STUDI SULL'ATEISMO SCIENTIFICO


LA CRISTOLOGIA SINO ALL'ESICASMO

Premessa

Tutte le eresie cristiane sono la conseguenza di contraddizioni irrisolte tra aspettative teoriche e realizzazioni pratiche. Il cristianesimo aveva fallito la propria missione nel momento stesso in cui era nato, poiché si era posto subito in antitesi al messaggio rivoluzionario del Cristo.

Tuttavia lo schiavismo dell’epoca del Cristo era talmente forte che per un momento si sperò che la liberazione degli oppressi potesse venire anche da una religione.

In particolare il tradimento della chiesa primitiva consisteva:

  1. nell'aver trasformato il messaggio laico-umanistico e rivoluzionario del Cristo in uno di tipo ecclesiastico, politicamente conservatore, e quindi nell'aver ridotto lo scontro tra cristianesimo e impero a uno scontro meramente culturale tra cristianesimo e paganesimo (come fecero gli apologisti);
  2. nell'aver preteso di sostituirsi al paganesimo, diventando la nuova religione di stato e negando così il principio di separazione tra chiesa e Stato, pur affermato nella fase iniziale. Di qui le persecuzioni di tutte le religioni pre-cristiane e delle cosiddette "eresie";
  3. nell'esser venuto meno (in occidente soprattutto) anche all'aspetto più trasgressivo ch'esso aveva in quanto "religione": l'escatologia, il profetismo, l'apocalittica, il distacco dalle cose terrene ecc. Tutte le eresie sorte in ambito cristiano, ivi incluse, soprattutto, le contestazioni di tipo monastico, eremitico ecc., nasceranno dalla constatazione di questa sfasatura.

Ma perché tutte le eresie cristologiche (condannate dai primi sette concili ecumenici) fallirono il loro obiettivo e dovettero piegarsi alla superiorità della teologia ortodossa?

I motivi sono due, uno pratico, l’altro teorico.

Quello pratico sta nel fatto che tutte le eresie non esprimevano sino in fondo le esigenze delle masse popolari, ch’erano esigenze di liberazione dallo sfruttamento sociale, ma spesso riflettevano interessi di gruppi politici ed economici che si sentivano rivali nei confronti dei poteri dominanti, dello Stato centralistico; gruppi che rivendicavano maggiore autonomia decisionale, e non per questo maggiore democrazia in ambito locale, dove quelle eresie erano maturate. Erano eresie eversive nei confronti dei poteri costituiti, ma non erano eresie davvero rivoluzionarie, come lo era stato il movimento nazareno ai tempi del Cristo. Sotto questo aspetto forse l’eresia più significativa è stata quella bogomila, che molta influenza ha avuto sulla nascita dei movimenti pauperistici medievali.

Il motivo teorico del fallimento delle eresie cristologiche sta nel fatto che ognuna di esse dava per scontata la necessità di un affronto religioso dei problemi sociali; nessuna eresia ha mai messo in discussione l’esistenza di dio o un lato per così dire “sovrumano” nell’esistenza del Cristo. Nessuna eresia è mai stata laico-umanistica sino in fondo.

Accettando il presupposto religioso della fede, frutto a sua volta di un affronto delle contraddizioni sociali condizionato da interessi di classe, tutte le eresie non sono riuscite a competere con l’ideologia dominante.

Prima del concilio di Nicea del 325

La cristologia si pone al centro delle riflessioni dei Padri della chiesa fra il IV e il VII secolo. Prima di allora dominava la visione soteriologica dell’esistenza cristiana e vi erano poche speculazioni teologiche.
Già nel II secolo la gnosi (rinvenibile anche nel IV vangelo) aveva invaso rapidamente il mondo. La conoscenza esoterica degli iniziati insegnava che solamente lo spirito è positivo e che la materia, la carne, è negativa.

Evidentemente, da questo punto di vista, l’incarnazione del Cristo non era accettabile. Il Cristo non è uomo che all’apparenza, è demiurgo celeste, certamente non dio: così dicevano i doceti. Spogliato della sua umanità, il Cristo veniva a porsi come una sorta di emanazione eonica.

