METODOLOGIA DELLA RICERCA STORICA
Dalle conoscenze alle competenze, passando per le opzioni


IL MESTIERE DELLO STORICO

Friedrich Engels

Uno storico non è un teorico. Uno storico vuole raccontare i fatti. Li racconta collegandoli tra loro secondo un'ideologia basata sui rapporti di forza. Ciò è inevitabile, in quanto le vicende che racconta sono tutte conflittuali.

Lo storico legge prevalentemente delle fonti scritte, che gli raccontano episodi violenti. Se non c'è violenza non c'è storia, ma cronaca, agiografia, letteratura...

Lo storico non avverte il bisogno di farsi una cultura troppo astratta, troppo teoretica. Gli basta - o crede che gli basti - quel tanto per interpretare dei fatti nudi e crudi.

In realtà lo storico dovrebbe cercare di motivare lo svolgimento dei fatti anche sulla base di idee culturali (valoriali) e non soltanto sulla base di interessi economici e politici, cioè le sue idee dovrebbero essere già interpretative di questi interessi, in modo che quando li incontra nella sua indagine non lì dà per scontati. Lo storico non dovrebbe essere come un commissario di polizia che quando s'imbatte in un omicidio comincia subito a ipotizzare le solite cause che la società in cui vive gli offre. Lo storico dovrebbe andare al di là dei fatti, dovrebbe potersi immedesimare nella cultura in cui essi trovano la loro ragion d'essere.

La storia non è solo un intersecarsi di interessi opposti, materiali o di potere politico. Vi è anche lo sviluppo delle idee, dei valori, della cultura che non necessariamente trova riscontro diretto in specifiche fonti.

Infatti non sempre gli uomini si rendono conto che l'accettazione o l'abbandono di determinate prassi o consuetudini è in qualche modo legato all'accettazione o all'abbandono di determinati valori.

I valori sono spirituali, invisibili, impercettibili alla penna di un redattore, che spesso li vive o smette di viverli in maniera inconscia, irriflessa, istintiva; meno che mai il redattore riesce a collegare in maniera consequenziale il sorgere o il venir meno di un dato fenomeno al sorgere o venir meno di un dato valore culturale o umano. A meno che non si faccia dipendere strettamente i fatti dalle idee, ma in questo caso la falsificazione è quasi assicurata. Tra fatti e idee esiste sempre un rapporto ambiguo, di reciproca interazione, in cui la libertà spesso si muove su binari opposti.

Questo significa che nell'interpretazione dei fatti uno storico non dovrebbe avere la pretesa di comportarsi come un ricercatore appartenente alle discipline scientifiche. Non è importante l'esattezza con cui si raccontano i fatti, che è sempre molto relativa, ma la capacità di argomentare ipotesi interpretative con cui si cerca di collegare gli eventi più significativi.

Leggendo i vangeli si fa fatica a credere che i redattori fossero degli storici, e tuttavia il loro modo di raccontare le cose - a prescindere dal carattere leggendario di molti episodi - ha convinto milioni di persone, modificandone, a volte anche radicalmente, lo stile di vita.

Questo per dire che quando si raccontano le cose non è tanto importante dire tutta la verità (nessuno è in grado di farlo, e chiedere a un testimone processuale di giurare sopra la Bibbia, sperando che lo faccia, è semplicemente ridicolo), quanto piuttosto è importante aiutare chi ascolta (o chi legge) a immedesimarsi nei fatti narrati.

Quanto più l'immedesimazione empatica è forte, tanto più lo scopo del testo (della fonte storica) è riuscito. Il testo non ha creato soltanto curiosità o interesse intellettuale, ma anche partecipazione emotiva, che può anche diventare corale, se il testo è espressione di un sentire comune (come p.es. avvenne col Libretto Rosso di Mao al tempo della rivoluzione culturale).

Questo a prescindere dal fatto che i contenuti trasmessi dalla fonte siano umani o disumani, veri o illusori, verosimili o falsificati. Non esiste un criterio oggettivo che possa stabilire a priori la differenza tra il vero e il falso. E' il pubblico che si deve rendere conto da solo quando una fonte merita di essere creduta o superata.

Un redattore può essere geniale nel modo di presentare le cose, ma se non incontra consensi effettivi, pratici, il suo genio non vale nulla.

INSEGNARE STORIA

La storia è davvero una materia molto difficile da insegnare, anche perché è forse l'unica disciplina a non poter essere "insegnata".

Un docente può insegnare a leggere, a scrivere, a far di conto, ma solo in misura molto limitata può insegnare a vivere. Non si insegna a vivere a qualcuno che al massimo si vede 18 ore la settimana, se non appunto in misura molto ridotta. Un docente non può insegnare a vivere quando non condivide coi propri alunni i motivi salienti della propria e della loro esistenza.

Quando un docente non è un punto di riferimento per i propri allievi anche al di fuori delle quattro mura scolastiche, c'è poca storia da costruire insieme e quindi poca storia da imparare insieme e da conservare gelosamente contro quanti vogliono sminuirla, boicottarla, demotivarla.

