METODOLOGIA DELLA RICERCA STORICA
Dalle conoscenze alle competenze, passando per le opzioni


LA CONCEZIONE OLISTICA DELLA STORIA

Aristotele

Il fatto che la concezione materialistica della storia sia andata incontro a cocenti sconfitte sul piano dell'organizzazione della società, non sta di per sé a significare che le concezioni idealistico-religiose o borghesi-positivistiche possano pretendere una maggiore coerenza o credibilità.

Dopo la nascita del socialismo scientifico è soltanto all'interno di questa corrente di pensiero e di azione che si può cercare di operare le opportune migliorie in direzione dell'umanesimo, della democrazia e anche dell'ambientalismo.

Pensare di poter recuperare le ideologie liberal-borghesi, precedenti alla nascita del socialismo, al fine di risolvere le contraddizioni del nostro tempo, è fatica sprecata.

Ciò che dobbiamo fare è analizzare criticamente i limiti del socialismo scientifico, tentando di formulare una nuova concezione della storia, che tenga conto degli aspetti positivi e innovativi del socialismo, ma che sappia anche proporre nuove piste di ricerca, di elaborazione teorica e di partecipazione pratica.

Questa nuova concezione, considerando l'importanza cruciale degli aspetti umanistici, democratici e ambientali, non può che definirsi in maniera "olistica".

La visione della realtà oggi non può privilegiare alcun aspetto particolare: occorre un affronto "globale" delle cose, capace di "integrare" tutti i settori della vita sociale, culturale e politica, da considerarsi in maniera "paritetica".

"Storia globale" non vuol dire "sapere di tutto un po'", cioè conoscere qualcosa anche di quelle realtà lontane da noi mille miglia, nello spazio e nel tempo. Significa in realtà dover pensare i processi come se appartenessero a uno svolgimento mondiale.

Oggi i processi sono "mondiali" perché esiste una "globalizzazione" imposta dall'occidente, che ha fatto diventare "capitalistica" la parte più significativa del pianeta. Ma erano mondiali anche al tempo dell'uomo cosiddetto "primitivo", allorquando nei confronti della natura e dello stesso genere umano si sperimentavano esperienze di vita sostanzialmente analoghe, senza per questo che le varie tribù, etnie, popolazioni fossero tra loro in contatto.

Quante volte ci si è detti, negli anni '70, che l'unico vero modo per aiutare i vietnamiti contro gli americani era quello di vivere la democrazia nel nostro paese?

Bisogna dunque stabilire quali sono i processi che si sono sviluppati a livello mondiale sia in modo spontaneo che in modo obbligato, cioè indotto dalla forza degli eventi. Quali processi hanno maggiormente contribuito alla mondializzazione della storia umana, cioè alla consapevolezza di appartenere con dignità a un percorso comune? E quali processi mondiali hanno invece ostacolato questa forma di consapevolezza?

Se guardiamo lo schiavismo, non possiamo dire con sicurezza che questo fenomeno sociale, benché presente su latitudini e longitudini molto diverse tra loro, abbia riguardato l'intero pianeta. Probabilmente il servaggio, implicando meno guerre sanguinose tra le popolazioni per ottenere schiavi da sfruttare, ha potuto diffondersi più facilmente sul pianeta.

Ma è stato incomparabilmente il lavoro salariato, creato dal capitalismo con l'avallo del cristianesimo, a diffondersi in maniera planetaria, subordinando a sé le altre forme di sfruttamento del lavoro. E' impossibile fare "storia globale" senza sapere che la principale civiltà antagonistica della storia del genere umano è anche quella che impedisce alla stragrande maggioranza della popolazione di sentirsi parte attiva di un processo comune.

* * *

Ciò che differenzia l'uomo dall'animale è il fatto che l'uomo è in grado di produrre i mezzi di sussistenza necessari alla propria riproduzione in qualunque ambiente naturale. Cioè la capacità di adattamento alle condizioni dell'ambiente sono molto più ampie o più veloci di quelle di un qualunque animale.

Tuttavia, poiché può apparire eticamente rischioso attribuire all'essere umano il merito di potersi adattare facilmente a qualunque ambiente naturale, e poiché non possiamo far dipendere questa capacità "naturale" dal fatto che l'uomo è in grado di produrre artificialmente qualsivoglia tecnologia, sarebbe opportuno sostenere preliminarmente almeno due cose: la prima è che la vera differenza tra uomo e animale deve essere misurata più sul piano spirituale che materiale; la seconda è che sul piano materiale è meglio non porre troppe differenze tra uomo e animale, in quanto proprio la vicinanza al mondo animale rende l'uomo un essere più prossimo alla natura.

L'uomo era più umano quanto più sul piano materiale la sua esistenza era simile a quella degli animali. Non a caso in quel periodo egli aveva un grande rispetto per la natura e quindi per gli stessi animali (basta vedere tutta la fase animistico-totemica).

