologia sta nel fatto che il primo ha la pretesa di garantire la libertà sulla terra e non nel cielo. Sia il diritto che la teologia agiscono prima e dopo gli eventi che accadono in campo economico, al fine di promuoverli e di legittimarli, ma il diritto vuole apparire come uno strumento di emancipazione della borghesia dalla teologia e dai rapporti feudali. Solo in questo senso la borghesia può sperare che la "nuova scienza" venga accettata dal servo della gleba, il quale, lottando contro il feudalesimo lotta anche contro la teocrazia.

Anche il diritto rappresenta un'ipocrisia ideologica, proprio perché esso salvaguarda l'antagonismo tra proprietario e lavoratore, che pur si manifesta in forme diverse rispetto al passato feudale, ma non meno opprimenti. Il contratto, nel lavoro salariato, offre l'illusione di una libertà superiore a quella della dipendenza personale dell'epoca feudale, ma essendo di molto aumentate le esigenze vitali nella società borghese, ora per il contadino neo-operaio la rottura di quel contratto comporta immediatamente una situazione disperata.

L'illusione borghese è superiore perché superiore è l'alienazione. Mentre nel feudalesimo era la dipendenza personale che imponeva lo sfruttamento, nel capitalismo invece è la libertà personale (giuridica) del lavoratore che permette un diverso sfruttamento, uno sfruttamento così particolare che lo stesso lavoratore è diventato una "merce" da acquistare sul mercato del lavoro.

Il diritto borghese ha svolto le stesse funzioni della teologia cristiana all'alba del feudalesimo. Infatti, all'origine del rapporto feudale la teologia ebbe lo scopo d'illudere lo schiavo sulla possibilità della libertà nel condizione della servitù. Tale cultura, invece che spingere gli schiavi alla rivolta contro i padroni, li convinse ad accettare una diversa forma di rapporto di lavoro, facendo credere loro che con un proprietario cristiano il rapporto sarebbe stato meno oppressivo.

All'origine di una formazione sociale antagonistica, che segue un'altra formazione antagonistica, deve per forza esserci una cultura illusoria, che è tale anche senza saperlo, in perfetta buona fede e nella convinzione di poter modificare qualitativamente (che poi si riduce a una mera questione di forme) l'oppressione sociale.

E' proprio questa cultura che impedisce la transizione democratica. Per poterla impedire essa deve offrire l'illusione di poterla realizzare. Là dove c'è un antagonismo in atto, lì deve esserci un'ideologia che lo giustifica: in questo caso era il paganesimo. Oltre a ciò deve anche esserci un'ideologia che lo contesta e che cerca di superarlo: in questo caso il cristianesimo. E' stato appunto il cristianesimo che nel tentativo di superare lo schiavismo ha contribuito alla nascita del servaggio.

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Il fatto che nell'Europa orientale il feudalesimo fu più stabile di quello occidentale dipese dalla diversità delle culture: ortodossa e cattolica. Nell'est-europeo ci fu meno contestazione nei confronti del servaggio (come minore fu quella nei confronti dello schiavismo) perché meno forti erano le contraddizioni antagonistiche. Quando queste contraddizioni divennero insopportabili, si finì col rifiutare, con esse, anche la soluzione capitalistica prospettata in occidente. Ciò sta appunto a significare la superiorità della cultura est-europea.

Tuttavia, la stabilità del feudalesimo si verificò anche in Asia, cioè sotto la cultura indo-buddista. Questo fatto può essere spiegato pensando alla limitatezza di quella cultura, che non ha saputo elaborare autonomamente una critica del feudalesimo. Questa cultura è stata incapace di elaborare un'illusione così sofisticata come quella euroccidentale. La critica del feudalesimo essa l'ha acquisita dopo essere venuta a contatto con la civiltà borghese e l'ideologia socialista.

