STORIA TRASVERSALE


Per una storia delle arti marziali

Bisogna sapere che la guerra è presente in tutte le cose
che la giustizia è conflitto
e che tutto accade necessariamente come frutto di una lotta
Eraclito

Ci sono molte arti marziali
Sebbene usino diverse forme
per la gran parte non vanno oltre
il forte che opprime il debole
il lento che cede al veloce
Wang Tsung Yueh

La storia delle arti da combattimento ha sempre avuto due facce: quella militare e quella sportiva, retaggio delle due attività da cui queste discipline derivano. Le arti marziali nascono infatti da due attività fondamentali sin dalle prime orde umane: la caccia e la difesa del territorio. La prima ha a che fare con il rapporto dell’uomo con l’ambiente, mentre la seconda riguarda i rapporti tra gli uomini. In entrambi i casi, privo di armi naturali obiettivamente pericolose, l’uomo dovette ricorrere allo sviluppo tecnologico per la sopravvivenza. Le prime selci malamente scheggiate segnano l’inizio della storia tecnologica della specie umana, che è coincisa con la storia delle sue attività belliche. Nell’epoca che ha preceduto la nascita dell’allevamento e dell’agricoltura, cioè la massima parte della vita umana, l’episodio che ha probabilmente più contribuito allo sviluppo delle tecniche marziali è stato lo scontro tra l’homo sapiens sapiens proveniente dall’Africa e l’homo sapiens neandertalensis, che sopravviveva in Europa. Quest’ultimo, assai più massiccio e muscoloso, aveva senz’altro la meglio nello scontro ravvicinato con il suo cugino più recente. La sopravvivenza della specie umana dovette dipendere anche in quel caso dalla produzione di nuove tecniche (nuove armi, nuove tattiche) volte a supplire alle carenze fisiche del corpo umano.

Con lo svilupparsi di tribù più numerose, e con l’inizio di una divisione tecnica del lavoro, le attività belliche cominciarono a diventare un mestiere particolare. Tuttavia, fino alla nascita dello Stato, ovvero sino a poche migliaia di anni fa, la guerra rimase un’attività collettiva, condotta da tutti al pari di ogni altra attività della tribù. Nessuno veniva pagato per combattere (non esistevano soldati, ovvero “uomini assoldati”), ma quando occorreva, l’intera popolazione entrava in guerra. Tuttavia, gli scontri tra le tribù o i regolamenti di conti all’interno dei clan gentilizi costituivano un peso notevole per una popolazione numericamente esigua e con una mortalità elevata. Per questo, si svilupparono metodi per risolvere le controversie senza esiti mortali. Le arti marziali, le danze ritualizzate, vennero create a questo scopo. Si trattava di combattimenti (per lo più a mani nude) piuttosto violenti, ma comunque “controllati”, proprio come gli scontri tra gli adulti di molte altre specie di mammiferi. Attorno a questi combattimenti ritualizzati si raccoglieva tutta la tribù. Si trattò della prima forma di disciplina marziale sportiva, dove la lotta non era mortale e il divertimento assicurato. Possiamo immaginare che ogni tribù sviluppasse delle tecniche leggermente differenti, ma la forza fisica, il coraggio e l’esperienza erano i requisiti fondamentali in questo genere di agoni, non certo qualche mossa segreta.

Il salto di qualità delle arti marziali venne con la nascita dello Stato. Per la prima volta nella storia umana, si sviluppò un apparato militare permanente e separato dalla popolazione. Il diritto di proprietà individuale, che privava una quota crescente della popolazione dei mezzi di sussistenza (ai tempi, essenzialmente la terra) spingendola verso la schiavitù, doveva essere garantito con le armi. Occorreva difendere la proprietà dai nemici esterni (difesa del territorio statale) e interni (gli oppressi). Per questo la nascita dello Stato comportava l’esclusivo diritto alla violenza da parte dell’esercito, a difesa dei rapporti di proprietà dominanti[1]. Questo spiega perché in ogni epoca lo Stato ha fatto di tutto per convincere o costringere la popolazione a non armarsi, anche quando questo ha comportato la distruzione stessa dello Stato[2]. Nell’epoca classica, le tecniche di combattimento, sia per terra che per nave, non richiedevano grande perizia individuale, quanto disciplina. In particolare la formazione oplitica esigeva il massimo dell’uniformità, e per certi versi passività, del singolo fante a favore della compattezza della massa, la quale traeva la sua forza dall’urto frontale di una falange coesa. Anche reparti più specializzati, come la cavalleria pesante dei Parti, i frombolieri persiani ecc., non necessitavano di addestramento particolare nel combattimento ravvicinato.