Ignazio di Antiochia e Ireneo di Lione reagirono a queste prime eresie affermando che l’incarnazione condiziona la ricapitolazione dell’umanità universale in Cristo, che viene deificata in lui. Cristo, pertanto, è l tempo stesso “figlio di dio” e “figlio dell’uomo”.

Per contro Paolo di Samosata obiettò che Cristo non era dio ma un semplice uomo adottato da dio: di qui la dottrina dell’adozionismo condannata dal concilio di Antiochia nel 268.

L’arianesimo si situa in questa scia, forzando alcune interpretazioni della scuola di Antiochia. La rivelazione ebraica del Sinai appariva sufficiente e il cosiddetto “miracolo dell’incarnazione” andava considerato superfluo, perfino assurdo: era più ragionevole vedere nel Cristo un grande profeta e maestro ineguagliabile di vita morale.

Ario, prete di Alessandria, ma formatosi ad Antiochia, affermava che dio è innascibile, quindi radicalmente trascendente su tutto quello che nasce e appare. Tale trascendenza presuppone un sistema di mediatori fra il creatore e la creatura. Al vertice dei mediatori si trova il Logos, strumento della creazione, che precede i secoli ma non può esistere dall’eternità. E’ il figlio secondo la grazia non secondo l’essenza.

Sebbene perfetto, il figlio resta creatura divina e come tale è mutevole. E’ senza peccato, ma la sua innocenza è dovuta alla potenza della sua volontà e forza morale. Il padre ha previsto queste qualità eccezionali e lo ha incaricato della sua missione tra gli esseri umani.

L’insufficienza della teologia del Logos, anteriore a Nicea, favoriva in qualche modo l’eresia subordinazionista (qual era l’ariana), ovvero quella perdita parziale di dignità del figlio nei confronti del padre.
All’arianesimo si opporranno i Padri Cappadoci e Atanasio il Grande di Alessandria, con la loro teoria della consustanzialità, la sola che secondo loro permetteva la deificazione umana in virtù della divinizzazione del figlio.

Tra Gregorio Nazianzeno, che pone l’accento sulla pienezza dell’umanità in Cristo, aprendo così la strada alla formula dell’unità ipostatica, e Gregorio Nisseno, che parla di due nature in Cristo in una sola persona, si pone sempre più forte l’esigenza soteriologica di affermare che la guarigione dell’uomo va vista più come rigenerazione integrale che come semplice remissione dei peccati. Più che essere anzitutto giustificato e perdonato, l’uomo ha bisogno di essere deificato.

E qui era evidente che i Padri si rifacevano alle esperienze monastiche allora dominanti, vissute spesso in antitesi all’ufficialità ecclesiastica di corte.

Il primo concilio di Nicea, nel 325, condanna le teorie ariane in nome della consustanzialità di padre e figlio. Con ciò la divinità del Verbo è ben definita, ma il fatto che al tempo stesso il Cristo sia vero dio e vero uomo resta avvolto nel mistero. Infatti, dopo aver applicato la terminologia trinitaria al dogma cristologico, bisognava poi sviluppare la cristologia come un tema essenzialmente antropologico, specificando l’integrità della natura umana del Cristo. In altre parole, come si uniscono in lui le due nature? E qual è il loro contenuto specifico?

A questi interrogativi provano a rispondere Eudossio, vescovo di Antiochia e Luciano di Alessandria, i quali affermano di accettare sì il dogma del Verbo incarnato, ma non nel senso di “Verbo fatto uomo”, poiché “incarnato” vuol semplicemente dire che ha preso la carne, non l’anima. Quindi la natura umana del Cristo non è intera o integra: l’anima è stata sostituita dalla sua natura divina.

Per Apollinare di Laodicea la coesistenza dei due soggetti perfetti – umano e divino – dividerebbe il figlio in due figli, e due realtà complete non possono costituire un unico essere. Se la divinità è immutabile per definizione, ad essere modificati sono gli elementi costitutivi dell’umanità del figlio. Apollinare ammette in Cristo un’anima sensibile, ma nega quella intelligibile (lo spirito), che è stato semplicemente sostituito dal Logos divino.

