METODOLOGIA DELLA RICERCA STORICA
Dalle conoscenze alle competenze, passando per le opzioni


SUL METODO STORIOGRAFICO. QUESTIONI APERTE

Karl Marx

Il difetto principale della storiografia marxista è sempre stato - come noto - quello di aver voluto far dipendere dai fattori prevalentemente economici le motivazioni dei processi storici, rifiutando l'idea che i fattori cosiddetti "sovrastrutturali", e cioè la cultura, la religione, i valori etici ecc. potessero giocare un ruolo non meno significativo, anzi, per molti versi, più decisivo degli stessi fattori economici, come risulta, p.es., là dove si deve constatare che, a parità di condizioni commerciali favorevoli alla nascita del capitalismo, questo sorge molto più facilmente in un'area geografica dominata dal protestantesimo.

Tuttavia un merito bisogna riconoscerlo alla storiografia marxista, quello di aver indotto gli storici a non parlare solo di storia politica o militare, ma anche di storia economica e sociale, cui oggi è andata aggiungendosi l'affronto degli aspetti più quotidiani, più dimessi e prosaici, ma anch'essi utili per avere un quadro d'insieme di una determinata civiltà o epoca: si pensi solo all'abbigliamento, all'alimentazione, all'istruzione, alla salute pubblica, alle differenze di genere ecc.

Finalmente s'è capito che col concetto di "fonte storica" non si doveva intendere soltanto un trattato ufficiale, un documento governativo, una legge statale, ma anche cose molto più semplici, come p.es. un registro parrocchiale (utilissimo per individuare le strategie matrimoniali), le lettere, i diari personali, persino gli oggetti di uso quotidiano. Per raffigurarsi una "storia globale" tutto diventa "fonte". Come dice Riccardo Neri, Il mestiere dello storico (Rcs, Milano 2004), "oggetto della ricerca storica è sempre più spesso divenuto il fenomeno e non l'evento, e l'histoire événementielle ha perso rilievo a favore di una visione storica più attenta al quadro d'insieme".

Questo modo di procedere ha permesso di produrre a scuola un impatto emotivo forte sugli adolescenti. Quando si dice loro: "Non buttate via niente di quello che fate, perché farà piacere ai vostri figli mettere a confronto la loro storia con la vostra, e farà piacere anche a voi stessi, quando da grandi andrete a rivedere com'eravate da adolescenti", forse per un momento riescono anche a capire che non è il caso di fare le cose solo per prendere un voto, solo perché qualcuno le chiede.

Le cose infatti è importante farle per conservare una memoria di sé, da poter trasmettere ad altri. In fondo è bello abituarsi all'idea che ogni cosa che si fa può rientrare nella categoria storica del fenomeno, che - come dice sempre il Neri - non riguarda il "breve periodo", come l'evento, ma un periodo così lungo che può coprire decenni, secoli o anche millenni.

Non è forse entusiasmante l'idea di sapere che il fenomeno, all'interno del quale noi siamo protagonisti e che in virtù del quale si fa la "storia", è un fenomeno molto terreno, molto prosaico, caratterizzato da tradizioni popolari da noi assimilate spesso inconsciamente? La storia non è più, come fino a ieri, soltanto la storia delle classi sociali superiori, ma è la storia del popolo, per la cui conoscenza vanno considerate "fonti" anche la semplice filastrocca, la fiaba, il proverbio, la festa, gli usi e i costumi più antichi, la parlata dialettale...

Se ci abituiamo a considerare la gente comune come soggetto attivo di storia e non come oggetto passivo di storie altrui, ci diventerà facile prestare attenzione alle condizioni di vita delle diverse classi sociali, alle fondamentali differenze di genere, alle cosiddette "civiltà altre", cioè a tutte quelle civiltà non europee, non occidentali, da sempre condannate al silenzio.

Ma può davvero la scuola insegnare la storia se essa stessa non riesce a tenere un archivio delle proprie realizzazioni? La scuola ha forse una memoria storica del proprio sapere, a disposizione di chiunque voglia consultarla? Perché quando entra in una classe, il docente ha sempre l'impressione di dover iniziare le cose da capo, come se nel suo istituto non ci sia alcun pregresso cui poter attingere? Perché dobbiamo sempre sentirci così soli quando già decine, centinaia di colleghi hanno fatto prima di noi un cammino didattico e culturale?