La nascita delle classi e dello Stato, relegando la donna alla produzione e conservazione di bambini, comportò anche l’eliminazione dello sport femminile e dunque della pratica delle arti marziali da parte delle donne. Nelle società gentilizie le donne lottavano come gli uomini. Lo si vede nei racconti degli occidentali sugli abitanti della Polinesia, delle Hawai e degli indiani americani. Gli esploratori erano sorpresi dalla ferocia dei combattimenti femminili, in cui era permessa ogni cosa. Ma erano altrettanto sorpresi dal fatto che, finito il duello, le ragazze si abbracciassero e tornassero le amiche di sempre. Questo era il modello di tutti i combattimenti tribali. Essendo la società tribale priva di discriminazione sessuale, le dispute riguardavano parimenti uomini e donne. Quando il potere e la proprietà divennero esclusive dei maschi ricchi, alle donne fu concesso tutto al più di assistere ai combattimenti maschili.

Se per gli eserciti contavano molto di più la tecnologia delle armi, la perizia tattica dei comandanti e la motivazione degli uomini (e questo, peraltro, vale prima facie tuttora), l’arte del combattimento si andò affinando in ambito sportivo. Il pugilato, la lotta libera (pancrazio) erano attività popolari nella Grecia classica e fecero parte delle Olimpiadi sin dall’inizio. Dai racconti degli storici greci possiamo dedurre che con il pancrazio, dove era ammesso ogni tipo di colpo, i Greci avessero raggiunto un livello tecnico eccellente. Probabilmente, i lottatori delle discipline più estreme di oggi (dal “vale tudo” al sambo) avrebbero poco da insegnare ai lottatori della Grecia classica, in termini di tecnica, astuzia, ferocia, e probabilmente persino nelle tecniche di allenamento[3]. La trasposizione romana del pancrazio alterò lo spirito originale della disciplina, riducendola a pura brutalità. Vennero introdotti i cesti (una sorta di guanti fatti di lacci di cuoio con borchie in metallo) che procuravano ferite gravi, trasformando l’arte della lotta in uno spettacolo gladiatorio. D’altronde Roma divenne famosa proprio per questi spettacoli, in cui centinaia di schiavi, spesso prigionieri di guerra o rivoltosi, venivano fatti combattere l’uno contro l’altro o contro animali feroci.

Lo sport del combattimento venne coltivato durante il medioevo soprattutto dai cavalieri, che quando non combattevano per lavoro combattevano per diletto, nelle “giostre”. In quell’epoca, lo sviluppo di tecniche sofisticate nel combattimento corpo a corpo divenne una questione di vita o di morte, anche perché la tecnologia medievale non consentiva una superiorità schiacciante da parte della violenza legale (lo Stato) su quella illegale (le rivolte contadine).

Analogamente ai cavalieri occidentali, caste di combattenti si svilupparono in ogni regione in cui prevalsero rapporti di produzione analoghi (Giappone, Cina, sud est asiatico, ecc.), con un’ideologia simile (il codice d’onore dei cavalieri occidentali e dei samurai è praticamente lo stesso). La differenza venne dal ritmo di sviluppo impresso dal capitalismo all’occidente. La crescita delle forze produttive portò allo sviluppo di nuove tecnologie (soprattutto la polvere da sparo e poi armi da fuoco sempre più affidabili) che ridussero via via il ruolo della tecnica individuale. Proprio come gli artigiani vennero distrutti dalle fabbriche della rivoluzione industriale[4], i cavalieri vennero schiacciati dall’artiglieria. Una combinazione di eventi storici tenne l’Asia lontano da questi sviluppi tecnologici[5].

