L'OTTOCENTO ITALIANO ED EUROPEO
DAL CONGRESSO DI VIENNA
ALLA VIGILIA DELLA PRIMA GUERRA MONDIALE


L'ITALIA AI PRIMI DEL NOVECENTO

I -II

Gli ultimi anni del XIX secolo e in particolare i primi anni del XX fino al 1908 furono per l'Italia un periodo di progresso industriale. Con l'aiuto del capitale straniero e sotto la tutela dei dazi protezionistici si sviluppava rapidamente la grande industria. Nell'Italia settentrionale, e in primo luogo nel cosiddetto “triangolo industriale” Milano-Genova-Torino, si svilupparono la metallurgia, l'industria metalmeccanica e chimica e quella automobilistica.

In questo processo svolsero una funzione importante le grandi banche, con alla testa la Banca Commerciale Italiana, nella quale vi era una grossa partecipazione di capitale tedesco. Molte grandi imprese italiane erano sorte con i mezzi di questa banca. Nel 1902 essa aiutò la società metallurgica “Terni” ad ottenere le concessioni delle miniere di ferro nell'isola d'Elba, che fino ad allora erano appartenute a capitalisti belgi. Impadronitasi di una materia prima scarseggiante in Italia, la “Terni” poté controllare varie altre società metallurgiche italiane. Anzi, fino al 1907 la “Terni” e la Banca Commerciale Italiana assoggettarono al proprio controllo molti cantieri navali e le maggiori compagnie di trasporti marittimi.

Il livello di vita degli operai italiani rimaneva al di sotto di quello della maggioranza dei paesi dell'Europa occidentale; la giornata lavorativa era in media di 12-13 ore. Anche la condizione dei contadini era sempre dura. Nei latifondi dell'Italia meridionale gli affittuari dovevano consegnare al proprietario fino a 3/4 del raccolto.

Con lo sviluppo della grande industria la lotta del proletariato italiano assunse forme nuove, più organizzate. Già nel 1901 il numero degli scioperi (essenzialmente economici) era stato di 1.671 e quello degli scioperanti di 420mila. Per la maggior parte gli scioperi terminavano con un successo. Grande importanza ebbe lo sciopero generale di protesta contro lo scioglimento della locale Camera del Lavoro avvenuto a Genova nel dicembre del 1900. Fu questo il primo sciopero generale organizzato di tutta una città, in Italia; vi parteciparono 20mila persone e si concluse con una vittoria.

I liberali al potere. Giovanni Giolitti

L'ascesa del movimento operaio costrinse la borghesia italiana, all'inizio del XX sec., a rinunciare ai metodi di governo apertamente reazionari, caratteristici del secolo precedente. Infatti dopo lo sciopero genovese uno dei leader dei liberali italiani, Giovanni Giolitti, dichiarò in Parlamento che il socialismo poteva essere vinto solo con “l'arma della libertà”.

Nel 1901-1903 Giolitti fu ministro degli Interni, e dal 1903 al 1904, con brevi intervalli, fu presidente del Consiglio dei ministri. Con una politica di compromessi e di concessioni Giolitti cercò di attenuare le contraddizioni di classe e di “conciliare” gli operai italiani con lo Stato borghese. Egli fece molti tentativi per dividere il movimento operaio, privarlo delle sue caratteristiche rivoluzionarie e imporgli l'ideologia borghese.

Contando sull'appoggio degli elementi opportunisti nel movimento operaio, Giolitti nel 1901 legalizzò le organizzazioni operaie e riconobbe agli operai il diritto di sciopero. Furono inoltre introdotte alcune leggi sulla tutela del lavoro, e nel 1904 fu esteso in una certa misura il diritto di voto. I leader riformisti del partito socialista, Bissolati, Turati ecc., appoggiavano la politica di Giolitti e i deputati socialisti votavano in Parlamento a favore del governo. Essi asserivano che il marxismo era “invecchiato” e conducevano il partito sulla via dell'aperto patteggiamento con la borghesia liberale.