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Il fatto che la storiografia marxista abbia puntato l'attenzione prevalentemente sul concetto di lotta di classe e sui rapporti di forza e d'interesse, relativamente alle vicende storiche (basta vedere ad es. quanta poca considerazione abbia ricevuto il potere del clero medievale, solo perché esso era economicamente inferiore a quello della nobiltà complessivamente intesa) - è un fatto che, alla fine, si ritorce sulla stessa comprensione storica, poiché non si tiene conto (stando sempre all'esempio di prima) che la forza di una classe non sta soltanto nella terra o negli strumenti di produzione che possiede, o nell'effettivo potere politico di cui dispone, ma anche nella forza morale, ideologica, nella possibilità di applicare la coercizione extra-economica. Ecco, da questo punto di vista il clero era senza dubbio molto più forte della nobiltà.

La storiografia marxista deve liberarsi dal pregiudizio di credere che riconoscendo alla chiesa un ruolo centrale nell'evoluzione delle formazioni sociali, si rischi di rinnegare l'idea fondamentale secondo cui è l'economia, in ultima istanza, il motore della storia. Il motore della storia in realtà è l'uomo, globalmente inteso, cioè sia come forza produttiva (economica, tecnica, scientifica, materiale ecc.), sia come rapporto sociale, e in quanto rapporto sociale l'uomo ha la possibilità d'influire sulle forze produttive determinando il loro corso.

Quando Lenin disse che la politica è una sintesi dell'economia intendeva appunto dire che in politica si ha la possibilità di realizzare dei mutamenti rivoluzionari, proprio in virtù della consapevolezza delle contraddizioni sociali, dei mutamenti che possono incidere enormemente sui processi economici. L'economia tende a prevalere sulla politica quando manca la consapevolezza di una alternativa.

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La storia delle società divise in classi è sempre stata un conflitto aspro e crudele tra due diverse concezioni di vita: quella per cui l'individuo tende a prevalere sulla comunità e quella opposta, tipica, fino a ieri, del "socialismo reale" (e che ancora oggi si ritrova in Cina). Il prevalere dell'una o dell'altra concezione tende a causare contraddizioni tali da indurre gli uomini a ribellarsi e a rovesciare le posizioni del confronto, finché non si formano nuove contraddizioni insopportabili. Questo è il circolo vizioso che ha caratterizzato la storia di questi ultimi 2000-3000 anni.

Le formazioni sociali dello schiavismo, del feudalesimo e del capitalismo sono state vissute in Europa occidentale e negli Stati Uniti in maniera individualistica; in Asia, Africa e America pre-colombiana in maniera collettivistica: la diversità stava anzitutto nel possesso dei mezzi produttivi, in secondo luogo nell'ideologia (l'indo-buddismo ad es. è una religione della rassegnazione).

Oggi si è chiarito non solo che il capitalismo altro non è che uno schiavismo evoluto, ma anche che il socialismo di stato non era che una sorta di feudalesimo laicizzato. Dal socialismo amministrato ci si è emancipati in nome della libertà dell'individuo e per il momento ancora non si scorge la possibilità di costruire un socialismo veramente democratico. La Russia di oggi assomiglia a quella che nel secolo scorso vedeva il proprio feudalesimo in crisi sostituito dal capitalismo. Molto dipenderà dalla maturità politica dei cittadini.

Viene tuttavia da chiedersi se davvero la dialettica della storia divisa in classi sia stata quella suddetta o non piuttosto quella, più semplice, di individuo e comunità. Se si guardano infatti le cose più da vicino ci si accorge che anche il socialismo amministrato non era che una forma d'individualismo. Si trattava, se vogliamo, di un individualismo più politico che economico, più ideologico che eclettico: un individualismo che si esprimeva soprattutto negli ambiti di potere, nella burocrazia, nelle amministrazioni statali e nei ranghi del partito. Era un individualismo nel senso che il destino del subordinato, intenzionato a emergere, dipendeva dalla volontà di chi gli era superiore. Tutti gli altri subordinati erano costretti al conformismo di massa, ad adeguarsi senza discutere alla volontà dello Stato e del partito. Ciò che in occidente si ripete non rispetto alla politica ma all'economia, in quanto da noi è il capitale che detta legge al potere politico.