Quando oggi noi sosteniamo, osservando le aberrazioni compiute dagli uomini, ch'esse sono assai peggiori di quelle compiute dalle bestie, spesso non ci rendiamo conto che nel mondo animale non si compiono aberrazioni di alcun genere, e che se a volte possono esistere degli eccessi (p.es. i padri che divorano la prole), il più delle volte siamo noi stessi che abbiamo in qualche modo concorso a provocarli (riducendo p.es. gli spazi di manovra, di caccia o di pascolo di cui gli animali necessitano per natura).

Dunque sarebbe meglio sostenere che ciò che differenzia l'uomo dall'animale è unicamente qualcosa di immateriale, come p.es. la libertà di scelta o l'autocoscienza, il fatto cioè di dover prendere delle decisioni che possono anche andare al di là di certi comportamenti istintivi.

Se tutto ciò è vero, allora non è possibile sostenere che dal comunismo primitivo alla nascita delle prime civiltà fondate sullo schiavismo il passaggio era necessario o inevitabile, o, peggio ancora, che in tale mutamento si sono prodotte le condizioni che hanno permesso all'umanità di svilupparsi.

Non esiste affatto una linea evolutiva dall'uomo primitivo a quello civilizzato; semmai la linea è stata involutiva, e possiamo parlare di evoluzione solo nel senso che dai tempi in cui è sorto lo schiavismo ad oggi gli uomini hanno lottato contro gli antagonismi sociali, nella speranza, andata delusa, di poterli risolvere una volta per tutte.

La storia delle civiltà non è stata altro che una serie di tentativi di sostituire forme esplicite e dirette di schiavitù con altre forme più implicite e indirette. A tutt'oggi infatti è impossibile sostenere che il lavoro salariato costituisca il superamento certo dell'antica schiavitù.

Sono cambiate le forme, le apparenze, le condizioni materiali o fenomeniche, ma la sostanza è rimasta la stessa: il lavoro salariato è una forma di sfruttamento non meno indegna di quella schiavile e servile.

STORIA OLISTICA E STORIA MONDIALE

Il concetto di "storia olistica" è diventato tanto più importante quanto più è venuto imponendosi, in questi ultimi anni, quello di "storia mondiale", a seguito della pressante globalizzazione dei mercati, cui ha fatto seguito, a livello scolastico nazionale, un massiccio flusso migratorio di studenti stranieri, provenienti da ogni parte del pianeta.

Tutti noi ricordiamo le polemiche emerse dalla proposta che fece la Commissione De Mauro (2002) di voler introdurre l'insegnamento della storia mondiale, riprendendo i temi dibattuti in occasione del convegno di Oslo 2000 organizzato dal Comitato Internazionale delle Scienze storiche. Oggi, a fronte di una presenza straniera di studenti nella scuola del primo ciclo d'istruzione superiore al 10%, quelle polemiche come minimo apparirebbero pretestuose.

Eppure, nonostante questo, non si può certo dire che la globalizzazione abbia indotto gli storici e i pedagogisti nazionali a perorare con forza la causa di un affronto della storia con criteri sempre più globali, olistici e sostanzialmente per grandi categorie interpretative.

Il fatto di non riuscire a tener conto dei tempi che mutano è sintomatico di due gravi difetti, tipici del nostro paese: uno riguarda la società civile nel suo complesso ed è la miopia politica, che non ci fa vedere quanto tutti noi siamo immersi in processi di mondializzazione che rendono culture e civiltà tra loro alquanto relative; l'altro invece riguarda il mondo degli intellettuali, dei formatori in generale e della scuola in particolare, ed è la pigrizia mentale, che non ci aiuta, p.es., a riscrivere i manuali di storia usando impostazioni di metodo generale non etnocentriche, non caratterizzate da una netta prevalenza di primati nazionali, europei e occidentali in genere.

Se i nostri manuali di storia, in riferimento al tema di una storiografia mondializzata, fossero soltanto "lacunosi", a motivo di una mancanza di conoscenze approfondite e didatticamente mediate, il gap sarebbe umanamente comprensibile, ancorché sempre meno culturalmente giustificabile. Il fatto è invece che detti manuali spesso associano la lacuna al "pregiudizio", in quanto non si astengono dal giudicare negativamente quelle realtà il cui sviluppo non proviene direttamente dalla nostra civiltà tecno-scientifica e mercantile, nonché, come spesso ancora succede, dalla nostra cultura cristiana.

Non solo, ma i pregiudizi riferiti alle aree geografiche non occidentali o non europee, finiscono con l'estendersi a quelle stesse epoche dell'Europa non espressamente vocate alle attività dello scambio commerciale (il Medioevo, p.es., continua a restare "buio", illetterato e barbaro si possono tranquillamente interscambiare, il cacciatore-raccoglitore resta un "primitivo" e il nomade è sicuramente molto più indietro del sedentario).

Sicché persino di tutta la storia europea, gli storici dei manuali scolastici tendono a salvare in toto soltanto il periodo romano, perché - viene detto - incredibilmente somigliante al nostro, e quello che va dalla scoperta dell'America ad oggi, cui - se si prende in esame la sola Italia - occorre aggiungere altri 500 anni, in relazione alla nascita dei Comuni borghesi.