Lo sciopero generale del 1904

Il malcontento per l'indirizzo opportunistico dei capi socialisti fece sorgere nell'ambiente operaio correnti e gruppi “di sinistra”, generalmente con tendenza anarco-sindacalista. Opponendosi alla collaborazione con la borghesia, questi gruppi chiedevano “l'espropriazione rivoluzionaria”, che essi ritenevano di poter attuare mediante lo sciopero generale. Il sindacalismo italiano si appoggiava principalmente al bracciantato, agli strati arretrati degli operai delle piccole fabbriche e officine e a una parte degli operai delle grandi fabbriche, delusi della politica opportunistica dei riformisti.

Nel partito socialista si era formata in quegli anni anche una corrente centrista con a capo Enrico Ferri (gli “integralisti”), che faceva appello all'unione delle forze, ma in realtà sosteneva la posizione dei riformisti.

L'assenza di una direzione conseguentemente rivoluzionaria del movimento operaio italiano si fece sentire chiaramente durante lo sciopero generale del 1904, durante il quale, dopo che s'era diffusa la notizia di uccisioni di operai in Sicilia e in Sardegna ad opera della polizia, in parecchi centri industriali del nord si ebbero vivaci azioni di protesta. A Milano fu proclamato uno sciopero generate cittadino e il 17 settembre scioperarono gli operai di tutti i centri industriali del nord, nonché di Napoli, di Roma, di Firenze e di molte altre località. Lo sciopero diventò generale.

L'industria era paralizzata, si fermò parzialmente anche il movimento dei treni, non uscivano i giornali, non funzionavano i tram. Nelle piazze delle città si svolgevano grandiosi comizi degli scioperanti (a Milano ai comizi parteciparono 50mila persone) e tempestose manifestazioni accompagnate da scontri con le truppe e la polizia. A Venezia gli scioperanti diedero l'assalto alla stazione, a Genova alla prefettura. Il governo Giolitti concentrò d'urgenza le truppe nei centri industriali.

Tuttavia i sindacati che capeggiavano lo sciopero non avevano avanzato precise parole d'ordine politiche, e i leader riformisti del partito socialista cercavano di ostacolare lo sciopero. Il 20 settembre gli anarco-sindacalisti che dirigevano la Camera del Lavoro di Milano invitarono gli operai a cessare lo sciopero sino a un momento “più favorevole”. La sera dello stesso giorno lo sciopero politico generale cessò.

La notizia della prima rivoluzione russa colpì profondamente il proletariato italiano. Nel gennaio del 1905 a Roma si svolse una grandiosa manifestazione di protesta contro la strage di Pietroburgo. In tutto il paese si effettuò una raccolta di fondi a favore delle vittime dello zarismo e delle loro famiglie; assemblee operaie approvavano messaggi di saluto al proletariato russo; l'organo centrale del partito socialista, l'“Avanti”, pubblicava in ogni numero notizie e commenti sul corso della lotta rivoluzionaria in Russia. Quando Maksim Gor'kij giunse a Napoli, i lavoratori lo accolsero con esclamazioni di entusiasmo.

Il 22 gennaio 1906, nell'anniversario della “domenica di sangue”, gli operai di Roma e di altre città si riunirono in comizi in onore della Russia rivoluzionaria. Le autorità dovettero proteggere gli edifici dell'ambasciata zarista (a Roma) e dei consolati (nelle province). A Bologna la borghesia costituì persino dei reparti armati per la tutela “della proprietà e dell'ordine”.

La crisi economica del 1908. Lo sviluppo dei monopoli

La crisi economica, che alla fine del 1907 e all'inizio del 1908 si estese all'Italia, ebbe gravi riflessi sui principali rami della sua industria: tessile, metallurgico, meccanico.

Nel contempo la crisi accelerò la concentrazione della produzione nel paese, specie per quanto riguarda la produzione di ferro e di acciaio (Ilva). Consorzi monopolistici si formarono nell'industria automobilistica (la Fiat a Torino) e nell'industria tessile. S'intensificò anche l'esportazione di capitali all'estero.