Tutte queste forme d'individualismo più o meno accentuate, si oppongono all'esigenza umana di socializzazione dei mezzi produttivi (il che comporta la proprietà privata libera e personale di tutti, altrimenti la socializzazione è una finzione giuridica, in quanto di fatto si afferma l'espropriazione generale da parte dello Stato). Oltre a questa esigenza gli uomini avvertono anche quella di collettivizzare la vita sociale (il che non significa che tutti devono fare le stesse cose, ma che nel fare determinate cose si deve tener conto dell'interesse generale). Poi vi è l'esigenza di gestire direttamente le risorse di cui si dispone, a tutti i livelli, per rispondere adeguatamente ai bisogni locali della comunità in cui si vive.

Ogniqualvolta l'individualismo ha cercato d'imporsi, gli uomini hanno reagito in nome della priorità della comunità sull'individuo. Priorità che non va intesa nel senso della totale subordinazione degli interessi individuali a quelli collettivi, poiché la comunità di per sé non ha più "ragioni" dei singoli individui che la compongono; ma nel senso che ogni contestazione individuale sul modo di gestire gli interessi collettivi non può prescindere dalla necessità di vivere un'esperienza autenticamente comunitaria. Solo nella comunità l'uomo è libero.

Senza questa esperienza sociale, la contestazione del singolo, anche se giusta nella fattispecie (nel merito) diventa sbagliata sul piano più generale della legittimità (del metodo). Il dramma della storia non sta tanto nella dialettica di individuo e comunità, bensì nella contrapposizione frontale dei due termini, che porta all'esclusione reciproca. Se infatti si elimina la comunità, l'individuo perde la propria identità, e certo non la ritrova ricostruendo come individuo singolo una determinata comunità, cioè imponendo la comunità a tutti. La comunità ha senso solo se è vissuta liberamente da tutti coloro che la compongono.

In questo senso, la vera alternativa al collettivismo forzato del socialismo amministrato è costituita unicamente dal collettivismo libero, autogestito, democratico, cioè da quella forma di vita comunitaria che nella storia è esistita solo nella formazione sociale del comunismo primitivo, dove la gestione delle cose in proprietà o in uso personale non era avvertita in una contraddizione insanabile con gli interessi collettivi. Le contraddizioni certo non mancavano, ma per la loro soluzione l'individuo non pensava di doversi staccare dalla comunità. Non è indispensabile che tutto sia in comune, è però indispensabile che le cose non vengano gestite contro gli interessi generali della comunità, i quali, ovviamente, devono essere decisi di volta in volta da tutti gli appartenenti alla comunità.

Oggi esiste la possibilità di tornare a vivere quelle forme di vita comunitaria che per secoli si erano vissute prima della nascita dello schiavismo? Sì, ma ovviamente non nelle stesse forme. Il problema non sta nel rispettare le forme, i modelli, i prototipi, ma nel rispettare la sostanza, lo spirito che li anima, che li caratterizza. All'uomo contemporaneo non resta che il compito di ricostruire, in forme diverse, il comunismo primitivo, di cui ha forte il desiderio e cattiva la memoria, per quanto talune esperienze ancora esistenti (come ad es. quelle degli indios in Amazzonia) possono aiutarci a ricordare il nostro passato.

Il compito di ricostruire il comunismo primitivo include l'obbligo di tener conto delle condizioni sociali di vita contemporanee. Se non è possibile tornare al passato pre-schiavistico, non è neppure possibile rivivere lo spirito comunitario prescindendo dalle caratteristiche delle società individualistiche o massificate. Questa sarebbe una fuga dalla realtà. Nessuno ha il diritto di allontanarsi dal presente per vivere il futuro in maniera isolata (si pensi p.es. a certe comunità religiose o terapeutiche o naturistiche). Il futuro va costruito sulla base del presente, modificandolo in modo progressivo. La lotta per cambiare il presente dovrà dunque essere finalizzata a recuperare un'esperienza perduta, con una consapevolezza enormemente superiore di tutte le alternative fallite.