Il fatto che in Asia il capitalismo non si sia affermato come in Occidente (a parte il Giappone, la Corea del Sud, Taiwan, Hong Kong, Singapore, Macao...), sta forse a significare che il feudalesimo asiatico aveva conservato delle tracce del comunismo primitivo o comunque del modo di produzione asiatico, che è di tipo socialistico, seppure in forma autoritaria e massificante.

In tal senso è parso più naturale (soprattutto in quelle nazioni ove l'ideologia è più democratica e i rapporti sociali sono più collettivistici: si pensi alla Cina buddista) il passaggio diretto dal feudalesimo al socialismo. In Cina, Vietnam, Corea del Nord, Mongolia ecc. è avvenuta la stessa cosa che è avvenuta nell'Europa orientale, solo che qui il passaggio è stato mediato dal cristianesimo e non dal buddismo. Probabilmente è stato lo scarso peso dato all'individuo singolo che ha indotto il socialismo asiatico ad essere così burocratico e autoritario. Sarebbe interessante, in questo senso, cercare di capire se lo stalinismo è una variante del socialismo asiatico o se invece rappresenta un'anticipazione del socialismo poliziesco che si potrebbe affermare in Europa occidentale. La fine dell'impero romano non fu forse caratterizzata da forme di socialismo autoritario (a partire almeno da Diocleziano)?

CAPITALISMO E CRISTIANESIMO

Come mai la rivoluzione borghese si è verificata prima che altrove in un'area geografica dominata dalla presenza del cristianesimo? Cosa ha impedito a tutte le altre religioni di conseguire i medesimi risultati?

Il motivo è semplice: il cristianesimo è la prima religione del mondo che pone l'uomo al centro del processo storico-universale. Esso da un lato ha ereditato l'ottimismo della cultura ebraica, la fiducia nelle capacità degli uomini, organizzati collettivamente, di trasformare l'ambiente in cui vivono, ma di questa cultura ha saputo superare l'aristocraticismo dell'appartenenza a un "popolo eletto", alla "nazione santa" ecc. (il che comportava chiusure e settarismi); dall'altro ha ereditato il cosmopolitismo dei popoli pagani (greco-romani soprattutto), superandone però l'individualismo e l'intellettualismo: limiti che portavano a credere nei concetti passivi di "destino", "fato" ecc.

Tutte le altre religioni hanno conservato un rapporto migliore con la natura, senza preoccuparsi più di tanto di "fare storia". In ciò esse possono riflettere una maniera individualistica o collettivistica di vivere i rapporti sociali: quel che è certo è che esse appaiono più "religiose" (in senso tradizionale) del cristianesimo. La religione tradizionale esprime infatti una sorta di rapporto magico o feticistico con la natura, che è avvertita come più potente dell'uomo. Col cristianesimo invece il rapporto si ribalta: è l'uomo a essere considerato "magico" quando usa la sua forza contro la natura.

QUALE ETICA DEL LAVORO NEL BASSO MEDIOEVO?

Non è possibile pensare che l'artigianato si sia separato nel corso del basso Medioevo a causa di semplici e progressive determinazioni quantitative, di tipo socio-economico. Sotto questo aspetto la storiografia marxista va completamente rinnovata, in quanto non s'è capito l'apporto decisivo del fattore culturale nelle scelte di fondo, quelle che contraddicono una tradizione consolidata.

E per "cultura" non si deve necessariamente intendere qualcosa di intellettuale o di libresco, ma una certa consapevolezza delle cose, che può essere anche un sentire, una percezione della realtà, un senso comune che si vuole o confermare o smentire, totalmente o parzialmente.

Una separazione netta dell'artigianato, organizzato in corporazioni residenti nelle città, dall'agricoltura implica una rottura nei confronti dell'autoconsumo e soprattutto nei confronti del fatto che in ambito rurale la distinzione dei lavori era di tipo naturale (tra uomo e donna) e non artificiale (tra uomo e uomo).

