METODOLOGIA DELLA RICERCA STORICA
Dalle conoscenze alle competenze, passando per le opzioni


L'ECONOMICISMO DELLA STORIOGRAFIA MARXISTA

Gli storici marxisti hanno uno strano modo di fare storiografia. Vogliono vedere a tutti i costi delle motivazioni economiche con cui spiegare dei fatti politici. Prendiamo ad es. questa frase di Emilio Sereni, tratta da Il capitalismo nelle campagne (1860-1900), ed. Einaudi, Torino 1968: "l'esigenza dell'allargamento dei mercati regionali in mercato nazionale sta alla base dei moti politici del Risorgimento". Questo perché "l'azione politica, che nasce da determinate trasformazioni intervenute nella sottostruttura economica e nei rapporti tra le classi, opera da acceleratore, quasi da catalizzatore, dei processi in corso, ed imprime loro una direzione cosciente" (p. 3).

In realtà, se fosse davvero così, o meglio, se fosse soltanto così, la storia sarebbe facilissima da interpretare. Nella fattispecie, infatti (quella di cui il suo libro parla), basterebbe dire che il Risorgimento è stato un fenomeno voluto dalla borghesia, che aveva bisogno di creare un mercato nazionale per i propri traffici.

Tuttavia, anche supponendo che sia stato così, perché partire dal sud con l'impresa dei Mille? Che coscienza borghese potevano avere le popolazioni contadine e analfabete di un Mezzogiorno per molti versi rimasto ancora feudale? Se davvero la borghesia è stata la classe principale del Risorgimento, perché non ha iniziato a liberarsi degli austriaci nel nord Italia?

I fenomeni storici sono molto più complessi di quello che il marxismo possa pensare. Quando classi sociali diverse, con interessi diversi, con idee politiche diverse si trovano a lottare insieme per un obiettivo comune, si ha in mente anzitutto di realizzare quell'obiettivo e si rimanda tutto il resto a un momento successivo. E l'obiettivo comune era quello di liberarsi di un'oppressione interna, che si esprimeva a tutti i livelli, non solo economici.

È vero, a sud i contadini volevano la terra e a nord la borghesia voleva un mercato nazionale. Entrambe le classi volevano la fine di due diverse oppressioni: quella borbonica e quella austriaca, che, per molti versi, coincidevano, in quanto non mettevano mai in discussione i privilegi delle classi nobiliari. Analoga oppressione, nell'Italia centrale, si esprimeva nella forma del dominio pontificio.

È anche vero che i contadini non erano presenti solo al sud, ma in tutta la penisola. Ovunque essi volevano la terra in proprietà e a nessuno di loro poteva venire in mente di realizzare, come primo obiettivo, un mercato unico nazionale. I contadini volevano semplicemente liberarsi di un'oppressione feudale tutelata da regimi politici ultraconservatori: austriaco, borbonico e pontificio.

Questi regimi non erano oppressivi solo sul piano economico, ma anche su quello politico e culturale. Obiettivi sociali, politici e culturali si mescolavano tra loro in maniera del tutto naturale, tanto che nessuno avrebbe pensato di fare qualcosa di rivoluzionario, mettendo in gioco la propria vita, soltanto per ottenere una cosa di vitale importanza, rinunciando a un'altra non meno importante. Quando ci si vuole liberare di un'oppressione, si pensa di poter stare meglio sotto tutti i punti di vista. Questo ovviamente non toglie che per i contadini l'obiettivo principale fosse la proprietà della terra e quello della borghesia la libertà di commercio.

Gli italiani avevano già conosciuto le "libertà borghesi" delle armate napoleoniche, ma ne erano rimasti nauseati. I francesi, con la forza degli eserciti, si erano liberati, in un colpo solo, di austriaci, borbonici e pontifici, ma non avevano fatto altro che sostituire quelle dittature con la propria. Avevano soddisfatto le esigenze della borghesia, mortificando soprattutto quelle pontificie, ma, per quanto riguarda le esigenze dei contadini, non avevano fatto assolutamente nulla, cioè non avevano messo in discussione la proprietà dei nobili. Al massimo avevano permesso a quegli agricoltori già in parte benestanti, di diventarlo ancora di più, acquistando le terre requisite al clero.

In un'Italia prevalentemente contadina era impossibile per Napoleone, poste queste premesse, crearsi un consenso significativo. D'altra parte le sue intenzioni erano state chiare sin dall'inizio: esportare all'estero con la forza delle armi e la propaganda ideologica la democrazia borghese, confermando, come un valore assoluto, l'idea di proprietà privata, quella che si poteva acquisire espropriandola anzitutto al clero e, se necessario, anche alla nobiltà e alle case regnanti assolutistiche, sconfitte militarmente.

