LA GUERRA DEL VESPRO (1282-1302)
LU REBELLAMENTU DI SICHILIA


Premessa su Carlo d'Angiò - Gli Svevi nel Mezzogiorno - La politica angioina
La politica ecclesiastica - La guerra del Vespro - Dopo il Vespro - Considerazioni - Fonti


Riproduzione del profilo presente nel Duomo di Salerno di Giovanni da Procida (Storia di Procida di Michele Parascandolo, ed. Benevento, 1893)Pietro III d'Aragona sbarca a Trapani - manoscritto, Biblioteca Vaticana

La guerra del Vespro

La reazione bizantina alla scomunica del basileus Michele VIII e alla minaccia incombente della crociata latina non si fece attendere. Attraverso la mediazione di alcuni importanti esponenti anti-angioini all’estero, il Paleologo riuscì a convincere Pietro III d’Aragona ad attaccare la Sicilia.

Tra i sostenitori dell’impresa vi erano i filo-ghibellini Ruggero di Lauria, ammiraglio, e soprattutto Giovanni da Procida (1210-98), che, prima di essere esiliato da Carlo d’Angiò, era stato medico di Federico II di Svevia (proveniva dalla famosa Scuola Salernitana), e consigliere di Manfredi, poi era diventato segretario di Pietro III d’Aragona, ed era sicuramente in stretti rapporti con papa Niccolò III (1277-80). Giovanni poteva avvalersi dell’appoggio di 16 baroni.

Papa Orsini, che morirà proprio alla vigilia della ribellione (agosto 1281), sospettando che Carlo d’Angiò volesse occupare tutta la penisola, costituendo un impero francese nel Mediterraneo, gli aveva già tolto la carica di “senatore di Roma”, aveva bloccato il piano imperiale dell’angioino per la riconquista di Costantinopoli, aveva appoggiato l’impresa africana di Pietro III e non intendeva ostacolare il piano siciliano del sovrano aragonese. Avvalendosi della momentanea riconciliazione con la chiesa ortodossa, firmata nel 1274 a Costantinopoli, egli era anche in stretti rapporti col basileus Michele VIII Paleologo, che finanziò il piano di Pietro III con 30.000 once d’oro, auspicando altresì un legame matrimoniale tra il proprio casato e quello aragonese.

I siciliani dunque chiesero aiuto non solo al Paleologo (per costruire l’armata navale di invasione), ma anche a Pietro III d’Aragona, che vantava diritti al regno di Sicilia, avendo sposato Costanza, figlia ed erede di Manfredi. Il trattato fu concluso nell’autunno del 1281. Vi trovò consenziente anche il re inglese Edoardo I (1272-1307), ostile a Carlo d’Angiò.

Pietro III, che insieme ai conti, marchesi e baroni siciliani, era stato scomunicato, senza che di ciò ne approfittasse re Alfonso X di Castiglia e di Léon (1252-84), che anzi si era legato a Pietro con il trattato di Campillo del marzo 1281, informò lo stesso Alfonso, che probabilmente contribuì al finanziamento dell'impresa anti-angioina, di aver ottenuto l’appoggio del marchese di Monferrato, Guglielmo VIII, del conte fiorentino Guido Novello, di Corrado di Antiochia, di Guido da Montefeltro e di altri magnati d’Italia e di Sicilia. L’intera penisola svevo-ghibellina e tutto il Mezzogiorno sembravano attendere con ansia la realizzazione del piano militare.

Carlo d’Angiò chiese alle autorità di Pisa di prepararsi a una guerra contro Pietro III e Michele VIII, ma ottenne solo un deciso rifiuto: la città, pur essendo ghibellina, restò neutrale.

Pietro III non sbarcò subito in Sicilia, ma in Algeria, col pretesto di una crociata anti-saracena. Prima di dirigersi verso l’isola aspettò che la flotta angioina di 22 galere e 8 teride, sotto il comando di Giovanni Calderon, salpasse da Corfù in direzione di Bisanzio, insieme a quella veneziana.

Nel marzo 1282 papa Martino IV lanciò una seconda scomunica contro il Paleologo, con minacce severe contro chiunque tentasse di prestargli aiuto. Infatti i principali baroni dell’isola, due mesi prima, in un convegno di Trapani, avevano preso la decisione di farlo.

La ribellione scoppiò a Palermo il 31 marzo 1282, dopo 16 anni di tirannide, ma si diffuse immediatamente in tutta l’isola. Il popolo vi partecipò in massa, senza distinzione di ceti, di sesso o di età. La città di Corleone ebbe un ruolo di primissimo piano. Tutti i 3-4.000 francesi vennero uccisi o cacciati dall’isola in pochissimi giorni: anche l’arcivescovo di Palermo fu costretto alla fuga.