Una distinzione delle funzioni lavorative così marcata, connessa a fattori logistici e strumentali così precisi, comporta inevitabilmente che l'artigianato punti a una certa specializzazione produttiva e quindi a un riscontro economico ad essa adeguato. L'artigiano s'impone come nuova figura lavorativa volta a guadagnare del denaro e, per ottenerlo, s'impegna a lavorare ben oltre lo stretto necessario. Specializzazione e profitto vanno di pari passo.

La figura del mercante è successiva a questa dicotomia. I mercanti sono sempre esistiti per le merci esotiche, difficili da realizzare, particolarmente rare e costose, ma non sono loro che nel Medioevo favoriscono la transizione al capitalismo. Anche perché non hanno una vera professione lavorativa, esattamente come gli usurai.

Tuttavia quanto più l'artigianato si scinde dal lavoro rurale, tanto più si consolida la figura del mercante, che ora tende a realizzare una compravendita il più possibile quotidiana e su qualunque tipo di merce. Il mercante è come un parassita che vive sulle spalle dell'artigiano autonomo, che ha bisogno di vendere i suoi beni al migliore offerente, nel tempo più breve possibile, senza aver mai problemi di rifornimento della materia prima.

L'artigiano è un ex-contadino che ha smesso di lavorare a 360 gradi e che ha cominciato a specializzarsi in una determinata direzione: non vuole più essere un dilettante che sa fare di tutto, ma un esperto in un settore di punta o che tale può diventare grazie alla sua particolare abilità. L'artigiano è un contadino che vuole sfruttare le proprie capacità lavorative per emanciparsi individualmente dal servaggio.

Ci vuole un mutamento di mentalità per realizzare una transizione del genere, che è del tutto in controtendenza rispetto al dato acquisito, alla pratica pregressa. E' davvero singolare che il marxismo non abbia capito una cosa del genere.

Se avesse posto sullo stesso piano struttura e sovrastruttura, cercando i reciproci condizionamenti, avrebbe capito il motivo per cui le prime forme di superamento del servaggio sono avvenute nell'Italia feudale e papista e non, p.es., nella Bisanzio commerciale e antipapista.

Nell'Italia feudale il papato era profondamente corrotto sul piano politico e, di conseguenza, tutta la gerarchia ecclesiastica, che da esso dipendeva. Per poter realizzare la separazione dell'artigianato dall'agricoltura, cioè per realizzare qualcosa che non venisse a incidere solo su un metodo di lavoro ma anche su un'etica del lavoro, che da collettivista doveva trasformarsi in individualista, non potevano non esserci delle istituzioni condiscendenti, non legittimate, eticamente, a opporsi.

In altre parole se la gerarchia ecclesiastica poteva politicamente opporsi alla formazione anti-feudale delle città, eticamente di fatto non era in grado di farlo, proprio perché sapeva che in questo campo non ne aveva l'autorità sufficiente.

L'artigiano, il mercante, l'imprenditore di se stesso comincia appunto a farsi strada all'interno di questa antinomia, tra potere politico e autorevolezza etica, tra qualcosa di forte a livello istituzionale (in senso poltico-militare), ma debole idealmente, qualcosa di astrattamente sentito e praticamente inapplicato (l'etica religiosa).

Lo sviluppo di una mentalità individualistica (del borgo che si stacca dal villaggio) s'insinua dentro un'incoerenza tutta religiosa (ch'era la cultura dominante), ben visibile a livello di organi ecclesiastici, che va ad incrinare anche l'autorevolezza di quella classe laica strettamente legata agli interessi feudali della chiesa romana: l'aristocrazia terriera.

Il mondo religioso, sia esso strettamente ecclesiastico o del laicato cattolico, era profondamente in crisi, nei suoi livelli istituzionali e quindi indirettamente sociali, quando iniziano a sorgere le città, e quindi le corporazioni di arti e mestieri, i traffici commerciali, le prime attività imprenditoriali autonome.