Ancora nell’Ottocento, quando in Europa la guerra si basava su moltitudini di uomini armati di fucili e cannoni, e, per mare, sulle cannoniere, in Giappone i samurai reprimevano i contadini a colpi di katana. Quando gli eserciti e le navi europee arrivarono a contatto con queste civiltà, ne trassero sempre le stesse impressioni: si trattava di uomini di coraggio e perizia immensi[6] che però nulla potevano di fronte alla superiore tecnica e tattica degli invasori. Seppure con qualche episodio eroico di resistenza, i popoli di tutto il mondo, dagli indios latinoamericani ai filippini, dagli africani alle tribù di indiani del Nordamerica, per finire con gli imperi cinese e indiano, vennero piegati alle esigenze mercantili dell’imperialismo europeo[7].

Con l’avvento della produzione in serie delle armi da fuoco, il combattimento ravvicinato cessò di avere un interesse per gli eserciti. Se si escludono alcuni corpi speciali, commandos, agenti segreti ecc., ai quali è necessario avere cognizioni di combattimento corpo a corpo, i soldati degli ultimi due secoli possono tranquillamente ignorare qualunque arte marziale.

Diversa è invece la situazione delle arti marziali sportive. Le giostre medievali non ci sono più, il Colosseo è solo un’attrazione per turisti, ma la lotta per divertimento non ha cessato di interessare l’uomo, anche durante la rivoluzione industriale. Lotta e pugilato hanno da sempre costituito i passatempi preferiti di contadini e operai di tutto il mondo. Già nel duecento, in paesi europei quali la Svizzera, i contadini e i montanari risolvevano le loro dispute con la lotta corpo a corpo.

Nel XVI secolo, nelle Hawai, la classe operaia praticava tre sport tradizionali: lotta libera, pugilato e bastone singolo. Nel XVIII secolo, mentre nel Siam la muay thai veniva utilizzata nei combattimenti tra villaggi, in Russia gli operai si trovavano dopo la funzione domenicale per incontri di lotta che ovviamente non avvenivano secondo le regole moderne ma erano piuttosto scontri dove tutto era possibile e finivano con lesioni permamenti o anche decessi. Una situazione analoga la si ritrova in tutta Europa, ma non ancora negli Stati Uniti. Infatti, nell’America del nord fino al XIX secolo questi incontri non erano diffusi era la mancanza di forza-lavoro, che garantiva salari elevati e dunque una minore necessità di raggranellare denaro picchiandosi l’un l’altro.

La storia ci fornisce dunque tre fonti e tre parti integranti del combattimento corpo a corpo. Ci sono quelle che vengono definite arti marziali, gli sport da combattimento e le tecniche di combattimento militare.

a) arti marziali

Le arti marziali che conosciamo oggi hanno un’origine varia. Alcune sono attività sportive di origine militare (il judo e il ju-jitsu, il sambo), altre derivano da tecniche elaborate nel corso di una lotta contro un’occupazione militare (il karate e il kobudo di Okinawa, le arti marziali filippine, il silat indonesiano); altre, venivano coltivate in seno a clan di origine gentilizia e sono giunte a noi per vicende storiche di varia natura (le arti marziali cinesi, il kali filippino, alcune forme di lotta del Caucaso); altre, infine, sono una derivazione dalle prime categorie (le arti marziali coreane e vietnamite).

