METODOLOGIA DELLA RICERCA STORICA
Dalle conoscenze alle competenze, passando per le opzioni


CULTURA MENTALITA' METODO STORICO
(omaggio a Aron Gurevich)

Anna Kuliscioff

L'"histoire des mentalités" è nata presso la "nouvelle science historique" francese. La "mentalità" era un concetto che Lucien Febvre e Marc Bloch avevano preso da Lévy-Bruhl, il quale aveva supposto l'esistenza d'un pensiero "prelogico" particolare negli uomini primitivi.

Tuttavia i due medievisti francesi applicarono il concetto agli umori, ai modi di pensare, alla psicologia collettiva delle popolazioni delle cosiddette "società calde", che avevano raggiunto lo stadio della civiltà.

Il concetto di "mentalità" suppone infatti la presenza, presso un collettivo avente una medesima cultura, di certi mezzi intellettuali o psicologici coi quali percepire e comprendere tutta la realtà sociale e naturale, e questo in maniera sufficientemente ordinata.

Uno dei compiti principali dell'antropologia storica è quello di individuare, nei processi oggettivi, materiali, di una formazione sociale, quegli aspetti soggettivi che costituiscono il contenuto della coscienza di un collettivo, che porta quest'ultimo ad assumere un certo stile di vita e a fare determinati ragionamenti.

Nell'analisi storica gli aspetti psicologici e culturali rivestono molta più importanza che nel passato, anche perché un affronto meramente sociologico dei fenomeni storici finisce col dare una descrizione sommaria dei macroprocessi, sulla base di modelli euristici molto generali e quindi inevitabilmente astratti.

Il pensiero storico infatti resta spesso prigioniero dei principi espressi dalla storiografia positivista del XIX secolo e degli inizi del XX.

Nella sua Introduzione alla storia scriveva Louis Halphen: "quando i documenti sono muti, la storia tace; quando semplificano le cose, anche la storia le semplifica; quando invece le distorcono, anche la storia lo fa". Ecco perché Charles Seignobos diceva che lo storico deve accumulare quanti più fatti possibile, metterli a confronto tra loro, come fosse un rigattiere, dopodiché gli sarà relativamente facile scoprire quelle leggi storiche che, pur essendo nascoste, li tengono uniti.

Era il trionfo della "storia quantitativa". La verità è nascosta nei testi, quindi - diceva Fustel de Coulange - "solo testi, sempre testi, nient'altro che testi". Empirismo e accumulazione dei fatti: l'ermeneutica, per scoprire il loro senso implicito, veniva dopo.

Tuttavia questa metodologia non arrivò mai a scoprire un senso profondo dei fatti. L'approccio era troppo sociologico-quantitativo per poter arrivare a capire che la concezione della storia di una determinata civiltà costituiva la consapevolezza ch'essa aveva di se stessa.

I positivisti vedevano il passato come passato. Huizinga invece cominciò a chiedersi come costruire un dialogo fecondo tra passato e presente, in modo che il passato abbia da dire qualcosa di utile al presente.

E si tratta spesso, in effetti, di un dialogo tra due culture diverse, se non opposte. Non è possibile comprendere una cultura spogliandosi completamente della propria. Bisogna anzi avere consapevolezza della propria diversità.

M. M. Bachtin diceva chiaramente che nel dialogo con una cultura diversa una determinata cultura comprende meglio se stessa. Le due culture non hanno bisogno di fondersi o di annullarsi reciprocamente: ciascuna può conservare la propria integrità, uscendone dal confronto molto più arricchita. L'importante è riconoscersi nel proprio rispettivo valore. Una posizione, questa, del tutto opposta a quella di Spengler, che rappresentava le culture come monadi chiuse, reciprocamente impenetrabili.

Tuttavia, il dialogo tra passato e presente non si svolge solo nel senso che il presente pone domande al passato. Bachtin si era per così dire limitato a sostenere che il presente può porre al passato delle domande che neppure il passato era stato in grado di porsi, sicché il passato può essere interpretato meglio di quanto esso stesso potesse fare.

In realtà oggi dovremmo dire che il presente non ha alcun diritto di negare al passato la facoltà di porre delle domande al presente stesso, domande proprie, che il nostro presente non ama porsi o addirittura non sa più porsi.

Il dialogo non serve soltanto per capire meglio il passato. Il dialogo dovrebbe servire per comprendere che il passato può contenere aspetti decisivi per vivere meglio il presente, che il presente stesso non è in grado di darsi, perché strutturalmente o comunque tendenzialmente orientato a distruggerli, a censurarli o, se si preferisce, a dimenticarli, a trascurarli.