La borghesia francese pensava di poter risolvere con una politica estera guerrafondaia i problemi economici che con la politica interna non riusciva a risolvere. All'interno di questo obiettivo espansionistico l'Italia non appariva di più che una colonia da sfruttare, attraverso tasse di ogni tipo, il reclutamento militare, l'obbligo di acquistare prodotti francesi e la requisizione di opere artistiche.

Probabilmente quando ci si liberò di Napoleone, permettendo alle forze retrive, ch'egli aveva abbattuto, di ritornare a sedere sui loro troni, la borghesia e i contadini si aspettavano una maggiore condiscendenza verso i loro interessi, ma così non fu. L'avventura napoleonica doveva essere rimossa dalla memoria degli italiani, per cui la recrudescenza e le ritorsioni furono particolarmente gravose.

Era però un'illusione anche questa, proprio perché l'Italia non era una penisola circondata da paesi feudali: Inghilterra e Francia premevano per farla diventare "borghese" come loro, cioè per farla uscire dall'autoconsumo tipicamente feudale. La Francia premeva a nord, mentre l'Inghilterra a sud, nel Mediterraneo. Gli italiani non avrebbero potuto continuare a restare isolati per molto tempo.

Il fatto, tuttavia, di volersi liberare delle forze più retrive del paese, di per sé non significava che, in sostituzione di queste forze, gli italiani avrebbero dovuto subire l'oppressione economica degli inglesi e dei francesi. Quando un popolo in armi si libera dei propri oppressori interni, è difficile che possa essere attaccato militarmente da nuovi oppressori. Francia e Inghilterra sarebbero potute entrare nella nostra penisola solo con la forza delle loro merci capitalistiche. Ma a ciò si sarebbe potuto porre rimedio con una oculata politica protezionistica.

Il problema semmai è un altro: quello di cosa fare dell'avvenuta liberazione nazionale dell'oppressione interna. E qui è difficile sostenere che lo sviluppo capitalistico, favorevole alla costituzione di uno Stato centralizzato e di un mercato nazionale, era l'unica strada percorribile. Solo una storiografia molto semplicistica, in quanto basata sul determinismo economico, potrebbe sostenerlo.

Si badi: qui non è in questione la scelta tra Stato centrale e Stato federale, e neppure quella tra mercato nazionale e mercati regionali. Tali alternative sono già all'interno del "sistema sociale borghese". La vera alternativa era fra mercato e autoconsumo e fra Stato e democrazia diretta.

Quello che in Italia è nettamente mancato è stata una rappresentanza politica di esigenze non-borghesi, quelle esigenze che nel mondo contadino erano ben visibili, ma di cui gli intellettuali non si facevano carico. Se i contadini avessero saputo in anticipo che l'obiettivo della borghesia era quello di liberarsi solo formalmente del feudalesimo, lasciando sostanzialmente inalterata la proprietà privata degli aristocratici, probabilmente non avrebbero partecipato ad alcun Risorgimento. I contadini avevano bisogno della terra in proprietà e, a tale scopo, ritenevano fondamentale una riforma agraria contestuale all'eliminazione dell'oppressione feudale. E la riforma doveva comportare un esproprio dei latifondi senza pagare alcun indennizzo.

I contadini avevano già visto al tempo di Napoleone cosa voleva dire "riforma agraria": i francesi non facevano altro che mettere all'asta le terre requisite agli ordini religiosi. In questa vendita all'incanto, loro guadagnavano una percentuale e si creavano un certo consenso, mentre le classi più agiate allargavano i loro possedimenti. Insomma una truffa in piena regola, con tutti i crismi della legalità. In Russia, d'altra parte, lo zarismo fece una cosa analoga: dopo aver concesso la fine giuridica del servaggio, obbligò i contadini a pagare salatamente le terre ricevute dei nobili.

È proprio vero che le rivoluzioni avvengono quando la misura è colma e quando la popolazione non si aspetta più nulla di positivo da parte delle istituzioni e dei governi in carica. Quando la disillusione ha raggiunto il livello massimo, ecco che la popolazione comincia a contare solo sulle proprie forze, nella consapevolezza di non aver più nulla da perdere.


Web Homolaicus

Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Storia - Metodologia della ricerca storica
 - Stampa pagina
Aggiornamento: 01/05/2015