Un educatore dovrebbe esser tale 24 ore al giorno, per tutto l'anno, dovrebbe esserlo non solo per i giovani ma anche per le loro famiglie e per gli adulti in generale, poiché solo con una collettività del genere può diventare un costruttore di "storie", al punto che la storia che insegna a scuola dovrebbe diventargli la stessa storia ch'egli vive con loro al di fuori della scuola, al punto che quella stessa storia insegnata al mattino potrebbe essere insegnata dagli stessi genitori dei propri allievi, nella generale consapevolezza che si tratta di una storia comune, condivisa nelle sue linee essenziali, un patrimonio generale che si trasmette ovunque, a prescindere da dove ci si trova, dal mestiere che si fa...

Ma questo è soltanto un miraggio, poiché la scuola statale è nata proprio allo scopo di "espropriare" il mondo contadino della propria storia, che s'è trovato così a studiare, come unica storia possibile, quella della classe dominante. Ai contadini è stata tagliata persino la lingua, obbligandoli a credere che l'unica vera lingua era l'italiano e che la loro era soltanto un miserabile dialetto.

L'espropriazione ci ha così lacerati nel vissuto quotidiano, ci ha così alienati tra i valori e la prassi che noi docenti siamo arrivati a "insegnare" la storia proprio perché non riusciamo a "viverla" coi nostri ragazzi e coi loro genitori. Siamo intellettuali sradicati dal nostro territorio e trapiantati in luoghi che non ci appartengono e su cui non possiamo neppure mettere radici, poiché un "dipendente statale" è - come diceva un classico della Patty Pravo - "oggi qui, domani là".

Noi insegniamo una storia a noi stessi estranea e ci meravigliamo che non venga appresa come un'operazione algebrica o una regoletta grammaticale. Noi docenti siamo l'espressione ufficiale di uno Stato che viene visto come una trave nell'occhio della cittadinanza locale, e in forza dei suoi poteri noi insegniamo una storia che non coincide affatto con la storia della popolazione locale, una storia che detta popolazione percepisce come imposta, come calata dall'alto.

E' una storia che considera l'oggi migliore di ieri, la scienza superiore alla natura, il valore d'uso del tutto irrilevante rispetto a quello di scambio, la società civile come meno importante dello Stato, la democrazia delegata più giusta di quella diretta, il livello locale come insignificante rispetto a quello nazionale, e così via, sballottati tra le presunzioni di Scilla e i pregiudizi di Cariddi. Noi insegniamo una storia dei luoghi comuni, che sono poi "comuni" soltanto a chi li ha voluti imporre alla collettività. Non esiste neppure nei nostri libri di storia o di geografia una lettura delle tradizioni e delle caratteristiche locali.

Gli storici ci chiedono d'insegnare la storia "in modo da favorire la strutturazione di una mappa cognitiva storica permanente e non solo l'acquisizione a breve termine"(R. Neri, Il mestiere dello storico). Ma lo sanno gli storici che se noi insegnassimo la storia in questa maniera, rischieremmo di porre ai nostri ragazzi degli interrogativi troppo pericolosi per uno Stato che può svolgere una funzione autoritaria, funzionale ai poteri forti, appunto perché la popolazione del suo territorio non ha nel proprio dna una "mappa cognitiva storica permanente"? Non lo sanno gli storici che quanti più collegamenti riesce a fare una popolazione, tanto più essa rischia di sfuggire alle maglie della rete che la governa? E' davvero così utile che i cittadini si pongano delle domande sul significato "storico" della loro esistenza? O non è forse meglio accettare un certo tasso di analfabetismo, relativo alle vicende cruciali della storia, che sicuramente è molto più facile da gestire sul piano politico?

Il sistema vuole gente che pensi, poiché nella globalizzazione è importante avere un terziario avanzato: la manovalanza a basso costo la possiamo trovare nel Terzo Mondo o tra i nostri immigrati. Ma che succede quando la gente comincia a pensare un po' troppo? Quando comincia a chiedersi i motivi per cui nella globalizzazione il nostro paese non sta dalla parte dei molti deboli ma dei pochi forti? E che succede quando i tanti che hanno poco cominciano a rivendicare un ruolo storico di primo piano? Davvero dobbiamo dire ai nostri ragazzi che esistono questi rischi e pericoli, oppure è meglio lasciare che li scoprano da soli? Davvero è importante metterli di fronte alle contraddizioni strutturali del nostro tempo, oppure è meglio lasciar loro credere che di fronte a ogni tipo di problema noi siamo sempre in grado di trovare delle soluzioni soddisfacenti per tutti?

Insomma, fino a che punto si deve spingere un'indagine "critica" dei fenomeni storici? Di fronte al rischio che uno studente arrivi a capire i meccanismi di fondo che regolano le dinamiche dello sviluppo sociale, è davvero così preoccupante che metta in correlazione Alessandro Magno e Carlo Magno sulla base del cognome?


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Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Storia - Metodologia della ricerca storica
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Aggiornamento: 01/05/2015