Se vogliamo, anche il futuro ci interroga, giacché noi, irresponsabilmente, pensiamo di poter lasciare il nostro presente, così com'è, alle generazioni future.

Il passato scuote la testa di fronte al nostro stile di vita: sa di non poterlo cambiare, ma il futuro ci attende al varco, perché non ci permetterà di continuare ad esistere così come siamo.

Ecco perché il dialogo tra culture diverse è sempre molto difficile e complesso, soprattutto se una nega i fondamenti dell'altra, il primo dei quali è il rispetto integrale della natura.

Quando una cultura (p.es. quella anglosassone) distrugge quasi completamente una cultura ad essa precedente (p.es. quella indiana nordamericana), la successiva comprensione della cultura semidistrutta non sarà in grado, inevitabilmente, di cogliere tutti gli aspetti sostanziali che la tenevano in piedi: qualcosa andrà perduto per sempre, qualcosa che avrebbe anche potuto far progredire enormemente la stessa cultura vittoriosa. Si pensi p.es. al terrazzamento agricolo-montano praticato dai Maya, distrutto dagli spagnoli.

Gran parte della conoscenza della natura che avevano le popolazioni americane, prima dell'arrivo degli europei, è andata irrimediabilmente perduta. In tal senso va del tutto esclusa la possibilità che una civiltà antagonistica abbia di conoscere una cultura comunitaria meglio di quanto questa non abbia potuto conoscere se stessa.

La cultura occidentale deve togliersi dalla testa la possibilità di poter interpretare adeguatamente qualunque cultura, solo perché presume di possedere una scienza e una tecnica senza precedenti storici.

La vera scienza e la vera tecnica sono soltanto quelle conformi alle esigenze riproduttive della natura. La cultura occidentale dovrebbe anzi chiedersi se la sua profonda diversità rispetto a tutte le altre culture che l'hanno preceduta non sia il sintomo di una grave malattia mortale.

Tutta la cultura medievale è rimasta estranea agli intellettuali del Rinascimento e dell'Illuminismo, mentre i romantici si sono limitati a riscoprirla in chiave appunto "romantica", cioè mistico-poetica, estetico-romanzata, senza capire assolutamente nulla del rapporto contadino/feudo, comunità di villaggio/autoconsumo, natura/agricoltura ecc.

Tutta la cultura moderna europea, nei suoi primi secoli, vedeva nella scultura gotica solo delle copie sbiadite della scultura antica; si interpretavano addirittura i calendari scolpiti nelle cattedrali come una rappresentazione delle dodici fatiche di Ercole, mentre i bassorilievi consacrati a Saint Denis apparivano alla stregua di baccanali.

La cultura medievale veniva completamente rifiutata e molti suoi monumenti furono distrutti senza tante remore, esattamente come la stessa cattolicità fece nei confronti dei monumenti pagani.

Sotto questo aspetto ogni ricostruzione totale dell'universo spirituale delle culture che sono andate distrutte incontra difficoltà insormontabili: ogni riedificazione del passato non è che una moderna reinterpretazione.

Noi possiamo soltanto sapere a posteriori quanto sia approssimativa la nostra interpretazione, e lo dimostriamo dalle continue revisioni o almeno rettifiche che operiamo. E avremo continuamente bisogno di rivedere le nostre interpretazioni, almeno finché i fondamenti della nostra cultura non saranno sostanzialmente analoghi a quelli delle culture comunitarie rimosse.

In altre parole, finché non scopriremo il legame che tiene unite tutte le culture espresse dagli uomini e dalle donne di ogni tempo e luogo, le nostre aspirazioni alla verità storica saranno destinate a rimanere frustrate. E certamente non ci sarà "Ministero della verità", di orwelliana memoria, in grado di soddisfarle.

* * *

L'antropologia storica deve sviluppare le acquisizioni di quella storiografia scientifica che ha voluto dare concretezza alla storiografia politica, aggiungendovi gli aspetti socioeconomici. Deve svilupparle in direzione dei processi culturali, psicologici, psico-sociali, insomma umani.

La fusione della storia con la sociologia e l'economia politica ha comportato una sorta di spersonalizzazione dei processi storici. Il primato concesso all'oggettività delle forze produttive ha racchiuso i rapporti produttivi entro una cornice prevalentemente economica, trascurando gli aspetti sovrastrutturali.

La tesi secondo cui l'essere materiale determina sic et simpliciter la coscienza umana ha avuto per effetto che la coscienza degli uomini è quasi totalmente scomparsa dalle indagini degli storici.

Anzitutto sarebbe meglio sostenere che è l'essere sociale a determinare la coscienza individuale, intendendo per "sociale" qualcosa che include anche l'economico ma non solo questo aspetto produttivo.