Apollinare presenta la sua formula dell’”unica natura”, che pone le basi del futuro monofisismo, come una conseguenza del fatto che la libertà di Adamo rendeva la caduta del peccato d’origine una necessità naturale: Adamo non poteva non peccare. Ecco perché non c’è posto per il carattere libero dell’obbedienza del figlio al padre.

Il Cristo non è sostanzialmente “uomo”, è “come” uomo – diceva Apollinare rifacendosi al passo paolino: “diventando simile agli uomini, riconosciuto come uomo…”(Fil 2,6-8). Ma “simile” in Paolo indicava solamente l’assenza del peccato.

L’eresia di Apollinare verrà condannata nel concilio di Roma del 380 e del II concilio ecumenico di Costantinopoli del 381.

La scuola di Antiochia

Per la scuola di Antiochia, che difendeva la dignità di ogni asceta nella sua vittoriosa lotta contro il male e il peccato, l’eresia di Apollinare era inaccettabile proprio là dove negava l’integrità dell’umanità del Cristo.
Diodoro di Tarso e Teodoro di Mopsuestia, servendosi della terminologia di Aristotele, affermavano che se il Cristo unisce in sé le due nature concrete, unisce per forza le due persone in una sola ipostasi di unione.

Essi tuttavia non erano ancora in grado di precisare il modo dell’unione delle due nature e usavano termini ambigui che facevano pensare a una sorta di giustapposizione. Il termine più usato era “synapheia”, che vuol dire legame, congiunzione, concorso… Un termine troppo impreciso per definire lo scambio delle proprietà delle due nature (communicatio idiomatum).

Di qui l’impossibilità di credere nella generazione di dio attraverso la Vergine (theotokos). Infatti secondo Teodoro la Vergine è anthropotokos, madre dell’uomo secondo la natura, ed è theotokos (madre di dio) solo in un senso puramente metaforico: dio abitava l’uomo che Maria aveva partorito. L’infinito divino entra in comunione col finito umano secondo la benevolenza divina (eudokìa), che è morale non ontoteologica.

Nestorio, discepolo di Teodoro, prosegue su questa strada traendone conseguenze radicali. Distinguendo le due nature del Cristo fino al punto di separarle nettamente (duofisismo), egli le riuniva poi in chiave moralistica, secondo un accordo libero, deciso di volta in volta, della volontà o dell’azione tra le nature delle due persone del Cristo: non esisteva, nella teologia nestoriana, una aprioristica unione ipostatica delle due nature. Impensabile quindi considerare theotokos la Vergine, che non era una divinità e che non poteva certo annullare l’umanità del Cristo: al massimo era christotokos, cioè madre di Cristo in cui dio abita.

Anche la teologia di Cirillo che gli si oppone soffre di una mancanza di precisione. Egli spiega l’unione delle nature mediante l’analogia con l’unità del corpo e dell’anima, che forma un solo essere umano, sicché Cristo ha una sola persona (ipostasi) e come stiano insieme le due nature è impossibile saperlo.

L’unica cosa che possiamo accettare, dice Cirillo, è che quanto si riferisce alla natura umana del Cristo non può essere in contraddizione con la sua natura divina: p.es. se non ha senso sostenere che il Cristo sulla croce abbia sofferto come dio, che è immutabile, ha però senso sostenere che ha sofferto come Verbo incarnato e quindi anche indirettamente come dio, essendo unite le due nature.

E se possono riferirsi alla persona divina di Cristo tutte le proprietà della sua natura umana, al punto di poter dire che dio nasce, patisce e muore, allora si può in un certo senso dire che Maria è “madre di dio”. Posta dunque una certa preminenza della natura divina del Cristo su quella umana, per analogia si può far risalire a quella divina le caratteristiche di quella umana.

Il concilio di Calcedonia (451)

A Calcedonia confluiscono due posizioni opposte: quelle di Alessandria e quella di Antiochia, che alla domanda: in quale maniera dio è divenuto uomo, rispondono, la prima: con la dissoluzione dell’umano nel divino; la seconda: attraverso un accordo libero e morale di due soggetti.