I monopoli italiani mossero i primi passi sulla via della partecipazione ai cartelli internazionali: il trust Ilva concluse con il trust dell'acciaio tedesco un accordo che limitava l'importazione di ghisa tedesca in Italia.

Formatisi in un paese arretrato e gravato da residui feudali, i monopoli italiani non avevano a loro disposizione un capace mercato interno. L'insufficienza di risorse proprie (poco minerale di ferro e mancanza assoluta di carbone, cotone, rame) e di capitali posero l'industria italiana alla dipendenza dei capitalisti stranieri. La produzione di ghisa, di acciaio, di macchine era insignificante rispetto a quella dei paesi capitalistici avanzati.

Il 95% delle imprese industriali avevano da 1 a 10 operai e soltanto 362 imprese contavano oltre 500 operai. L'80% delle imprese non disponevano di motori meccanici. Più della metà della popolazione attiva era legata all'agricoltura.

L'Italia meridionale, trasformata nell'ultimo trentennio del XIX sec. dalla borghesia delle province settentrionali in una specie di colonia interna, conservava un carattere agrario semifeudale. Nelle piccole città, dove i contadini senza terra si stipavano in misere casupole assieme al loro bestiame, regnavano la miseria, l'ignoranza, le malattie. La miseria spingeva migliaia di contadini alla fuga dalle campagne, ma l'industria non era in grado di dare loro un lavoro. L'emigrazione all'estero raggiunse cifre altissime: 700-800 mila persone all'anno.

In Italia mancava uno strato consistente di aristocrazia operaia, cioè mancava quella forza che negli altri paesi capitalisti era causa di divisioni fra il movimento operaio, ma la presenza di mano d'opera in eccesso, che giungeva continuamente dalle campagne, consentiva agli industriali e ai proprietari fondiari italiani di sfruttare i loro operai ancora più brutalmente di quanto si facesse in Inghilterra, in Francia e in Germania.

La politica coloniale

I monopoli italiani cercarono una via d'uscita alle loro difficoltà interne nelle guerre imperialistiche. Dall'inizio del XX sec. il capitale finanziario italiano mirava con insistenza a una espansione nel bacino del Mediterraneo. Le grandi banche italiane aprivano filiali in Marocco, in Algeria, in Egitto, nell'Asia minore, in Albania.

Automobili e tessuti di cotone italiani erano esportati nei Balcani, e capitalisti italiani prendevano parte alla costruzione del porto di Antivari (Bar) nel Montenegro ecc. L'espansione coloniale italiana incontrava però dappertutto la resistenza dell'Inghilterra, della Francia e dei suoi stessi alleati, l'Austria-Ungheria e la Germania. La rivalità con queste ultime potenze portò a una crescente irritazione in Italia. Benché il trattato della Triplice Alleanza non fosse stato denunciato, i rapporti fra l'Italia e i suoi alleati, verso il 1914, diventarono assai tesi.

Alla fine del 1910 sorse il movimento dei “nazionalisti”, un'organizzazione politica finanziata dai maggiori monopoli. I “nazionalisti” reclutavano i loro membri prevalentemente fra gli intellettuali e gli studenti; essi erano contro la democrazia borghese e il parlamentarismo, dichiaravano la guerra “madre di tutte le virtù”, e affermavano che l'Italia era una nazione “proletaria” tra le grandi potenze. Ricordando le glorie dell'antica Roma, essi reclamavano conquiste nei Balcani, nell'Asia minore, nell'Africa settentrionale.

