LA RIVOLUZIONE FRANCESE
La nascita della democrazia politica borghese


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CHIESA E RIVOLUZIONE FRANCESE. LE PREMESSE

Nato per penare. Allegoria dei contadini francesi alla fine del Settecento
Nato per penare. Allegoria dei contadini francesi alla fine del Settecento

La chiesa cattolico-nazionale, cioè «gallicana», della Francia si basava giuridicamente, prima dell'Ottantanove, sul Concordato del 1516 stipulato a Bologna dal re Francesco I e dal papa Leone X, col quale il primo aveva rivendicato il diritto di nominare i candidati alle più alte cariche ecclesiastiche, e il secondo l'investitura canonica degli stessi. In cambio di questa sottomissione del clero, il re si assumeva l'onere di versare alla curia romana le cosiddette «annate», cioè un anno del reddito teorico di ogni beneficio (diocesi, abbazia, ecc.) che cambiava titolare. Grazie a «questo codice di brigantaggio – così chiamato da C. Fauchet, l'autore De la religion nationale (1789) -, il capo del sacerdozio e quello dello Stato si concedevano ciò che, secondo l'opinione universale, non apparteneva né all'uno né all'altro: i diritti dei popoli [alla scelta dei pastori] e il denaro della chiesa».

Ma, nonostante il cattolicesimo fosse una religione di stato, verso la metà del XVI sec. si diffuse nel sud della Francia il calvinismo, e subito furono eccidi e massacri fra le due confessioni. L'Editto di Nantes (1598) riconobbe agli ugonotti la libertà di culto, ma il cattolicesimo, facendo leva sul prestigio della propria «maggioranza», continuò a perseguitarli duramente, almeno sino al 1787, allorché un decreto regio concesse ai riformati lo stato civile dei loro matrimoni (senza più l'intermediazione del prete cattolico), la possibilità di battezzare i figli (prima era d'obbligo il rito cattolico), di praticare il culto in privato e di accedere ad alcune cariche pubbliche di minor rilievo. Gli ultimi due protestanti ad essere torturati e impiccati, rispettivamente nel 1761 e 1766, furono il mercante J. Calas e il cavaliere La Barre. Il loro numero complessivo, alla vigilia della rivoluzione, si aggirava sul mezzo milione.

Drammatica era anche la situazione dei giansenisti, la cui dottrina filocalvinista era già stata condannata nel 1713 dalla bolla Unigenitus. Usciti malconci dallo scontro con i gesuiti (l'abbazia di Port-Royal venne distrutta nel 1710 da Luigi XIV), nel 1749 i giansenisti dovettero subire anche l'umiliazione dei billets de confession: una vera e propria sottomissione scritta alla suddetta bolla che l'arcivescovo di Parigi pretendeva da parte di tutti quei moribondi sospettati di giansenismo, senza la quale non avrebbero potuto ricevere l'assoluzione. Condannata dal parlamento parigino, la richiesta non mancò di suscitare seri tumulti presso il palazzo arcivescovile. Tuttavia il giansenismo poté prendersi la rivincita sulla Compagnia di Gesù (già disciolta però nel 1773), fondendosi, negli anni della rivoluzione, col «richerismo», un movimento di soldati semplici e caporali del clero parrocchiale che rivendicava una gestione democratica e comunitaria della chiesa francese. E. Richer (1560-1631), sindaco della facoltà teologica di Parigi, fu appunto il primo a sostenere la pari dignità dei poteri di tutto il clero.

Molto discriminata era anche la minoranza ebraica, concentrata soprattutto in Alsazia. I 40.000 ebrei pagavano imposte speciali d'ogni tipo (ad es. il prezzo della loro protezione al re, al vescovo, al feudatario locale, oppure per entrare in città loro interdette). Erano esclusi senza eccezione dai pubblici uffici. Talvolta il loro numero era limitato per legge (ad es. non più di 450 famiglie a Metz). Non potevano contrarre matrimonio coi cattolici e i diritti di cittadinanza venivano loro concessi solo dove potevano avanzare una richiesta di naturalizzazione in base al luogo di nascita, il che però non era facile. Per quanto riguarda il culto fruivano di maggiori libertà rispetto ai protestanti, essendo ideologicamente meno temuti dai cattolici.

I tempi tuttavia erano così maturi per una più generale e radicale affermazione dei diritti umani e civili, che la necessità di riconoscere un culto pubblico assolutamente libero a tutte le confessioni minoritarie, era ormai diventato per il cattolicesimo e per la monarchia borbonica il problema minore.

Le prime avvisaglie di quella che di lì a poco sarebbe apparsa come la maggior sfida europea ai privilegi feudali, si ebbero con la pubblicazione dell'Encyclopédie (1751). Le forti accuse di Diderot, d'Alembert, Voltaire, Rousseau, Helvétius, Holbach indirizzate al fanatismo, all'intolleranza, al dogmatismo, alla superstizione, al temporalismo dei papi, al clericalismo, ai principi di «autorità» e di «tradizione» nelle scienze, ecc., indussero il cattolicesimo conservatore, a partire dal 1770, a sferrare un attacco frontale contro questi philosophes, «colpevoli» di ateismo miscredenza empietà.

N. S. Bergier venne ufficialmente incaricato dall'Assemblea del clero di Francia di aprire le ostilità. Non pochi tuttavia erano gli scettici nell'imminenza di questa battaglia. Fra le stesse file dell'alto clero il lusso e la corruzione erano così vasti e profondi che la maggioranza dei vescovi si sentiva quasi completamente estranea agli ideali della chiesa cattolica. S'incontravano persino figure inclini all'ateismo e favorevoli alle idee del «libero pensiero», come l'arcivescovo di Tolosa Loménie de Brienne (che riuscì a ottenere da Luigi XVI la concessione dello stato civile ai protestanti), il mons. De Vintimille, Grimaldi di Mans, il card. di Rohan e altri ancora, il cui ateismo tuttavia non implicava di necessità - come vuole la storiografia cattolica - la «corruzione». Se dunque resistenza c'era ai nuovi orientamenti intellettuali e morali, i motivi vanno ricercati negli interessi di potere, che però fino all'Ottantanove non sembravano minacciati da forze sociali politicamente determinate: la maggioranza dei filosofi era filomonarchica, sebbene volta al riformismo giurisdizionalista.

Dal canto suo il basso clero, a causa delle forti discriminazioni di cui era oggetto, vedeva spesso di buon grado le critiche che il movimento filosofico progressista rivolgeva al sistema (basta leggersi il famoso pamphlet del vicario generale di Chartres, E. J. Sieyès, Qu'est-ce que le Tiers état?). Sull'atteggiamento di questi curati, la storiografia cattolica è sempre stata abbastanza severa: si è rimproverato loro un «eccessivo» rancore contro il lusso dell'alto clero, un desiderio d'indipendenza «troppo vivo» e addirittura uno spirito patriottico «superiore» a quello ecclesiastico (cfr le tradizionali storie della chiesa di R. Spiazzi, A. Saba e quella illustrata nelle ed. Marietti).


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Enrico Galavotti - Homolaicus - Sez. Storia - Storia moderna - Monarchie nazionali
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