L'OTTOCENTO ITALIANO ED EUROPEO
DAL CONGRESSO DI VIENNA
ALLA VIGILIA DELLA PRIMA GUERRA MONDIALE


LA SECONDA GUERRA D'INDIPENDENZA

Subito dopo la firma degli accordi di Plombières, Cavour si adoperò per costringere l'Austria, con qualche pretesto, a dichiarare guerra al Piemonte. Il governo attuò una serie di misure volte al rafforzamento dell'esercito, concedendo, d'altra parte, con sempre maggiore generosità, aiuto ed asilo ai patrioti che fuggivano in Piemonte dagli altri Stati italiani, e specie a quelli provenienti dai territori controllati dall'Austria. Queste iniziative, ampiamente e sapientemente pubblicizzare, spinsero l'Austria a richiedere, con un ultimatum, l'immediato disarmo del Piemonte. Al rifiuto del governo piemontese, l'Austria rispose, come voleva Cavour, con la dichiarazione di guerra.

Il 26 aprile 1859 scoppiava così la guerra. Gli eserciti regolari piemontese e francese, dei quali prese il comando lo stesso Napoleone III, furono subito affiancati dai volontari di Garibaldi, i “Cacciatori delle Alpi”. A Magenta, a Solferino e San Martino l'Austria fu battuta dagli eserciti franco - piemontesi.

Mentre l'Italia settentrionale era impegnata nelle vittoriose operazioni di guerra, nell'Italia centrale si riaccendeva la miccia delle rivoluzioni democratiche. In Toscana, a Parma, a Modena, nelle Legazioni pontificie si formarono governi provvisori che offrivano a Vittorio Emanuele la reggenza degli Stati liberati. Ma i legami con la Francia (gli accordi di Plombières) impedivano al re sabaudo di procedere nella politica delle annessioni.

Malgrado la prudenza piemontese, la situazione italiana preoccupò a tal punto Napoleone III da spingerlo ad una precoce, e, sul piano militare immotivata, chiusura della guerra contro l'Austria, con la quale si affrettò a firmare l'armistizio di Villafranca (11 luglio 1859). L'armistizio e i preliminari di pace, discussi all'insaputa dei Piemontesi, prevedevano che l'Austria cedesse la Lombardia (con l'esclusione di Mantova e Peschiera) a Napoleone che a sua volta la consegnava al Piemonte; il Veneto restava all'Austria e la Francia garantiva il ritorno dell'ordine e delle antiche dinastie regnanti in Italia centrale; la Francia, infine, rinunciava a pretendere Nizza e la Savoia, non essendo stati rispettati gli accordi di Plombières.

Con questo gesto l'imperatore dei Francesi rispondeva alle proteste che l'opinione pubblica cattolica aveva levato in Francia contro di lui, temendo per l'incolumità dello Stato Pontificio; d'altro lato egli tentava di bloccare il processo unitario italiano che, come sappiamo e come era stato sancito a Plombières, era ben lontano dagli interessi francesi.

Ma la rivoluzione nazionale italiana non si fermò per questo. I governi provvisori dell'Italia centrale resistettero, forti dell'iniziativa popolare che li sorreggeva. Ancora una volta la presenza e lo stimolo di Mazzini, l'abilità militare di Garibaldi, si rivelarono essenziali. Moderati e democratici costituirono un fronte comune di difesa dei territori liberati, questa volta risoluti a portare fino in fondo l'unità d'Italia. Le decisioni di Villafranca furono inattuabili nella situazione italiana. Anche in questo caso l'abilità politica di Cavour gestì e portò a compimento un processo di iniziativa popolare e democratica. Egli infatti riuscì ad ottenere da Napoleone il consenso alle annessioni al Piemonte dei Ducati di Modena e di Parma, del Granducato di Toscana, e delle Legazioni pontificie (i plebisciti si svolsero l'11 e il 12 marzo 1860) in cambio di Nizza e della Savoia cedute ai Francesi (con plebiscito del 15'aprile 1860).