In secondo luogo sarebbe meglio precisare che il condizionamento è sempre relativo, in quanto la coscienza umana può anche prendere decisioni difformi dall'essere sociale che la condiziona, altrimenti non vi sarebbe dialettica nella storia, ma solo ripetizione obbligatoria di regole precostituite.

Michel Vovelle ha sempre rifiutato di considerare gli aspetti socioeconomici come esclusivi dello storico marxista e si dichiarava molto interessato anche ai processi relativi alla formazione e allo sviluppo della "mentalità".

In effetti è divenuto ormai un dato acquisito della storiografia più avanzata l'idea che per comprendere il comportamento umano è necessario conoscere non soltanto le condizioni materiali ad esso esterne, ma anche le forme immateriali della coscienza, della mentalità, della cultura.

In particolare è molto utile stabilire una differenza tra i prerequisiti o premesse "potenziali" del comportamento sociale degli uomini (intendendo con ciò anche gli stimoli provenienti dal mondo esterno) e le cause "fattive" degli eventi, cioè le condizioni oggettive che ad un certo punto determinano gli stili di vita, le scelte esistenziali, in quanto gli stimoli, le opportunità sono divenute fatti concreti della coscienza umana, avendo attraversato i filtri e i meccanismi psichici di trasformazione.

Tuttavia, è anche vero che spesso per motivi di forza maggiore, indipendentemente dalla propria volontà, ci si trova a vivere in una determinata maniera piuttosto che in un'altra. Spesso addirittura gli scopi che gli uomini si prefiggono possono essere falsi oppure i risultati che si ottengono, perseguendoli, possono essere opposti a quelli preventivati. Il concetto di "ironia della storia" è ben noto a tutti gli storiografi.

E' bene comunque che lo storico faccia di tutto per individuare il carattere alternativo delle vie dello sviluppo storico, al fine di ridurre al minimo la legge della necessità storica.

La necessità è la conseguenza di una realtà scelta. La scelta può essere diretta (personale) o indiretta (impersonale, cioè voluta da altri).

Le leggi della storia non possono essere feticizzate; se la realtà storica viene eccessivamente semplificata, la si falsifica. Occorre una tendenza integrazionista, olistica, delle varie discipline specialistiche: anche perché gli storici dell'economia o della letteratura o delle arti studiano in fondo gli stessi soggetti.

La storia deve essere "totale", dove la pietra angolare per la comprensione di ogni singolo aspetto è data dalla coscienza umana. Il materiale e l'immateriale devono acquisire pari dignità.

Una "scienza dell'uomo e per l'uomo" non può essere "scientifica" come una scienza esatta. Nella storia interagiscono dialetticamente libertà e necessità. I processi non possono essere rappresentati come sub specie necessitatis.

Alla pigrizia mentale del ricercatore può far comodo agire secondo la categoria della necessità (che spesso, erroneamente, viene fatta coincidere con quella fatalistica della "inevitabilità"). La necessità è un condizionamento oggettivo di cui bisogna tener conto, prima di poter prendere una decisione.

L'inevitabilità è una sorta di condanna, un peso superiore alle proprie forze, che schiaccia inesorabilmente la propria libertà di scelta. L'inevitabilità non offre alternative. La necessità invece è solo un condizionamento, anche forte, di cui bisogna tener conto, di cui sarebbe irresponsabile non prendere atto. Essa non esclude di per sé la possibilità di vie alternative allo sviluppo storico.

Anzi è un preciso compito dello storico abituare il lettore a capire che i processi non sono unilaterali, univoci, ma sempre frutto di libertà di scelta, in cui pesano determinati condizionamenti, i quali possono portare a scelte sbagliate o a conseguenze impreviste, pur in presenza di scelte giuste, semplicemente perché si era sottovalutato il peso, l'influenza di quei condizionamenti.

Questo poi senza considerare che in genere i processi storici, quando non si è in presenza di rivoluzioni traumatiche, avvengono in maniera graduale, quasi impercettibile, semplicemente per progressive determinazioni quantitative, informali, anche se ad un certo punto appare la necessità di dover prendere delle decisioni, in quanto quelle successive determinazioni quantitative, di forma, tendono a mutarsi in qualcosa di qualitativamente diverso, di sostanzialmente nuovo, inedito.

A quel punto occorre agire subito, sperando che la scelta sia la meno dolorosa possibile, anche perché più si agisce in ritardo e più la scelta sarà dolorosa. Una decisione deve comunque essere presa. Se il Dictatus papae di Gregorio VII fosse stato respinto dalla maggioranza dei vescovi o da una rimostranza popolare, non sarebbe nata con lui la teocrazia papale.