Occorre tenere conto che sebbene molte arti marziali pretendano di essere la tecnica “originale”, tramandata immutata da generazioni sin dall’antichità, si tratta di trovate commerciali, senza basi scientifiche. Nella realtà, le culture e le conoscenze dei popoli si sono mischiate mille volte nella storia. Alcuni influssi, più recenti, sono facilmente documentabili (come quelli delle arti marziali cinesi verso il Giappone, la Corea e tutto il sud-est asiatico, o delle tecniche di scherma italiane e spagnole verso le tecniche filippine), ma le arti marziali sono sempre state eclettiche, condizionandosi a vicenda in ogni modo possibile. Le arti marziali moderne, siano esse “storiche” e “filosofiche” come il sumo, o “moderne” e “commerciali” come la kickboxing e i combattimenti ultimate fighting, sono pervenute a noi tramite una serie interminabile di passaggi. Per questo, la ricostruzione storica che le diverse discipline fanno dello sviluppo delle arti marziali ha più a che vedere con il marketing che con la storia. Si pensi alla pretesa dei maestri di kung fu che i loro stili deriverebbero dalle tecniche praticate nel tempio di Shaolin, fondato circa 1500 anni fa, a loro volta tramandate dall’insegnamento del filosofo indiano Bodidharma, creatore del buddismo Chan (o Zen, in giapponese)[8]. Allo stesso modo, i maestri di Wing Tsun, uno stile di Hong Kong, pretenderebbero che il fondatore di questa scuola, una donna di nome, appunto, “Wing Tsun”, avrebbe appreso la sua arte da un monaco di Shaolin[9]. Ma casi simili li troviamo per arti marziali coreane (come il Kuk Sool Woon), vietnamite, giapponesi ecc. Ovviamente, la storia del tempio di Shaolin culla delle arti marziali cinesi non è più realistica di quella che vuole Roma fondata da gemelli allattati da una lupa o delle dodici fatiche di Ercole. Spesso, spiegazioni di fantasia coprono più prosaiche e inconfessabili realtà[10].

Come le arti marziali moderne non hanno che un legame remoto con le discipline del passato, così lo hanno con le rispettive religioni. Qualunque pretesa di un legame organico e necessario tra un’arte marziale e una religione è frutto di elaborazioni successive[11]. La realtà è che all’interno di una determinata popolazione, le tecniche di combattimento e le convinzioni religiose si sono sviluppate parallelamente. Solo in seguito, un popolo, avendo sviluppato la sua religione e la sua arte, ha legato le due cose. Ma, come detto, ogni arte marziale ha subito influssi di ogni tipo. Pretendere di vedere un legame tra boxe tailandese e buddismo, o alcuni stili di kung fu e taoismo o, chissà, la savate e il cattolicesimo, non ha alcun valore storico. La migliore dimostrazione di questo lo ha dato il ventesimo secolo, con la diffusione mondiale di queste discipline senza nessun “trascinamento” religioso. Dopo tutto, quanti olandesi o francesi dediti alla muay thai si sono convertiti al buddismo? Quanti americani che praticano judo sono diventati scintoisti, e quanti arabi che salgono sul ring per boxare sono divenuti cristiani?

Diverso è il discorso che riguarda la connessione tra l’ideologia nazionalista e le arti marziali. Ogni regime nazionalista utilizza lo sport per esaltare la “patria” (si pensi all’uso che fece il fascismo di Primo Carnera). L’uso massimo delle arti marziali come mito patriottico venne fatto dal nazionalismo Meiji in Giappone. Dovendo reinventare un paese che stava passando dal feudalesimo al capitalismo in pochi anni, la classe dominante giapponese creò una tradizione marziale fatta di disciplina, onore, obbedienza senza nessun aggancio storico effettivo. Vennero creati ex novo o distorti episodi dell’epoca feudale per forgiare un’ideologia aggressiva che giustificasse l’espansionismo militare e la repressione sociale. Mentre spacciava per Bushido, il codice d’onore dei samurai dell’epoca Tokugawa, quello che nei fatti era una scopiazzatura di militarismo prussiano, più concretamente lo Stato addestrava e armava bande paramilitari per compiere azioni contro sindacalisti e attivisti di sinistra. Il samurai che sta dietro alle moderne arti marziali non è il guerriero indomabile dell’epoca feudale, ma un bravo manzoniano, un sicario della yakuza al servizio della grande industria. Purtroppo, pur di avere l’appoggio dello Stato, anche importanti maestri di arti marziali hanno ceduto a queste pressioni. Così, una setta di fanatici nazionalisti controllata dai servizi segreti, la società dell’oceano nero, che compì a fine ottocento diversi attentati eclatanti (uccise tra l’altro la regina coreana nel 1895) vide tra i suoi “collaboratori”, So Doshin, l’inventore dello stile Shorinji kenpo, Ueshiba Morihei, l’inventore dell’aikido, e Yamaguchi Gogen, l’esponente più famoso dello stile Goju Kai di karate.