Il dogma di Calcedonia presume di superare entrambe le tesi: “Gesù Cristo completo quanto a divinità e completo quanto a umanità, vero Dio e vero uomo, è un solo e medesimo Cristo… in due nature, senza mescolanza, senza trasformazione, senza divisione, senza separazione, poiché l’unione non ha soppresso la diversità delle nature; ciascuna ha conservato il suo modo proprio di essere e si è incontrata con l’altra in un’unica persona e ipostasi. Egli non è diviso o separato in due persone, ma è un unico e medesimo Figlio, unigenito, Dio, verbo e signore Gesù Cristo…”.

Si evita quindi la concezione dei due soggetti. Le quattro definizioni del dogma sono formulate in modo apofatico, negativamente, per esprimere la realtà del mistero. “Senza mescolanza” fa evitare la scomparsa dell’umano nel divino; “senza cambiamento” respinge la non-pienezza della natura umana; “senza divisione” condanna la semplice giustapposizione delle due nature; “senza separazione” rifiuta l’idea che le nature fossero separate prima dell’incarnazione e unite dopo.

La formula equivoca dell’unione della persona “da due nature” viene sostituita con quella “in due nature”, ponendo così maggiormente l’accento sull’unità della persona e sull’integrità delle proprietà di ciascuna natura. L’umanità del Cristo include l’essenza universale e comune a tutti gli uomini.

Ma il dogma di Calcedonia non ha risposto a tutti gli interrogativi: infatti se ora è chiaro come il Verbo diventa ontologicamente ipostasi della natura umana, come può ora questa contenere l’ipostasi divina salvaguardando se stessa? Per poter rispondere a questa domanda si dovrà attendere l’esicasmo e la teologia palamitica.

Il conflitto monotelita

Secondo il patriarca Sergio (610-38) il Cristo faceva convergere, nelle sue azioni, il divino e l’umano in una sola energia teandrica, la cui sorgente non è nelle nature ma nell’ipostasi. L’umano resta subordinato in tutto al divino. Non c’è in Cristo possibilità di una libertà umana che neghi la sua libertà divina. Non c’è in lui tensione interna, un’opposizione possibile di due volontà.

I monoteliti ammettevano dunque una sola volontà (quella divina) e rifiutavano le due azioni secondo le due nature, per timore di sdoppiare l’unica ipostasi.

Decisivo contro tale eresia è il contributo di Massimo il Confessore (580-662), che precisa che la volontà è uno degli elementi costitutivi della ragionevolezza e della libertà della natura umana, ed è per questo che c’è unione libera delle due volontà in Cristo.

E poiché l’incarnazione (umanizzazione di dio) ha come fine la deificazione dell’uomo, un processo analogo avviene nell’essere umano. La caduta ha sviato la volontà umana da dio, trasformando la libertà in libero arbitrio, ma l’incarnazione la restaura nella sua pienezza, in quanto la libertà è piena quando non conosce esitazioni verso il bene. La volontà libera è un’attività che produce le sue ragioni, invece di subirle.

Quindi, dopo aver affermato che le due nature sono unite senza confusione e senza separazione, ora si precisa (VI concilio ecumenico del 680) che la natura umana è libera quando segue liberamente quella divina. E nel VII concilio (787) si aggiungerà che l’umanità di Cristo è l’icona perfetta della sua divinità.

Gregorio Palamas (1296-1359)

Simeone il Nuovo Teologo (m. 1022) aveva detto che se dio è duplice per natura e unico per ipostasi, anche l’uomo è duplice: uomo per natura e dio per grazia.

Paradossalmente quanto più si avvicinava la fine dell’impero bizantino, tanto più si formulavano idee teologiche particolarmente esigenti, che quasi venivano a considerare l’uomo una sorta di divinità in fieri, bisognosa soltanto di svilupparsi in maniera conseguente, secondo la propria natura.

Il vertice della riflessione teologica ortodossa è rappresentato dall’esicasmo di Gregorio Palamas, il quale arriva ad affermare che anche il corpo è sensibile allo spirituale in virtù dell’incarnazione. La fede è una “visione del cuore”, una “sensazione del divino”, che va oltre la volontà e l’intelligenza.

L’oggetto della contemplazione è la luce increata di dio: “colui che partecipa all’energia divina diventa lui stesso, in qualche modo, luce”. Palamas propone di vedere nella luce divina un’energia distinta ma non separabile dall’essenza della divinità. L’uomo partecipa all’energia, non all’essenza, poiché dio resta inconoscibile.