E' molto difficile pensare, in condizioni del genere, che possa emergere dagli storici dei manuali scolastici una lettura obiettiva, equilibrata, dei processi storici mondiali, che, in maniera significativa, partono dal momento in cui l'homo sapiens (che tale era anche prima che noi lo chiamassimo così) ha fatto la sua comparsa sulla terra.

Finché si guarda il passato con gli occhi del presente, o il diverso da noi con quelli dell'imprenditore industriale o del commerciante affarista, sarà impossibile che gli studenti stranieri delle nostre classi possano trovare soddisfazione alle loro identità (prevalentemente di origine rurale) o possano anche soltanto vagamente capire i motivi non contingenti che li hanno indotti a trasferirsi da noi.

* * *

Non lo sanno gli storici che la comparazione internazionale sprovincializza, rendendo meno angusti gli ambiti locali e nazionali, al punto che ci sente "cittadini del mondo"? O forse ritengono, ingenuamente, che i processi della globalizzazione non andranno mai a influenzare in maniera decisiva l'impostazione di fondo delle ricerche storiche condotte in occidente?

Nei prossimi decenni l'unica ricerca storica possibile sarà quella "comparativistica", cioè quella che metterà a confronto, in maniera olistica, integrata, globale, soltanto i grandi eventi della storia, le grandi trasformazioni epocali, di breve e di lungo periodo, che hanno caratterizzato, in momenti diversi e con diversa gradazione e intensità, popolazioni geograficamente molto distanti tra loro. Tutta la periodizzazione storica cui noi occidentali siamo abituati, andrà abbondantemente riveduta e corretta. Quanto più ci mondializziamo, tanto più dobbiamo rinunciare all'idea che esista un "centro" da usare come punto di riferimento per osservare la "periferia". L'esigenza di una "storia mondiale" ci sta entrando in classe ogni giorno che passa e la vediamo nei volti dei nostri ragazzi immigrati.

La storia globale va vista come un gigantesco intreccio di fattori culturali, sociali, economici, politici, in cui la stessa nozione di civiltà, che fino ad oggi è stata usata non per unire ma per dividere, dovrà essere sostituita con quella di "macroaree geografiche tangibili", come dice Olivella Sori, nella sua relazione al convegno Global History del 2004. La storia globale non è un'impossibile "storia del mondo", che nessuno studente sarebbe mai in grado di apprendere, ma un nuovo approccio ermeneutico, una "reinterpretazione di storie particolari in prospettiva diversa"(ib.), sicuramente più sintetica, più per concetti generali che non per fatti particolari, in cui l'individuazione di una specifica identità non sarà il criterio con cui impostare preliminarmente la ricerca, ma una sorta di prodotto finale, conseguente appunto alla necessità di mettere a confronto eventi e processi di ogni tipo. Dovrà insomma essere il "tu" ad aiutare l'"io" a capire se stesso.

Non è un processo semplice, non è una metodica che si può acquisire in poco tempo. Facciamo un esempio delle difficoltà in atto. La fine del conflitto est-ovest, a partire dalla svolta gorbacioviana del 1985, seguita dal crollo del muro di Berlino quattro anni dopo, avrebbe dovuto indurre gli storici a rivedere i giudizi frettolosi, riduttivi, da sempre espressi nei confronti della cultura religiosa di tipo ortodosso dei paesi slavi ed ellenici, la cui importanza dovrebbe in teoria risultare centrale nei manuali scolastici di storia medievale e che invece viene sempre circoscritta in poche paginette.

Tutto purtroppo è rimasto come prima. I bizantini restano "cesaropapisti" e il loro Stato "fiscalmente esoso", gli ortodossi restano "scismatici" e i loro teologi "cavillosi". Ancora oggi appare del tutto normale intitolare il capitolo dedicato a Carlo Magno: "Il sacro romano impero", senza fare cenno alcuno al fatto che un impero del genere esisteva già, ed era a Bisanzio, anzi a Costantinopoli, gestito dal legittimo basileus, secondo una discendenza che partiva da Costantino, sicché quello carolingio fu in realtà un abuso giuspolitico a tutti gli effetti, tanto che dovette essere legittimato da quel falso patentato, elaborato in qualche monastero benedettino, che passò alla storia col nome di Donazione di Costantino.

Una realtà millenaria come quella bizantina, che ha diffuso il cristianesimo presso tutte le popolazioni slave, e che mantenne in vita gli scambi commerciali e culturali tra paesi slavi, indo-cinesi e islamici, viene sempre liquidata in un unico capitolo dedicato a Giustiniano (482-565), come se dopo il tentativo, abortito, della renovatio imperii, un intero impero, al pari di Atlantide, fosse scomparso nel nulla, salvo ripescarlo, con poche righe, in occasione dell'iconoclastia, dello scisma del 1054 e della IV crociata.


Web Homolaicus

Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Storia - Metodologia della ricerca storica
 - Stampa pagina
Aggiornamento: 01/05/2015