LA RIVOLUZIONE AMERICANA


L'ESCLUSIVISMO AMERICANO

Abramo Lincoln (National Library, Washington)

Per cercare di giustificare le esigenze di predominio militare, economico, politico e culturale, i circoli di potere degli Stati Uniti sempre più spesso fanno ricorso alle tradizioni ideologiche e politiche del loro paese.

Un ruolo molto importante viene attribuito al concetto di american esclusiveness, cioè all'idea di un modello americano di sviluppo assolutamente unico, che dovrebbe essere adottato, inevitabilmente, da tutte le nazioni del mondo.

Analizzando il concetto di "esclusivismo americano" è necessario tracciare una linea di demarcazione tra l'interpretazione datane dai primi ideologi borghesi (anzitutto T. Jefferson, difensore degli interessi della piccola borghesia e dei farrmers) e quella conservatrice, di destra, degli odierni apologeti della borghesia monopolistica americana, volta a fomentare nel paese la psicosi sciovinista e a giustificare la politica egemonica e reazionaria dell'imperialisino statunitense all'estero.

Questa precisazione è importante perché i teorici conservatori, vecchi e nuovi, si sono sempre sforzati di dimostrare che, nel corso di tutta la storia degli States, l'ideologia reazionaria da loro professata è in perfetta continuità con le idee delle rivoluzioni democratico-borghesi americane, sicché tali conservatori sarebbero i legittimi eredi delle migliori tradizioni ideologiche e politiche dei Padri fondatori.

L'idea della unicità o del monolitismo della tradizione ideologica americana, che andrebbe direttamente da Jefferson a Reagan e Bush passando per Lincoln, serve appunto all'attuale trend politico neoglobalista.

L'esclusivismo americano fu, in origine, uno stato d'animo piuttosto vago di vasti strati piccolo-borghesi recatisi nel new world sperando di liberarsi definitivamente dalle catene del feudalesimo europeo. Essi riflettevano l'aspirazione progressista (relativamente all'epoca) della emergente borghesia americana. L'esclusivismo era allora concepito come una missione affidata all'America, perché portasse in tutto il mondo un ordine nuovo, aprendo le vie inesplorate dello sviluppo sociale.

La seconda rivoluzione americana - la guerra civile del 1861-65 e la ricostruzione del sud - diede al concetto dell'esclusività un nuovo impulso. L'abolizione della schiavitù, la liquidazione dei latifondi schiavistici e l'approvazione dell'Homestead Act (distribuzione delle terre dell'ovest sulla base di principi democratici) significarono la vittoria dello sviluppo capitalistico in agricoltura.

Malgrado la sopravvivenza di alcune vecchie strutture, conseguenza dell'alleanza di classe fra borghesia e latifondisti, la guerra civile ebbe, secondo l'espressione di Lenin, "un'immensa portata progressista e rivoluzionaria, un'importanza storica. Essa diede il via allo sviluppo dinamico della produzione industriale e agricola nelle condizioni più favorevoli di tutte quelle che il popolo può sperare sotto il capitalismo".

A quel tempo il livello di mobilità sociale negli USA era più alto che in qualsiasi altro paese. Le vaste estensioni di terre libere, le incalcolabili ricchezze naturali e le favorevoli condizioni climatiche diedero ogni possibilità, da un lato, per qualunque forma d'impresa e per l'accumulazione primitiva del capitale, e, dall'altro, rendevano alquanto mutevole la linea di demarcazione fra le classi e gli strati sociali. Il passaggio da un gruppo sociale all'altro era facilitato dalle possibilità di migrazione verso l'ovest "selvaggio" (wild west), mentre l'alternanza degli "alti" e dei "bassi" indicava che gli stessi gruppi sociali non si erano ancora definitivamente stabilizzati.

E' evidente che nell'America premonopolistica l'abbondanza di terre libere era un fattore di stabilità che stimolava gli strati nullatenenti verso la sfera del business. Tale situazione portò il capitalismo americano ad elaborare una strategia di lungo termine, in grado di valorizzare le ricerche di fondi supplementari, esterne, necessarie per neutralizzare i problemi della politica interna.

Nonostante le terre vacanti, infatti, l'America per i più restava soltanto un sogno: un sogno alimentato dalla potente macchina propagandistica dei magnati industriali, che coltivavano tenacemente il culto delle illusioni.

Quando il proletariato cominciò a dubitare del valore di questo sogno, quando si rese conto che la dura realtà dei fatti aveva trasformato il sogno nel peggiore degli incubi, ecco che la politica imperialistica di sfruttamento e di rapina all'estero, rimuovendo le minacce di sommosse e ribellioni all'interno, venne in soccorso alle esigenze del capitale. Tale strategia, oggi, viene considerata come tradizionale.

Le suddette caratteristiche dello sviluppo socioeconomico degli USA sono essenzialmente all'origine della fede mistica secondo cui ogni americano che cerca di far fortuna ed è pronto a sopportare delle temporanee privazioni, finirà sempre e ovunque per migliorare la sua posizione sociale.