Questo non implica affatto che la pratica delle arti marziali sia direttamente connessa ad una ideologia reazionaria. Non è vero per quello che riguarda gli aspetti della disciplina (molti altri sport hanno una disciplina almeno altrettanto dura), né per la violenza, che è anzi storicamente il simbolo del divertimento delle classi oppresse (dopo tutto, quanta violenza c’è nel golf o nella vela?). Né, infine, possiamo trovare legami storici univoci tra arti marziali e movimenti politici. Se in Giappone il legame arti marziali-imperialismo era molto stretto, in Cina, nelle Filippine, in Indonesia e altrove, la connessione tra movimenti di liberazione nazionale o organizzazioni sindacali e arti marziali fu altrettanto forte. Ad esempio, a fine Ottocento, il movimento per l’indipendenza delle Filippine, guidato da José Rizal e altri, aveva un’organizzazione, chiamata Katipunan (la fratellanza) con 200.000 aderenti che si allenavano nell’Eskrima. Lo stesso fenomeno lo vediamo in Cina, con venature escatologiche, nella rivolta dei Tai Pings (la setta della “grande purezza”), guidata nel 1850 da una sorta di santone cristiano, Hung Hsiu Chuan che tenne impegnate le truppe imperiali per quasi vent’anni. Una situazione simile si ebbe con la rivolta dei “boxers” del 1900, quando masse di praticanti di discipline marziali vennero illuse dai loro capi che la meditazione li avrebbe salvati dalle pallottole. Un altro esempio lo troviamo in Indonesia, dove nel 1947 venne istituita la associazione del Pentjat Silat a Jakarta i cui dirigenti erano impegnati nella lotta di liberazione contro l’imperialismo olandese.

b) sport da combattimento

Quello più famoso rimane il pugilato inglese, le cui regole hanno condizionato la traiettoria seguita dalle altri discipline. Ad esempio, l’introduzione delle categorie di peso, che venne mutuata dagli handicap delle corse dei cavalli per rendere più realistiche le scommesse, venne poi estesa a ogni tipo di lotta. Peraltro, il marchese di Queensberry non fu il primo ad “ammorbidire” le regole. Per esempio, nel 1877 a Bruxelles, Joseph Charlemont introdusse nuove regole nella savate. Esse proibivano di tenere l’avversario mentre lo si colpiva, i colpi di gomito, di ginocchio e di testa, i colpi all’inguine ecc. L’origine storica degli sport da combattimento è più omogenea di quella delle arti marziali. Si tratta di discipline diffuse da secoli tra le classi povere, che sono state rese “civili”. Come il fioretto venne inventato per evitare troppo spargimento di sangue nella scherma, i guantoni della boxe inglese o tailandese servirono allo scopo di ridurre la frequenza dei decessi nei combattimenti. Gli sport, siano essi occidentali, come il pugilato, la lotta libera, la savate e la scherma, o orientali, come la muay thai, sono ormai praticati a livello mondiale.

Tecnicamente parlando, non c’è alcuna distinzione tra sport da combattimento e arti marziali. Di solito, per arte marziale si intende qualcosa di più esoterico, con il classico corredo di nomi incomprensibili, mosse segrete, maestri da rispettare e cose del genere. Inoltre, di solito le arti marziali sono “orientali” e gli sport “occidentali”. Ma storicamente parlando questa distinzione non ha senso.

c) le tecniche militari

Sin dalla seconda guerra mondiale, con la nascita di reparti speciali, gli eserciti occidentali cominciarono ad introdurre tecniche di combattimento ravvicinato nei propri ranghi[12].
Iniziò l’esercito inglese, introducendo l’insegnamento del combattimento corpo a corpo ai commandos (i primi istruttori, Fairbarn e Sykes, avevano appreso le tecmiche come poliziotti di Shangai). Al giorno d’oggi in tutti i reparti speciali, civili e militari, si insegnano tecniche di combattimento senza armi o con armi da taglio, bastoni ecc., che fondono di solito tecniche di diversa provenienza. Le uniche discipline organiche sviluppate per questa via sono il sambo russo e il krav magà israeliano[13].