L'Italia centrale e l'Italia settentrionale erano così unificate.Il Veneto ancora sotto il dominio austriaco, lo Stato Pontificio con la città di Roma, sede del papato, e l'Italia meridionale sotto i Borboni costituivano i problemi che il movimento risorgimentale doveva ancora risolvere.

La linea politica di Cavour si mostrò inadeguata a risolvere, negli anni successivi alla seconda guerra per l'indipendenza, la questione del Mezzogiorno d'Italia. Qui soltanto l'appoggio a quella iniziativa popolare che già teneva la Sicilia in uno stato pressoché continuo di guerriglia avrebbe potuto, come sostenevano i democratici mazziniani, dare i colpi finali al potere dei Borboni. Ma sappiamo come i metodi della politica liberale moderata del Piemonte fossero estremamente cauti rispetto ai momenti di insurrezione popolare, essendo per il Piemonte interesse prioritario una estensione del proprio dominio sui territori italiani, dominio che la rivoluzione democratica non garantiva. Per questi motivi l'iniziativa nel Regno delle Due Sicilie passò ai democratici. Cominciarono così i preparativi per una spedizione in Sicilia concepita dai democratici isolani, tra cui Francesco Crispi e Rosolino Pilo, e dallo stesso Mazzini. Si riuscì a persuadere Garibaldi ad organizzarla pur con i gravissimi rischi che essa presentava. La spedizione si preparò in Piemonte, malgrado l'atteggiamento di decisa ostilità da parte di Cavour ma con una certa apertura da parte del re Vittorio Emanuele II. Il governo piemontese in sostanza né ostacolava né favoriva i preparativi: non poteva decisamente opporvici con misure di polizia per motivi di politica interna, essendo l'equilibrio con le forze democratiche troppo instabile per tentare le maniere forti; peraltro una partecipazione all'iniziativa era del tutto impossibile, considerati i legami che il Piemonte aveva sul piano internazionale, in special modo con l'imperatore dei Francesi. Tutto sommato l'atteggiamento del lasciar fare del Piemonte era dettato dall'ipotesi di potere intervenire dopo, a cose fatte, come del resto avvenne, a riportare entro i confini dell'egemonia piemontese l'iniziativa democratica.

In queste condizioni Garibaldi partì da Quarto (nella notte tra il 5 e il 6 maggio 1860) con un migliaio di volontari provenienti da diverse regioni ma in maggioranza dalla Lombardia e dalla Liguria, su due piroscafi sequestrati a Genova. Dopo una sosta a Talamone per rifornirsi di armi, sbarcò a Marsala (l'11 maggio), accolto come liberatore dalla popolazione, ed a Salemi assunse la dittatura dell'isola in nome di Vittorio Emanuele

I garibaldini sostennero la prima battaglia vittoriosa contro i borbonici a Calatafimi a Palermo fu anche il moto popolare a mettere in fuga gli eserciti regi (30 maggio). Il governo provvisorio di Garibaldi varò subito provvedimenti popolari, alleggerendo gli oneri fiscali del passato governo borbonico, ma non poté far fronte alle richieste contadine della terra che, soddisfatte, avrebbero cambiato radicalmente la struttura socio - economica dell'isola dove la borghesia agraria, classe egemone, andava ancora conquistata all'ipotesi dell'Italia unita. Larghi strati di borghesia meridionale infatti stavano abbandonando la propria tradizione separatista e indipendentista e si andavano convincendo dell'utilità di un governo centrale dei Savoia che garantisse la stabilità del proprio ruolo egemonico sull'isola che il malgoverno borbonico non garantiva più. L'alleanza tra la borghesia industriale del nord e la borghesia agraria meridionale fu infatti l'asse portante della costruzione del nuovo Stato unitario. La dura repressione dei moti contadini in Sicilia (drammatico fu l'episodio di Bronte, passato più clamorosamente di altri alla storia), operata dallo stesso esercito liberatore garibaldino, rientra perciò amaramente nella logica delle forze politiche risorgimentali, anche di quelle democratiche. Dopo un vittorioso scontro con i borbonico a Milazzo, Garibaldi passò lo Stretto (20 agosto) e si diresse, con un'avanzata fulminea, a Napoli, dove entrò trionfalmente il 7 settembre. Il re delle Due Sicilie si rifugiò a Gaeta e fece attestare il suo esercito sulla linea del Volturno, dove più tardi (1-2 ottobre) fu definitivamente sconfitto dall'esercito garibaldino. A Napoli, dove era accorso anche Mazzini, Garibaldi tentò di dare uno sbocco democratico alla rivoluzione, ed a questo punto si fece acuto il conflitto con Cavour. I termini di questo conflitto restano quelli di fondo della diversa concezione che i due uomini avevano sul volto da dare all'Italia unita. Non che Garibaldi desse preoccupazioni per la sua fedeltà ai Savoia, ma restavano parecchi punti di disaccordo.