Sul piano dell'analisi storiografica si tratta soltanto di verificare, oltre alle vicende politiche, quali trasformazioni culturali aveva subìto la teologia cattolica, in grado di permettere la formazione e addirittura lo sviluppo di una mentalità così anti-religiosa come quella borghese. Occorre cioè studiare l'evoluzione della Scolastica, mettendola in rapporto a realtà di tipo socio-economico che, apparentemente, sembrano non avere alcun rapporto con essa.

Il nesso economia/cultura (che nella fattispecie era tra servaggio e cristianesimo, anzi cattolicesimo-romano) non può ovviamente essere considerato come un rapporto immediato di causa ed effetto, né in un senso materialistico (la religione come proiezione dell'economia) né in un senso idealistico (l'economia come prodotto della teologia).

Il rapporto in realtà è ambiguo, soggetto a interpretazioni opposte. P.es. esaminando la teologia tomista è difficile pensare a una società non basata su una stretta gerarchia. Eppure il tomismo, dando ampio spazio alla speculazione razionale, alla riduzione della teologia a metafisica religiosa, ha inevitabilmente favorito, sul piano culturale, dei processi sociali di tipo borghese. Qualunque processo di intellettualizzazione della fede favorisce l'incoerenza tra teoria e prassi religiosa, proprio perché la fede è un qualcosa di "mistico", un credere in cose non naturali.

Il borghese non ha fatto altro che inserirsi, astutamente e non senza una certa avvedutezza culturale (si pensi al fenomeno delle eresie pauperistiche), in questa debolezza del valore religioso, privo di una prassi adeguata, e, in un certo senso, ha fatto propria quella debolezza ampliandola progressivamente, cioè rendendo ad un certo punto inevitabile un'inversione di marcia.

L'ambiguità del mercante sta appunto nel fatto ch'egli, sulla base delle apparenze, deve convincere le autorità costituite d'essere un "perfetto cristiano", per poter compiere nell'attività pratica cose tutt'altro che religiose. Il borghese è un maestro nell'impararsi a memoria una "dottrina" i cui principi gli sono del tutto estranei negli affari che conduce.

Dunque quello che a uno storico dovrebbe premere di dimostrare non è tanto l'evoluzione dei processi socio-economici, quanto la rilevazione di ciò che ad un certo punto ha permesso il passaggio da un processo a un altro, da una tendenza a un'altra. Ciò che davvero importa capire sono le fasi delle transizioni epocali.

Questo tipo di quid è certamente analizzabile sul piano socio-economico, ma occorre, per poterlo adeguatamente capire, anche un'analisi di tipo culturale, altrimenti, p.es., è impossibile spiegarsi il motivo per cui il capitalismo non sia nato per determinazioni quantitative progressive dallo sviluppo dello schiavismo, che implicava una società fortemente commerciale, ma sia nato in seno a una società di tipo feudale, profondamente vincolata all'uso della terra e dell'autoconsumo, dove la coercizione extra-economica rivestiva un ruolo fondamentale.

Quello che va studiato in maniera approfondita, mettendo in stretta relazione struttura e sovrastruttura, è il modo in cui il cristianesimo, soprattutto nella variante cattolico-romana (poi ereditata e portata alle estreme conseguenze dal protestantesimo), permette di realizzare una doppiezza di atteggiamento tra riflessione culturale e attività pratica, un'ambiguità di molto superiore a quella rinvenibile in qualunque religione pagana.

Il massimo dell'ipocrisia del paganesimo lo si vede nei miti, là dove vengono trasformati in eroi dei personaggi che nella realtà erano squallidi, oppure là dove si attribuiscono agli dèi o al fato le cause terrene di determinati fenomeni sociali, o dove si elaborano storie del tutto leggendarie, fatte passare per verosimili a causa d'intrecci psicologici evoluti.