Le arti marziali sono un retaggio di epoche in cui la sopravvivenza dell’uomo è dipesa dallo scontro con le forze della natura e poi dagli scontri tra uomini stessi. E' difficile prevedere che cosa succederà in una società senza classi, senza Stato, senza privazioni, e dunque senza violenza. Forse, quando l’uomo non sentirà più il bisogno di esprimere una ferocia che non avrà più ragion d’essere, diventeranno danze rituali come la tarantella o la capoeira, che in origine erano arti marziali, forse diverranno parte dell’educazione fisica dei ragazzi. Lasciamo questi problemi ai nostri nipoti.


[1] Gli episodi di divieto di porto d’arma sono antichi quanto lo Stato stesso e conducono inevitabilmente allo sviluppo di tecniche di combattimento a mani nude. Essi sono collegati sia all’occupazione militare di un territorio (come nella nascita del karate e del kobudo a Okinawa occupata dai giapponesi, o dell’eskrima e del kali nelle Filippine, dove gli spagnoli nel 1764 vietarono l’uso di lame agli indigeni, portando alla nascita delle tecniche di bastone) sia all’oppressione di classe. Ad esempio, nel 1523 il governo inglese vietò di portare armi da fuoco o armi da lancio a chi aveva un reddito annuo inferiore alle cento sterline. Tale divieto rimase in vigore fino a tutta la rivoluzione industriale. Nel 1588, per evitare problemi ai funzionari che raccoglievano tasse, lo Shogun Toyotomi Hideyoshi proibì ai contadini giapponesi di possedere armi di ogni tipo. Nell’America schiavista era vietato portare armi ai neri e così via.
[2] Si pensi all’invasione dorica che distrusse la civiltà micenea. Le tribù che arrivarono in Grecia erano secoli indietro quanto a sviluppo sociale, ma avevano armi di ferro con cui armavano tutta la popolazione, nel classico modo tribale. Queste tribù sconfissero i piccoli eserciti micenei, armati di bronzo e numericamente ridotti. Un caso simile si ebbe nell’invasione della Cina da parte dei mongoli. La connessione tra guerra e classi è talmente stretta che il termine stesso è militare, derivando dalle classi di armamento dell’antica Roma, dove a ogni classe sociale corrispondeva univocamente un determinato armamento.
[3] Si dice, ad esempio, che il famoso lottatore Milone si allenasse trasportando sulle spalle un vitello, il quale, crescendo ogni giorno, forniva una resistenza via via maggiore all’atleta. Questo farebbe di Milone l’inventore delle tecniche di allenamento con intensità crescente, come l’heavy duty training di Mentzer, tuttora utilizzate nella preparazione di molti sport. Per quanto riguarda la tecnica vera e propria, il combattimento senza armi o con armi tradizionali (quali bastoni o armi da taglio) è fondamentalmente lo stesso da migliaia di anni, perchè le leggi fisiche (il parallelogramma della forza), gli aspetti biologici (la conformazione del corpo umano) non sono mutate. Colpi come i pugni, i calci, i soffocamenti, le rotture e chiavi articolari, sono state inventate e reinventate dall’uomo di ogni epoca e di ogni latitudine.
[4] Come notò Engels: “le palle degli archibugi dei borghesi attraversarono le corazze dei cavalieri”.
[5] Nel caso giapponese, la struttura di classe della società ebbe un effetto decisivo. Nel XVII secolo in Giappone si producevano armi da fuoco in quantità e qualità maggiori che in Europa. Ma la casta dei guerrieri, guidata dallo Shogun, che aveva di fatto esautorato il potere imperiale, vide correttamente nelle armi da fuoco un pericolo. Per formare un samurai ci volevano anni, ma qualunque contadino avrebbe imparato a sparare in una settimana. I fucili avrebbero condotto alla fine del potere dello Shogun nel giro di pochi anni e i fucili vennero banditi, condannando il Giappone, di lì a qualche secolo, all’umiliazione dell’apertura forzata alle merci occidentali ad opera delle navi del commodoro Perry.