L'american dream - che è un insieme di speranze e di aspettative sociali legate a un'immagine dell'America come "isola di felicità" - rivestì allora un senso specificamente borghese, divenendo sinonimo di "desiderio di rapido arricchimento".

Una volta modificatesi le condizioni socioeconomiche che avevano generato il sogno (al momento del passaggio verso l'imperialismo), la sua natura mitica venne ben presto alla luce. Durante il periodo di edificazione del primo Stato socialista - mentre all'interno degli USA s'intensificavano le ricerche d'un'alternativa borghese all'espansione dell'ideologia socialista - l'esclusivismo americano fu caratterizzato da una valenza fortemente antisocialista, una valenza proporzionata alla tenacia con cui si era coltivato il culto delle illusioni.

Proprio allora si formulò per la prima volta la dottrina dell'americanismo come contrappeso ideologico alla teoria socialista.

Nelle nuove condizioni storiche la logica d'una tale opposizione portava a interpretare l'esclusivismo americano come una specie di garanzia o di immunità contro le prospettive del socialismo. La conclusione che se ne traeva era la seguente: optando per un modello americano di sviluppo, ogni società poteva premunirsi contro il pericolo della sua trasformazione socialista.

Questo tipo di ragionamento si manifestò anche nell'approccio verso i problemi sociali, generando lo schema caro agli americani, secondo cui il loro paese era una specie di social laboratory, un generatore d'idee destinate ad incarnarsi nella vita di tutti i paesi dei mondo.

Mentre nel passato i dibattiti sull'esclusività americana si soffermavano essenzialmente sugli aspetti della politica interna, dopo la seconda guerra mondiale il problema dell'adeguamento dei valori dell'americanismo alle necessità del mondo intero venne posto nel contesto della dottrina della Pax americana, allora molto popolare.

Indipendentemente dal modo come questo o quel rappresentante dell'establishment scientifico-accademico s'immaginava tale adeguamento - se coi colori liberali, cioè come un processo continuo e automatico di crescita dell'influenza economico-politica degli USA sugli altri paesi, o se invece in uno spirito conservatore, cioè come un'edificazione attiva, brutale del credo americano all'estero - la possibilità stessa d'una tale americanizzazione globale era non soltanto considerata, a quel tempo, come molto desiderabile, ma la si faceva anche passare per un obiettivo vitale della politica americana.

La concezione globalista dell'esclusivismo americano non poteva ignorare la potenza del socialismo reale, mutatosi in un sistema mondiale e che cominciava ad essere un ostacolo insormontabile alla realizzazione delle idee egemoniche mondiali americane.

Tuttavia l'euforico ottimismo che caratterizzò lo stato d'animo degli ambienti dirigenziali del capitalismo statunitense, durante gli anni della sua provvisoria stabilizzazione, lasciò la sua impronta sulle valutazioni che si fecero circa le prospettive del socialismo mondiale.

Mettendo quest'ultimo in una falsa luce, i teorici dell'establishment proposero tutta una serie di possibili modelli di modificazione del socialismo, come la deideologization di D. Bell, la convergence di W. Rostow e la liberalization di Z. Brzezinski. Tutti prevedevano l'erosione del socialismo, il suo imminente declino cui avrebbe fatto seguito l'implantation del modello americano dell'impresa privata.

La dottrina del globalismo fu il frutto di una mera applicazione delle concrete condizioni di sviluppo socio-economiche degli Stati Uniti (dei primi due decenni postbellici) alla prospettiva del loro futuro.

In quel periodo l'imperialismo USA utilizzò al massimo la rivoluzione tecnico-scientifica e le forme tradizionali di pressione economica per sfruttare i paesi in via di sviluppo. Questi due fattori stimolarono la crescita economica senza che si dovesse ricorrere alla redistribuzione della ricchezza nazionale.

Il livello di vita delle masse nel paese era notevolmente cresciuto. Solo verso la fine degli anni Sessanta si comincerà a mettere in relazione questo elevato benessere sociale con lo sfruttamento imperialistico del Terzo mondo.

Le posizioni del capitalismo americano sulla scena internazionale ebbero un primo forte scossone dopo la sporca guerra nel Vietnam, dopo lo scandalo del Watergate e la crisi economica del 1973. Le pretese globalistiche vennero momentaneamente accantonate.

La questione della sopravvivenza del sistema politico-economico americano in un mondo considerato "ostile" s'impose con viva forza. L'opposizione crescente alla politica imperiale americana e l'esacerbazione dei processi interni di crisi obbligarono gli Stati Uniti a sbarazzarsi dei paraocchi dell'ideologia globalista e a guardare con più realismo l'avvenire del loro proprio modello di vita.


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Enrico Galavotti - Homolaicus - Storia moderna
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Aggiornamento: 23/06/2014