E' vero che la memoria delle cose perdute si è molto indebolita, ma è anche vero che si rafforza sempre più il desiderio di ritrovare l'unità, cioè il desiderio di superare definitivamente la divisione che aliena. Fino a ieri l'individualismo aveva trovato un freno nel ricordo del passato (e nella prassi, per quanto limitata) dell'esperienza collettiva. Oggi può trovarlo solo nel desiderio di rivivere un'esperienza analoga.

Quando gli uomini ritroveranno l'esperienza comunitaria, la coscienza del suo valore sarà così grande che un qualunque ritorno all'individualismo sarà avvertito con molta più angoscia che nel passato. Nel passato la coscienza di ciò che si stava per perdere dipendeva dal bene che s'era vissuto; in futuro chi vorrà rompere con la comunità lo farà nella consapevolezza di quello che l'attende.

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Che cosa vuol dire "obiettività storica"? Semplicemente calarsi nel tempo. Il che però può essere fatto solo se ci si mette dalla parte degli interessi del popolo e di non qualche classe sociale particolare. E questo è estremamente difficile.

Oggi ad es. si fa molta propaganda sugli orrori compiuti dai comunisti est-europei e degli stessi Paesi euroccidentali durante la Resistenza. Però si dimentica di aggiungere che in quel periodo storico la controparte dei comunisti, e cioè la borghesia legata al capitalismo, era non meno spietata. Oggi detestiamo profondamente lo stalinismo, ma può forse essere considerato peggiore del nazismo solo perché la sua ideologia era comunista? Questo significa avere dei pregiudizi.

Uno storico dovrebbe preoccuparsi di verificare due cose, nel mentre cerca di capire i fatti:

  1. quali condizionamenti spazio-temporali possono aver indotto un dato fenomeno a manifestarsi in una data maniera? Lo storico cioè dovrebbe chiedersi quali alternative potevano esserci alla soluzione che storicamente si scelse. Lo storico non deve chiedersi il "perché", in ultima istanza, si preferì una soluzione piuttosto che un'altra (una risposta, in questo senso, non la troverà mai); deve limitarsi semplicemente a registrare il "come" ciò avvenne, aggiungendo, alla fine della spiegazione storica, l'ipotesi di un'alternativa che si sarebbe potuta seguire. Naturalmente sempre sulla base dei fatti. Lo storico non deve "inventarsi" le alternative col senno del poi, ma deve saperle cogliere nel dibattito del tempo, quello pubblico, ufficiale, quello delle posizioni dialettiche che si fronteggiavano a viso aperto (che è poi quello stesso dibattito che, in seguito, la posizione risultata vincente spesso cerca di manipolare secondo i suoi interessi).
  2. Quali differenze esistevano tra ideologia e prassi, in riferimento alle posizioni politiche contrapposte, che ad un certo punto, da paritetiche che erano, sono risultate una "egemonica" o maggioritaria e l'altra di "opposizione" o minoritaria? Lo storico cioè dovrebbe sempre chiedersi:

a) la prassi era conforme all'ideologia?
b) la prassi era accettabile nonostante l'ideologia?
c) l'ideologia era accettabile nonostante la prassi?

"Accettabile" naturalmente dal punto di vista democratico, umanistico...

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Nella storia spesso si verifica questo fenomeno: le esigenze di dominio politico autoritario si manifestano non quando una determinata istituzione viene accettata dalle masse popolari (come ad es. la chiesa romana nell'alto Medioevo), ma, al contrario, quando queste masse cercano di contestarla, rendendosi indipendenti.

In altre parole, il momento più significativo di una determinata istituzione è anche quello socialmente, culturalmente e politicamente più antidemocratico, a testimonianza che il processo di affermazione politica di un'istituzione non può che avvenire in contrasto con la resistenza delle masse. In tutte le società divise in classi, quanto più tale divisione tra potere e masse si fa acuta, tanto più la politica viene usata dal potere contro gli interessi delle masse.

Se la storia fosse letta in questa maniera, si dovrebbe essere indotti a vedere le influenze maggiori delle istituzioni sul popolo quando gli strumenti politici (e militari) vengono usati di meno, poiché ciò presuppone che fra istituzioni e popolo non è ancora presente quella frattura che si crea successivamente.