Il primo passo per ottenere il domino nel bacino del Mar Mediterraneo doveva essere la conquista della Tripolitania e della Cirenaica, possedimenti africani dell'impero ottomano. Nella primavera del 1911, mentre preparava la guerra con la Turchia, Giolitti tentò di accattivarsi le simpatie degli operai presentando in Parlamento una nuova legge, che estendeva notevolmente il diritto di voto, ma non gli riuscì di guadagnare le simpatie del popolo italiano alla sua politica di conquista. Solo una parte dei leader riformisti, con a capo Bissolati, appoggiò apertamente la politica coloniale giolittiana. Gli operai socialisti chiedevano invece la proclamazione di uno sciopero generale contro la guerra

Il giorno dell'inizio della guerra italo-turca, 29 settembre 1911, fu proclamato lo sciopero generale, ma la direzione riformista del partito socialista sottolineò con insistenza ch'esso non sarebbe durato più di 24 ore e che non doveva uscire dai limiti della legalità per non indebolire l'Italia di fronte al nemico.

Le operazioni militari si conclusero con la vittoria dell'Italia; la Tripolitania e la Cirenaica diventarono la colonia italiana della Libia. Ma la guerra, durata un anno, aveva minato l'economia del paese e rivelato la debolezza dell'imperialismo italiano.

Nel 1913 alle conseguenze della guerra coloniale si aggiunsero i segni di una nova crisi economica che si approssimava. Ogni giorno venivano chiusi stabilimenti, e molte banche che avevano investito capitali nell'industria erano alla vigilia del fallimento. La disoccupazione assunse proporzioni rilevanti. Aumentarono le imposte e crebbe il costo della vita: il prezzo del pane salì, rispetto all'inizio del secolo, del 20-30%, e alcuni prodotti rincararono di una volta e mezzo o due.

S'intensificarono gli scioperi; gli operai protestavano contro la disoccupazione e il carovita: a Roma manifestazioni di operai chiesero le dimissioni di Giolitti. Nel centro dell'industria metalmeccanica, Torino, si svolgevano scioperi organizzati dei metallurgici.

Il rafforzamento dell'influenza dell'ala sinistra nel movimento operaio

Nel 1912 al congresso del partito socialista il gruppo capeggiato da Bissolati, che si era dichiarato a favore dell'appoggio alla guerra e della continuazione della collaborazione con la borghesia, fu espulso dal partito, e il gruppo di Turati, che occupava una posizione intermedia, allontanato dalla direzione. Segretario del partito divenne il leader della sinistra, Costantino Lazzari.

L'espulsione degli opportunisti dichiarati dal partito socialista testimoniava del fatto che i riformisti italiani non avevano salde basi fra gli operai e anche del fatto che lo spirito rivoluzionario delle masse cresceva in seguito alla guerra e allo sviluppo del proletariato industriale.

Tuttavia anche la sinistra (i massimalisti), che a quel tempo aveva l'appoggio della maggioranza degli operai italiani aderenti al movimento socialista, assumeva posizioni ambigue. I suoi capi erano contrari alla guerra imperialistica e alla collaborazione con la borghesia, ma non di rado si mostravano propensi alle suggestioni anarco-sindacaliste e non erano capaci di mobilitare gli operai alla lotta per la rivoluzione proletaria.

Nel 1913 gli industriali intensificarono l'offensiva contro la classe operaia, violando i contratti e peggiorando fortemente le condizioni di lavoro. Gli scioperi difensivi del proletariato italiano erano tenaci e non di rado si protraevano per mesi. Scioperavano i tagliapietre, gli edili, i tessili, i metallurgici. A Napoli folle di popolo, indignate per l'aumento delle imposte, assaltarono gli edifici della polizia e della prefettura. A Roma, durante una manifestazione di protesta contro la limitazione delle libertà politiche, i dimostranti tentarono di entrare a viva forza in Parlamento. Lo sciopero generale degli operai di Milano portò a numerosi scontri con le truppe e provocò scioperi di protesta a Roma, Parma, Ancona, La Spezia, Pisa. Nel sud scoppiarono nuove agitazioni contadine.

La tattica del compromesso usata da Giolitti non poteva frenare le masse. Nell'autunno del 1913 Giolitti riuscì, con l'appoggio dei cattolici (“patto Gentiloni”) a ottenere la maggioranza alla Camera, eletta per la prima volta con un suffragio quasi universale (maschile), ma l'insuccesso del suo tentativo di dividere e corrompere il proletariato italiano risultò evidente.