[6] A tal proposito giova una considerazione sul rapporto tra quantità e qualità. Notò Napoleone, descrivendo il rapporto tra fanti francesi e mamelucchi durante la conquista dell’Egitto: “Due mamelucchi erano senz’altro superiori a tre francesi, cento mamelucchi equivalevano a cento francesi, trecento francesi potevano generalmente battere trecento mamelucchi e mille francesi sconfiggevano invariabilmente millecinquecento mamelucchi” (cit. in F. Engels, AntiDuhring, cap. 12). Quanto più avanza la tecnica, tanto meno contano le qualità individuali, il lavoro vivo, e più importante diviene la disciplina e la tecnologia, il lavoro morto.
[7] Uno degli episodi più famosi è senz’altro quello riguardante la morte di Magellano. L’esploratore giunse sulle coste dell’isola filippina di Cebu dove venne attaccato e massacrato con i suoi uomini da una tribù di guerrieri guidati dal leggendario Lapu Lapu. Ma per una vittoria del genere, vi furono cento sconfitte. Basti pensare alle gesta dei conquistadores spagnoli, ai genocidi compiuti dall’esercito statunitense contro i nativi del Nordamerica, alla guerra dell’oppio tra impero britannico e Cina e così via.
[8] L’idea che ai monaci servissero le arti marziali per difendersi è ovvia, a chi non servivano? Allo stesso tempo il buddismo Zen non aiutava l’autodisciplina più della frustra usata contro i soldati. La realtà è che se mai ci fu qualcuno che praticò arti marziali in un tempio buddista nella Cina dei tempi, si dovette trattare di ex militari, guardie di qualche feudatario locale ecc., che insegnavano ai monaci e a chiunque altro quello che avevano appreso dalla loro esperienza.
[9] Nella tradizione, verso il 1776 un monaco buddista, Ng Mui, creò lo stile wing tsun (o in altre traslitterazioni, wing chun) che significa “radiosa primavera”. Probabilmente, è più simile al vero la storia secondo cui a sviluppare questo stile sia stato un attore cantonese che recitava ruoli da donna. Ma ancor più probabilmente, lo stile venne sviluppato da operaie di etnia Hakka che lavoravano in fabbriche di seta cantonesi. Per proteggersi dalle angherie dei padroni e dai rapimenti a scopi di matrimonio, queste lavoratrici crearono un’organizzazione segreta in cui venivano praticate arti marziali. E' così possibile che la figura mitica Ng Mui non fosse un monaco ma un attivista sindacale il cui soprannome venne associato al nuovo stile di combattimento.
[10] Dove la leggenda copre più facilmente le tracce della verità è nell’etimologia dei termini. E' ben noto che la parola “karate” non significava in origine “mano vuota” (cioè combattimento senza armi), come pretendevano gli storici giapponesi sotto la dittatura militare ma “mano cinese” e che l’ideogramma sia stato cambiato per coprire la vergogna di una gloria nazionale importata da un popolo ritenuto inferiore. Allo stesso modo la nota “posizione del gatto” di alcuni stili di karate non ha nulla a che vedere con l’agilità dei felini. Nel Giappone medioevale la parola “gatto” indicava la prostituta e la posizione era associata alla postura adottata dalle ragazze per adescare i clienti. Un’origine poco nobile per una posizione marziale. Molto meglio pensare alle movenze sinuose degli animali. Tuttavia, occorre ricordare che nelle arti marziali vi è un forte retaggio totemico, che si esprime nei nomi di animali dati a stili e tecniche.
[11] Paradossalmente, uno degli sport di combattimento che può vantare a ragione la discendenza più pura è lo sport nazionale canadese, il Lacrosse, originariamente un’arte marziale utilizzata dagli indiani per risolvere dispute tribali.
[12] In realtà, c’è un precedente. Nel 1907 venne sviluppato, sulla base, del ju-jitsu e altri stili orientali, una disciplina chiamata Defendo che venne insegnata a diversi corpi speciali. Durante la seconda guerra mondiale questa disciplina venne insegnata ai soldati canadesi con il nome di Combato.
[13] Non a caso: tracciano le loro origini da episodi rivoluzionari (il Sambo dalla rivoluzione russa, il Krav Magà dalle esigenze di autodifesa degli ebrei di Praga contro i fascisti) e significano la stessa cosa (Sambo è l’abbreviazione dell’espressione russa Samozaschitya Bez Oruzhiya, combattimento senz’armi, e Krav Magà in ebraico significa combattimento di contatto).

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Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Storia
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Aggiornamento: 01/05/2015