Ma forse sarebbe meglio dire che in questo caso non sono le istituzioni a influenzare maggiormente le masse: sono le masse che hanno meno bisogno d'essere influenzate. Nel senso cioè che nel processo d'emancipazione delle masse (da situazioni contraddittorie precedenti) all'inizio le istituzioni giocano un ruolo secondario, in quanto le masse si sentono così forti da non voler delegare alle istituzioni la loro responsabilità politica diretta. Solo in un secondo momento, quando le masse cominciano a illudersi che per conservare le conquiste democratiche sia sufficiente affidarsi alle istituzioni, scatta il meccanismo dell'abuso di potere. Le masse, a quel punto, devono reagire il più presto possibile, altrimenti le istituzioni tendono a separarsi sempre di più dalla società, aumentando il loro potere a dismisura.

Naturalmente tra i due modi di fare politica, quello delle istituzioni e quello delle masse, lo storico deve privilegiare il modo di coloro che hanno cercato di promuovere rapporti sociali democratici.

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Ogni popolazione esistita nella storia, ogni etnia o gruppo sociale che per secoli ha vissuto determinate condizioni socio-culturali, vanno considerati come appartenenti al genere umano.

Ovviamente non nel senso che una popolazione rappresenta i "piedi" del genere umano e un'altra il "cervello" o il "cuore". Questo sarebbe fare del razzismo. Piuttosto nel senso che ogni popolazione rappresenta un momento particolare del genere umano, ed anche, di conseguenza, un aspetto particolare in cui il genere umano è stato rappresentato. Il "momento" si riferisce al tempo storico, l'"aspetto" si riferisce alla modalità con cui una popolazione ha vissuto nel proprio "spazio" quel particolare momento.

Bisogna infatti che lo storico sappia cogliere, nell'evoluzione storica del genere umano, le varie tappe del suo sviluppo (i diversi momenti storici), chiaramente distinguibili le une dalle altre. Per es. il marxismo ha individuato cinque tappe storiche: comunismo primitivo, schiavismo, feudalesimo, capitalismo, socialismo.

Queste tappe, come noto, non sono state vissute contemporaneamente da tutte le popolazioni umane: alcune addirittura hanno saltato da una all'altra tappa. Esiste nella storia una discontinuità (dovuta alla facoltà della libertà umana) da cui non si può prescindere. Se una popolazione è limitata nel suo sviluppo democratico, ciò non può esserle imputato più di quanto non possa esserlo a tutte le altre popolazioni, che non hanno saputo realizzare lo sviluppo uniforme, continuo, del genere umano verso la democrazia. I torti non stanno mai da una sola parte.

Occorre anche che lo storico sappia distinguere i vari aspetti socio-culturali che hanno caratterizzato l'organizzazione delle diverse popolazioni. Sulla base di questi aspetti è possibile verificare se la tappa evolutiva è stata vissuta in modo adeguato, conforme alle leggi dell'evoluzione storica del genere umano. Se cioè la popolazione ha saputo lottare efficacemente contro le contraddizioni della sua epoca, acquisendo una consapevolezza matura dei rapporti umani e democratici. Naturalmente qui si esclude il passaggio dal comunismo primitivo allo schiavismo.

Lo storico deve saper individuare quale popolazione s'è avvicinata di più al compito che doveva svolgere. E deve anche cercare di chiarire, per quanto può, quale fisionomia di genere umano egli crede debba realizzarsi nella storia.

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In una visione materialistica della storia si potrebbe anche affermare che l'umanità oggi paga le conseguenze delle proprie azioni delittuose nei confronti dei grandi personaggi della storia, come Cristo, Gandhi, M.L. King ecc. O, se vogliamo, ne paga le conseguenze quella parte di umanità che aveva maggiori interessi nell'appoggiare la loro causa e che però non ha voluto (o saputo) farlo con coerenza e decisione.

In una visione materialistica della storia si dovrebbe quindi dire che tutti i mali che oggi affliggono i poveri, gli affamati, i senzatetto ecc. sono in un certo senso "meritati", poiché costoro persero l'occasione giusta nel momento giusto.