La grande borghesia italiana era delusa di Giolitti e propendeva sempre più per metodi di governo decisionisti, reazionari. Nella primavera del 1914 Giolitti diede le dimissioni, e il nuovo gabinetto fu formato dal conservatore Salandra. L'era del liberalismo borghese italiano era finita.

La “settimana rossa”

Il malcontento popolare accumulatosi per anni, nella primavera del 1914 sfociò in una grande azione delle masse lavoratrici. Come dieci anni prima, l'occasione fu offerta dagli eccessi della polizia: il 7 giugno la polizia sparò contro i partecipanti a una manifestazione operaia ad Ancona; il mattino seguente scesero in sciopero gli operai di tutti i centri industriali e di un gran numero di piccole città.

La sera del giorno seguente uno sciopero generale di protesta fu proclamato ufficialmente dalla direzione del partito socialista e della Confederazione del Lavoro. Sin dai primi giorni lo sciopero generale, in varie località, si trasformò spontaneamente in lotta armata: a Torino, a Napoli, a Firenze, a Parma s'innalzarono le barricate; a Milano, a Venezia, a Bergamo, a Bari e in altre città avvennero scontri sanguinosi tra il popolo e le truppe. I nazionalisti aiutarono attivamente la polizia contro il popolo.

Gli scioperanti strappavano i fili del telegrafo, occupavano le stazioni, accoglievano con sassaiole e a colpi di rivoltella le truppe mandate contro di loro. Manifestazioni si svolsero anche a Roma, dove il governo prese misure particolarmente energiche per mantenere almeno la parvenza dell'“ordine”, facendo occupare dalle truppe tutti i principali punti strategici e ordinando il pattugliamento dei sobborghi operai e delle piazze.

Gli avvenimenti assunsero un carattere particolarmente deciso in Romagna e nelle Marche, dove la maggioranza dei contadini si unì nello sciopero generale agli operai delle città. Folle di dimostranti saccheggiavano le panetterie e i granai, s'impadronivano dei negozi di armi, dei depositi di munizioni, dei locali delle prefetture e delle caserme dei carabinieri. Sorsero spontaneamente dei “comitati d'azione”, nei quasi oltre ai socialisti di sinistra entravano anche repubblicani ed anarchici.

I ferrovieri aderirono allo sciopero, occuparono le principali stazioni ferroviarie e interruppero le comunicazioni tra la Romagna e il resto dell'Italia. Isolata dal mondo esterno, la popolazione credeva alle voci secondo cui in Italia era avvenuta la rivoluzione, la monarchia era stata abbattuta e il re era fuggito. Ad Ancona e in alcune decine di altre città e borghi della Romagna e delle Marche furono create piccole repubbliche.

I “comitati d'azione”, divenuti organi del potere repubblicano, emanavano decreti per la confisca dei prodotti ai grandi proprietari fondiari e la loro distribuzione a prezzi ribassati fra la popolazione bisognosa. Le autorità locali non osavano muovere le truppe contro il popolo.

Nel frattempo i dirigenti riformisti della Confederazione del Lavoro avevano dichiarato il 9 giugno finito lo sciopero generale. La direzione del partito socialista non mosse obiezioni e sottolineò soltanto in un appello agli operai che la Confederazione del Lavoro era “essa sola” responsabile della propria decisione. In grandiosi comizi gli scioperanti (in particolare a Milano) criticarono aspramente il comportamento dei capi. Soltanto il 13-14 giugno gli operai cessarono lo sciopero.

Nella seconda metà di giugno il governo, ripresosi dal panico, cominciò una repressione in massa contro i partecipanti al movimento. Gli avvenimenti del 7-14 giugno (“settimana rossa”) dimostrarono quanto forti fossero le tendenze rivoluzionarie nel proletariato italiano, ma quanto debole fosse la sua organizzazione politica.


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Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Storia - Moderna
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Aggiornamento: 05/10/2014