Carlo d’Angiò, che in quell’occasione si trovava ancora a Napoli, l’11 aprile richiamò la flotta dando ordine di dirigersi verso la Sicilia. I veneziani, cui venne chiesto un aiuto, temporeggiavano, dopo aver visto che gli aragonesi vi erano già sbarcati.

Nel maggio 1282 il papa minacciò di interdetto l’intera isola e lanciò la terza scomunica contro il Paleologo. L’odio che aveva per il basileus era dettato anche da motivi personali, oltre che politici: infatti nel 1261 Michele VIII aveva cacciato da Costantinopoli tutti i parenti del pontefice, resisi responsabili di malversazioni.

Intanto Carlo chiedeva aiuto ai saraceni di Lucera. Ma, a sorpresa, nello stesso mese i ghibellini di Romagna, capeggiati dallo scomunicato Guido da Montefeltro, sconfissero clamorosamente l’esercito franco-pontificio a Forlì, facendo chiaramente capire di volersi liberare del papato in Romagna.

Viceversa, i siciliani, dopo essersi liberati dei francesi, proprio nel maggio 1282 inviarono un’ambasceria a Orvieto, disposta a riconoscere la Sicilia come feudo della chiesa di Roma, a condizione però che nell’isola non vi fosse neppure un francese. Ma Martino IV rifiutò la proposta.

La flotta di Carlo sbarcò a sud di Messina il 28 luglio 1282: a Catona (RC), piccola ma strategica terra collocata in Calabria sullo stretto (di fronte a Messina), aveva riunito un esercito di 15 mila cavalieri, 60 mila fanti, e almeno 150 navi da guerra e da trasporto. Tanta gente e tante armi in quel tempo non si erano forse mai raccolte neppure per una Crociata. Ma i messinesi, con le loro navi e con quelle sottratte ai francesi, pronte a partire per la crociata, e con l'aiuto di tutta l'isola, resistettero ad oltranza con grande coraggio.

Intanto la flotta aragonese, dopo essere approdata alla fine di giugno in Algeria, era sbarcati a Trapani il 30 agosto e nella prima settimana di settembre, Pietro III, col pretesto di restituire l’isola alla sua consorte Costanza, figlia di Manfredi, venne incoronato re con grandi onori a Palermo.

Egli invitò Carlo a lasciare l’isola e mandò un messaggio a Guido da Montefeltro chiedendogli di mantenere alta la tensione in Romagna. La vittoria di Guido sembrava infatti preoccupare molto di più la curia pontificia che non la strage siciliana dei francesi, tant’è che il papa rifiutò di consegnare a Carlo le truppe francesi dislocate in Romagna.

A novembre papa Martino scomunicò tutti: Pietro III (per aver condotto un’impresa africana fraudolenta, volta in realtà ad occupare il regno di Sicilia), i siciliani (per averlo appoggiato), il Paleologo (per averlo finanziato), ma quest’ultimo a dicembre morì in Tracia, dopo aver combattuto contro i turchi, e a Costantinopoli gli ortodossi radicali si opposero agli unionisti filo-latini e deposero il patriarca Giovanni Bekkos, negando persino una sepoltura ecclesiastica al basileus.

Il figlio di Michele VIII, Andronico II, non era più in grado di rispettare l’invio annuale 60.000 lipperi d’oro, sino a guerra conclusa in Sicilia. Il che fece mutare atteggiamento a Pietro III, anche se le sue relazioni diplomatiche con Andronico II si manterranno buone, almeno sino al 1294, anno in cui gli aragonesi inizieranno ad attaccare anche i bizantini.

Pietro III chiamò in Sicilia sua moglie Costanza, accompagnata dal consigliere Giovanni da Procida, che vennero accolti trionfalmente; e resterà in carica a Palermo, dopo aver sconfitto a più riprese la flotta angioina, sino all’anno della sua morte (1285), che coincise con quello della morte di Carlo d’Angiò.

La guerra sicula fu continuata da Giacomo II d’Aragona (1285-91), signore della Sicilia, e Carlo II d’Angiò (1285-1309), signore del regno di Napoli.

Viceversa, Venezia, dopo la rivolta del Vespro, preferirà firmare una tregua decennale col basileus Andronico II nel giugno 1285, al fine di non concedere troppo spazio alla rivale Genova.

Con la pace di Anagni, voluta da Bonifacio VIII (1295), Giacomo riconosceva a Carlo il regno di Sicilia, ma otteneva in cambio l’investitura della Sardegna e della Corsica. Lo stesso papa proibiva per un ventennio l’invio di francesi nell’isola.