La storia però offre sempre altre opportunità per risolvere le ingiustizie e i soprusi: di tanto in tanto ne offre alcune veramente grandi. Sprecarle con superficialità, non valorizzarle sino in fondo o volgere loro le spalle: questi sono atteggiamenti che comportano sempre tragiche conseguenze (e sempre più tragiche, col passare del tempo).

In una considerazione storica, tuttavia, non ha alcun senso affermare che il dolore e la sofferenza siano un "obbligo" per determinate categorie sociali o addirittura per intere popolazioni. Uno storico non può credere che un qualche destino ha assegnato per l'eternità o per un periodo di tempo che non si può sapere in anticipo il compito di soffrire ad alcune popolazioni o classi sociali, per il "bene" di tutta la collettività o del genere umano. Questo significa fare del cinismo.

Dolore e sofferenza sono un "obbligo" fintantoché vengono subìti passivamente, senza reagire. L'uomo diventa maturo, adulto, appunto quando si sa riscattare da questa oppressione che lo avvilisce (che lo abbruttisce). L'obbligo quindi è il frutto della forza non del diritto.

Nella storia bisogna saper ricercare il filo rosso dell'autoemancipazione umana dalla sofferenza ingiusta. E' questo filo rosso che sta ad indicare il lento processo di maturazione dell'uomo. La storia infatti non rappresenta che lo sviluppo dell'essere umano. Il migliore essere umano non è né l'oppresso né l'oppressore, ma l'oppresso che si ribella e l'oppressore che comprende il senso della giustizia.

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La storia delle civiltà umane non è altro, in realtà, che la storia delle diverse forme di "inciviltà" e della lotta contro queste forme. Paradossalmente della prima vera forma di civiltà -il comunismo primitivo- non sappiamo quasi nulla, poiché l'assenza di contraddizioni antagonistiche non stimolava la produzione di testimonianze scritte.

La storia del genere umano è in sostanza la storia di una resistenza più o meno forte al tipo di esistenza fondata sull'oppressione di pochi con molto potere su molti che credono di averne poco.

E' una storia in cui l'incapacità di superare la forma dell'antagonismo individualistico ha fatto sì che questo si manifestasse in forme sempre più perfette ed esasperate. Una "parziale" resistenza all'individualismo permette solo che quest'ultimo si rafforzi ulteriormente, assumendo nuove forme.

Ciò di cui si è sicuri è che all'individualismo gli uomini non riescono a rassegnarsi, in quanto la loro natura è votata alla socializzazione. Ma non si può essere sicuri che in questa lotta trionferà il collettivismo libero, poiché l'esito della vittoria dipende dalla volontà degli uomini, dal livello di consapevolezza che hanno, dalla libertà di cui vogliono disporre.

Di certo l'esito finale della lotta, se sarà vincente, costituirà un ritorno alla condizione umana pre-individualistica, con l'aggiunta della consapevolezza acquisita nel corso della fase individualistica.

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Una qualunque storia degli avvenimenti di una determinata popolazione deve suddividersi in tre campi: sociale, culturale e politico.

Il campo sociale include tutto quanto riguarda la vita collettiva che non riflette su se stessa, ma che agisce spontaneamente, in maniera naturale, seguendo le tradizioni e i valori dominanti.

Il campo culturale invece è la riflessione che si fa sul sociale (specie quando questo tende a modificarsi, a evolversi): una riflessione che per molti secoli è stata di tipo religioso.

Il campo politico è quello delle decisioni collettive. La politica non necessariamente deve riflettere dei conflitti di classe, degli interessi antagonistici che devono trovare una qualche mediazione. La politica è il luogo delle discussioni che devono approdare a una decisione comune, vincolante per tutti, che generalmente viene presa dopo che sui mutamenti sociali gli intellettuali hanno riflettuto criticamente.

Questi tre campi non possono mai essere tenuti disgiunti, poiché l'uno presuppone l'altro ed essi si influenzano reciprocamente.

Quando si fa solo sociale si finisce col vivere la vita in maniera istintiva, ripetitiva, vicina al mondo degli animali. Qui la storia è cieca.

Quando si fa troppa cultura si rischia di cadere nell'astrazione, di confondere i desideri con la realtà. Qui la storia diventa utopistica.