Si badi, queste cose esistono anche nel cristianesimo, che in fondo è stato una "religione" che ha voluto sostituirsi ad altre "religioni", e tuttavia con esso l'elemento ebraico che lo caratterizza ha voluto far passare per vero qualcosa che, pur essendo non meno lontano dalla realtà (ad un'analisi di tipo laicista), è stato così ben congeniato da indurre a credere che tutto quanto di religioso era esistito prima, andava semplicemente rimosso.

Gli ebrei hanno costruito un mito di Cristo, trasformando in chiave mistica un'esperienza politico-rivoluzionaria. Hanno attribuito al Cristo qualità divine per potergli togliere quelle più umane. Da un lato hanno compiuto un'operazione mistificatoria di tipo religioso, dall'altro un'operazione di ateizzazione della fede, che ha portato a rinunciare al politeismo pagano.

E poi il cristianesimo, a livello di valori etici, offriva alle masse la possibilità di fare qualcosa di contestativo accettando il principio della non-violenza: la sofferenza, il martirio erano considerati valori positivi, da fare valere contro le istituzioni. Erano garanzia di giustezza delle proprie posizioni religiose.

La mitologia pagana ragionava diversamente: i torti subìti dovevano essere riscattati col successo personale, con l'acquisizione di poteri straordinari, anche se questa vittoria fosse durata poco tempo. Chi non reagiva al torto finiva col meritarselo.

Nei vangeli si parla di "amare i propri nemici". Nei miti pagani il più forte domina il più debole, il più astuto domina il più ingenuo (quindi anche un debole astuto può vincere un forte ingenuo); i deboli e gli ingenui vengono riscattati, quando se lo meritano, dalla benevolenza di chi è al di sopra di tutto, il più forte dei forti.

Nei miti pagani l'eroe è un singolo che lotta da solo contro il proprio destino, anzi per farsi un proprio destino. Nei vangeli è il collettivo che affronta le avversità della vita. Gli eroi, gli dèi e i semidèi dei miti greco-romani sono il prodotto di una società che doveva giustificare l'antagonismo sociale, lo schiavismo, il primato dei traffici commerciali sull'autoconsumo agricolo: gli eroi erano quelli che difendevano con ogni mezzo l'onore calpestato o che passavano, individualmente, da una situazione di precarietà a una di privilegio, grazie al loro forte impegno. I vangeli invece rappresentano la sconfitta, mascherata, di una rivoluzione tradita e fallita contro l'oppressione e lo sfruttamento.

Questa sorta di "realismo mistico" del cristianesimo ha dato l'impressione di una maggiore concretezza, di una maggiore aderenza alla realtà, anche perché si tendeva ad associare religiosità con socializzazione (rispondendo ai bisogni del popolo). Ecco perché i tradimenti ulteriori di questo cristianesimo inventato da Pietro e soprattutto da Paolo, i tradimenti cioè compiuti dalla chiesa romana e poi dal protestantesimo dovevano essere non meno sofisticati. Si doveva tener conto di un certo substrato realistico della fede, per poter compiere un'operazione che fosse contro la fede stessa (quella trasmessa dalla tradizione apostolica e patristica).

E' indubbio infatti che la progressiva borghesizzazione della fede ha fatto maturare delle istanze di tipo agnostico o addirittura ateistico, che poi han trovato nell'esperienza del socialismo il loro prosieguo più naturale.

Per eliminare l'incoerenza della figura sociale del borghese occorre fare due cose:

  1. realizzare un sistema di organizzazione del lavoro in cui non vi sia alcuna divisione artificiale nelle mansioni, cioè una divisione imposta da circostanze esterne, ritenute immodificabili, e questo è possibile solo se non c'è separazione tra lavoro e proprietà dei mezzi produttivi;
  2. trasformare le istanze religiose (che di per sé riflettono sempre un'alienazione sociale dovuta alla divisione tra proprietà e lavoro) in istanze di tipo laico e umanistico.

Web Homolaicus

Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Storia - Storia medievale
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Aggiornamento: 01/05/2015