Per tutta risposta i siciliani cacciarono Giacomo dall’isola e al suo posto fecero re, nel 1296, il fratellastro Federico III, il quale però, vedendo che i francesi, appoggiati dallo stesso Giacomo e persino dall'ammiraglio Ruggero di Lauria, stavano organizzando una spedizione militare contro l’isola, firmò la pace di Caltabellotta (1302), con cui accettò la clausola secondo cui, finché era in vita il suo titolo sarebbe stato quello di “re di Trinacria” e non “di Sicilia” (che spettava solo a Carlo II), e, alla sua morte, l’isola sarebbe passata definitivamente ai francesi. Inoltre Federico avrebbe dovuto sposare Eleonora, figlia di Carlo II e sorella del duca di Calabria Roberto d'Angiò. L'accordo dunque limitava il regno di Carlo II al meridione peninsulare d'Italia.

Nel 1296, in occasione della propria elezione, Federico promulgò le “Constitutiones regales”, i “Capitula alia”, le “Ordinationes generalis” ed altri testi che fornirono una base di garanzie costituzionali innovative per il medioevo, comprendente i doveri dei reggenti e l'obbligo di convocare almeno annualmente il parlamento siciliano, che aveva tre rami: ecclesiastico, demaniale e militare.

Il parlamento, che contribuì in maniera decisiva all'organizzazione della rivolta, era composto da feudatari, sindaci delle città, conti e baroni, era presieduto e convocato dal re, che veniva eletto dagli stessi parlamentari. La funzione principale era la difesa dell'integrità della Sicilia, come valore massimo anche nei confronti dell'assolutismo del re, nell'interesse di tutti i siciliani. Il re, infatti, non poteva stringere accordi di qualunque natura (politica, militare o economica) né dichiarare guerra senza aver prima consultato ed ottenuto l'approvazione del Parlamento. Costituzionalmente esso aveva il compito di svolgere la funzione di organo garante del corretto svolgimento della giustizia ordinaria esercitata da giustizieri, giudici, notai e dagli altri ufficiali del regno.

Quando venne il momento di cedere l’isola agli angioini, i siciliani si opposero e chiesero che il loro regno restasse in mano a uno dei figli di Federico, Pietro (1313), sicché le contese dinastiche con le relative guerre si trascineranno per altri due secoli, determinando l’espandersi dei poteri baronali pre-normanni, che, ampliando i loro latifondi incolti, impoveriranno fortemente l’isola.

Gli isolani infatti sperimentarono la Communitas Siciliane, cioè il patto di reciproca solidarietà tra liberi Comuni, secondo i modelli politico-istituzionali delle città lombardo-toscane, solo nella fase della cacciata dei francesi. La stessa richiesta a Pietro III, presentata dagli ambasciatori dell’isola, di venire a governare la Sicilia, si poneva in contrasto col patto intercomunale appena costituito.

D’altra parte gli elementi nobiliari dell’isola, coi loro interessi di classe, non avevano alcuna intenzione di liberarsi dei francesi semplicemente per riconoscere al popolo siciliano il suo diritto all’autodeterminazione. Certo i francesi andavano cacciati, ma soltanto per ristabilire lo status quo pre-angioino.

E questa impostazione delle cose non riguarderà solo la Sicilia, poiché dal 1343 al 1442 l’intera popolazione meridionale, a causa dello strapotere della nobiltà laica ed ecclesiastica, passerà da 3,4 a 1,7 milioni di abitanti. In questo disastro economico e demografico alla fine prevarranno gli aragonesi, che con Alfonso I occuperanno Napoli nel 1442, cacciandone gli angioini. E il potere degli spagnoli dilagherà poi in buona parte della penisola italiana, sino alla fine del Settecento.

Il regno di Sicilia verrà soppresso nel 1816 da Ferdinando I di Borbone e proprio dai Borboni verrà comminato l’esilio a Michele Amari quando nel 1842 scriverà il suo fondamentale libro “Guerra del Vespro”. Significativo resta il fatto che il Risorgimento vedrà proprio nel Vespro un moto di liberazione nazionale e che la riunificazione della penisola, ad opera dei garibaldini, troverà di nuovo in Sicilia il suo punto di svolta decisivo.

I Vespri siciliani furono un evento così importante che la loro celebrazione dovrà attendere il 1882, in quanto il ricordo di una rivolta avvenuta 600 anni prima era visto con sospetto persino dai Savoia.


Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Storia Medievale
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Aggiornamento: 01-05-2015