Nella storia solo alcune possibilità si realizzano, altre vengono negate, ma se quelle che si realizzano non hanno caratteristiche autenticamente umane o conformi a natura, quelle negate si ripresentano, ovviamente in forme nuove, relative al mutare dei tempi.

Tutta la critica al cattolicesimo-romano, a partire dai movimenti ereticali pauperistici, che la chiesa represse duramente, è stata ereditata, mutandone ovviamente forme e contenuti, dalla nascita del pensiero laico, agnostico e ateistico, del mondo moderno.

Occorre che gli storici si concentrino soprattutto sulle fasi di transizione da una civiltà o da una formazione sociale a un'altra, e che individuino di queste fasi gli sviluppi culturali della mentalità che, insieme alle condizioni materiali dell'economia, hanno promosso tali fasi.

Le tradizioni infatti possono essere violate sia in senso negativo che in senso positivo. La chiesa romana p.es. violò negativamente la tradizione ortodossa espressa nei primi mille anni di storia del cristianesimo. Ma il socialismo violò positivamente la tradizione millenaria che la chiesa romana espresse dopo il 1054.

Non si possono prendere le cose come un "fatto compiuto". Dietro questi fatti vi sono tensioni e contrasti che possono trascinarsi anche per secoli. Dal Filioque allo scisma del 1054 passarono tre secoli.

Poi non bisogna dimenticare che in tali fasi di transizione, alcuni personaggi storici incarnano meglio di altri l'essenza dei contrasti fondamentali. Pertanto le loro opere devono essere oggetto di un esame particolare, approfondito. Per comprendere la nascita dell'epoca moderna non basta leggersi il Capitale di Marx, occorrono anche le opere di Lutero e di Calvino.

Se Marx fosse stato supportato da un'équipe di studiosi, queste cose sarebbero venute fuori da sé, cioè non sarebbero rimaste a livello di semplici intuizioni o di affermazioni estemporanee.

Tuttavia il fatto che esistano personaggi storici in grado di rappresentare, da soli, l'essenza dei problemi cruciali di un determinato periodo non deve farci dimenticare che le idee, di per sé, non sono nulla se non entrano nella coscienza delle masse, e se queste non decidono di metterle in pratica o non accettano che vengano praticate.

In ultima istanza infatti sono le masse che fanno la storia, non tanto gli individui singoli. Le idee personali diventano una forza tanto più materiale quanto più sono condivise. E' sempre necessaria quindi una loro semplificazione, una forma didattica, pedagogica della loro trasmissione al popolo, nell'uso di tutti i mezzi disponibili.

Questo per dire che spesso nella storia hanno più peso le opinioni inespresse delle masse che non quelle espresse dagli intellettuali. Le produzioni culturali destinate a rimanere nel tempo, anche se sul piano stilistico-formale non sono le migliori, sono sempre quelle collettive, cioè quelle verificate dagli stessi fruitori, che con la loro creatività, inventiva, critica, hanno contribuito a precisarne i contenuti. I vangeli ne sono un chiaro esempio. Nonostante le loro falsificazioni, restano un documento di grande valore letterario. Ma anche oggi il software "open source" è considerato migliore di quello coi sorgenti criptati.

Questo peraltro significa anche che lo storico deve necessariamente attribuire una certa "dignità" anche alla produzione culturale che ufficialmente viene considerata "minore". P. es. la letteratura del Risorgimento italiano è quasi inesistente nei manuali scolastici di storia della letteratura.

Chiediamoci: fra mille anni uno storico riuscirà a interpretare più facilmente il nostro periodo attraverso le news dei telegiornali o attraverso i verbali dei processi civili e penali? Noi sappiamo che quanto più una notizia è ufficiale, di dominio pubblico, espressione dei poteri dominanti, tanto meno è attendibile, veridica, verificabile.

Bisogna che gli storici siano molto più sospettosi nei confronti delle dichiarazioni dirette, esplicite, degli uomini di potere, e si affidino maggiormente alle testimonianze indirette, alle opinioni espresse involontariamente, o anche ai racconti cosiddetti "controcorrente". Sarebbe p.es. ingenuo cercare di capire l'evoluzione dei dogmi della chiesa romana prendendo in esame i dogmi stessi.

Bisogna sempre fare una precisa distinzione tra istituzioni e masse popolari, tra poteri dominanti e senso comune. Ciò è ancor più necessario quando si esaminano ideologie che favoriscono il dualismo di teoria e pratica, come appunto quelle cattolico-romana e protestante, ma anche quelle stalinista e maoista. E nella affermazione e diffusione del dualismo gli intellettuali sono sicuramente, rispetto alla gente comune, maestri insuperabili.


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Aggiornamento: 01/05/2015