Quando si vive solo di politica si ragiona in termini esclusivamente di potere, di schieramento, e si finisce col realizzare vergognosi compromessi. Qui la storia si autodistrugge.

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Non si può impostare metodologicamente una ricerca storica mostrando che qualunque forma di conduzione borghese dell'economia va considerata come un "progresso" rispetto a qualunque forma di conduzione feudale dell'economia.

Gli storici marxisti, esattamente come quelli borghesi, vedono nella transizione dal feudalesimo al capitalismo solo una forma di "progresso", di sviluppo delle forze produttive, reso necessario dal fatto stesso che la produzione economica aumentò quantitativamente e poi anche qualitativamente, perché ottenuta con nuovi materiali e nuove tecnologie.

Del feudalesimo si vedono solo gli aspetti negativi e la differenza tra storici marxisti e storici borghesi sta unicamente nel fatto che questi ultimi considerano il capitalismo un sistema economico eterno.

Ragionando in termini così schematici, si finisce con l'attribuire un'importanza eccessiva a fenomeni che invece nella realtà risultavano marginali rispetto a quelli dominanti (p.es. la rendita monetaria o il commercio estero).

I progressi non bisogna vederli solo nei tentativi dei contadini più ricchi di emanciparsi dalle catene feudali, ma anche in quei tentativi dei servi della gleba che si sarebbero accontentati di una riforma agraria in cui potesse avere più respiro l'autoconsumo.

Questa mancanza di attenzione verso un "progresso" del genere va considerata piuttosto grave.

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  1. Come mai la Turchia, dopo mille anni di cristianesimo, è diventata completamente islamica? E' forse il caso di dire che i bizantini, piuttosto che sottomettersi al giogo latino, hanno preferito quello musulmano? Se è così, bisogna cercarne le ragioni (ad es. nel maggiore integralismo del cattolicesimo-romano, oppure nel maggior bisogno che quest'ultimo ha di espropriare risorse altrui. Eppure se guardiamo bene la fascia mediterranea che comprende Turchia Italia Spagna vi sono affinità sorprendenti quanto a gestione del potere politico ed economico).
  2. L'isolamento dell'Inghilterra è stato un bene allorquando il continente europeo decise di abbandonare le tradizioni ortodosse (con i carolingi): eppure proprio dall'Inghilterra partì la rivoluzione industriale. Come spiegare questa antinomia? Si può forse considerare la rivoluzione industriale come una risposta "pratica" alle pretese egemoniche che la chiesa romana voleva realizzare sul terreno politico e ideologico? Quello che più lascia stupefatti è stato l'assenso quasi totale ottenuto da Enrico VIII al momento di staccarsi da Roma. L'odio che gli inglesi provavano nei confronti della chiesa cattolica da che cosa era motivato? E come mai non è stato così forte da determinare quel rivolgimento scatenato in Germania dalla Riforma?
  3. Si poteva impedire che l'Italia, pur restando divisa in città-stato, venisse occupata dalla Spagna aragonese? E' possibile cioè accettare l'idea che l'unica soluzione alla divisione degli Stati italiani fosse l'unificazione nazionale centralizzata? Certamente, l'unità nazionale, fatta in nome della borghesia, sarebbe stata migliore del frazionamento, ma la separazione degli Stati, di per sé, era forse negativa? O non era forse negativo il fatto che le città-stato fossero nelle mani delle classi possidenti e benestanti? Se le città avessero vissuto un'effettiva democrazia, sarebbe stata necessaria, contro gli aragonesi, l'unificazione nazionale centralizzata? O meglio: sarebbe stato necessario centralizzare l'unificazione nazionale?

La storia ha dimostrato che tutti i fenomeni di centralizzazione, che non tengono conto dell'autonomia locale, sono destinati a fallire. La centralizzazione non può mai essere imposta, e non deve riguardare cose che si possono risolvere solo a livello locale (come l'economia, il diritto ecc.). La centralizzazione deve riguardare aspetti transitori, o di indirizzo molto generale, e deve sempre essere il frutto di un consenso popolare.


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Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Storia - Metodologia della ricerca storica
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Aggiornamento: 01/05/2015