I mazziniani proponevano la costituzione di un nuovo Stato democratico che nascesse dalla convocazione di una Assemblea Costituente nazionale, eletta a suffragio universale. Alla loro proposta si contrapponeva la linea moderata piemontese, che voleva invece realizzare subito l'annessione al Piemonte dei territori liberati. Le leggi e gli ordinamenti del Regno di Sardegna avrebbero dovuto essere estesi a tutte le nuove province. I liberali piemontesi intendevano costituire un governo rappresentativo degli interessi dei ceti privilegiati dell'Italia settentrionale che trovavano punti d'incontro con gli interessi della classe dirigente agraria del Meridione: tale governo sarebbe stato caratterizzato da un notevole accentramento di tutti i poteri, lasciando quindi pochissimo spazio per le autonomie locali. Garibaldi d'altra parte pensava che fosse necessario indirizzare la spinta rivoluzionaria, rinvigorita dal successo della spedizione nel Regno delle Due Sicilie, verso lo Stato Pontificio, che con un'energica azione poteva, a suo parere, essere subito consegnato all'Italia unita.

Facendo presente questa minaccia, Cavour riuscì a convincere Napoleone III che solo un immediato ed energico intervento dell'esercito piemontese avrebbe permesso al Pontefice di conservare almeno il controllo del Lazio. Invaso così lo Stato Pontificio, i Piemontesi sconfissero le truppe del papa a Castelfidardo, procedendo quindi ad una rapida occupazione delle Marche e dell'Umbria: queste province furono quindi immediatamente annesse al Regno di Sardegna, con il solito sistema dei plebisciti.

A Napoli, frattanto, il governo dittatoriale garibaldino si trovò ben presto a dover affrontare non solo le ostilità delle classi dirigenti legate ai Borboni, ma anche a quelle delle masse contadine. Questa crisi facilitò l'intervento del governo piemontese nel Napoletano: a Teano, il 26 ottobre, in un incontro fatidico del re con Garibaldi, quest'ultimo consegnò il Regno delle Due Sicilie a Vittorio Emanuele Il, senza chiedere alcuna contropartita. Seguì lo scioglimento del corpo dei volontari garibaldini che dovevano passare sotto il comando regio al seguito dell'esercito regolare.

La linea democratico - garibaldina era così sconfitta. Garibaldi si ritirava nella sua isoletta di Caprera, Mazzini tornava in Inghilterra, non avendo ottenuto dal re l'amnistia delle sue condanne a morte.

Di lì a pochi mesi, il 18 febbraio 1861, rappresentanti eletti con ristretti criteri censitari o professionali da tutte le province d'Italia, convennero a Torino dove si tenne la prima seduta del nuovo Parlamento italiano. Il 17 marzo 1861 il Parlamento ratificava l'unificazione e proclamava Vittorio Emanuele Il re d'Italia.

La morte di Cavour, il più grande artefice dell'unità d'Italia, sopravveniva pochi mesi dopo, il 6 giugno. Egli lasciava un nuovo Stato, ma il lavoro di costruzione di questa nuova realtà storica era ancora tutto da affrontare insieme alle irrisolte questioni del Veneto e di Roma.

Il ruolo della Gran Bretagna nella caduta del Regno delle Due Sicilie (pdf-zip)


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Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Storia - Moderna
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Aggiornamento: 02/04/2014