L’uomo deificato deve ammettere l’inafferrabilità di chi lo rende tale. E come tale ha il compito di trasfigurare le cose attraverso il suo corpo.
Improvvisamente con Gregorio Palamas si aprivano porte impensabili fino a quel momento e che lui stesso non avrebbe mai immaginato: quelle dell’umanesimo laico, che mentre sul piano religioso è ateo, sul piano pratico è materialistico, in quanto affida unicamente all’uomo il compito di diventare umano.

Prima riflessione

PER UN META-MATERIALISMO

Seconde le teorie relative alla nascita dell'universo (big bang) dovrebbe esistere un'energia primordiale, da cui è partita l'attuale configurazione dell'universo. Possiamo presumere che questa energia, considerando la tipologia di materia che ha prodotto, sia in perenne movimento, quindi eterna nel tempo e infinita nello spazio, nonché illimitata nella potenza, della dimensione e nella capacità di trasformazione delle cose.

L'etimologia della parola "energia" (energheia) dovremmo cercarla nella lingua greca, poiché in quella latina ha un significato limitato, prevalentemente attribuibile a cose materiali (elettriche, proteiche...), anche se non viene esclusa la componente psicologica, che invece è nettamente prioritaria, come significato semantico, nelle filosofie indo-buddiste.

Qui tuttavia s'intende qualcosa di cosmico e di universale, che permea di sé ogni cosa: qualcosa che nel contempo è visibile e invisibile. "Energheia" dovrebbe equivalere a "dynamis", una sorta di fuoco sempre acceso (come diceva Eraclito), che è poi quello che rende "vive" le cose, materiali e immateriali, fisiche e storiche, interne ed esterne all’esserci. Un fuoco che l'essere umano sente dentro.

Stando alla famosa equazione di Einstein E=mc2, energia e materia sono intercambiabili: la differenza sta solo nella velocità della luce. Ciò significa che l'energia tende a prevalere sulla materia, nel senso che l'energia si dà delle forme mutevoli, che hanno un inizio e una fine.

Quanto meno le forme sono adeguate alle esigenze, alle caratteristiche dell'energia, tanto più facilmente scompaiono, ovvero tante meno tracce positive lasciano al momento della loro scomparsa, e il progresso viene portato avanti da altre forme, più rispondenti al bisogno di produzione e riproduzione.

La necessità di far corrispondere le forze produttive (l'energia) ai rapporti (le forme) di produzione, Marx l'aveva capita perfettamente, anche se di questa legge aveva sottovalutato l'aspetto della libertà umana, che pur in un contesto oggettivamente determinato, deve poter agire autonomamente.

L'energia ha continuamente bisogno di darsi nuove forme, secondo le fasi triadiche della dialettica, così ben delineate da Hegel. La forma è il contenitore mutevole di un contenuto immutevole, in perenne movimento. Immutevole non vuol dire "immobile", come pensava la vecchia metafisica di tipo religioso (da quella greca a quella cattolico-romana), ma dotato della capacità di non lasciarsi condizionare completamente dalla forma, di cui ha necessità per potersi esprimere.

Non c'è sostanza senza forma. Non esiste nulla che sia "puro spirito".
L'energia è eterna, ma anche la materia lo è, con la differenza che questa è soggetta a trasformazioni tali che le fanno perdere il carattere dell'immutevolezza.

Esiste una precisa legge della termodinamica che indica questo processo di degrado inarrestabile (entropia) della materia, che la porta a trasformarsi in maniera incessante. Non è solo una caratteristica fisica della materia ma anche una necessità ontologica dell'energia, di cui purtroppo sappiamo ancora molto poco, sia sul piano scientifico che su quello esistenziale.

L'essere umano, come diceva il teologo ortodosso G. Palamas, è una scintilla di questa energia e nel contempo un concentrato di tutta la materia. Queste cose sono già state capite o intuite dall'umanità in chiave religiosa: ora dobbiamo acquisirle in maniera laica.

Tutto il dibattito cristologico della chiesa dei primi sette concili ecumenici può forse essere letto in una prospettiva ateistica, sostituendo la parola "natura divina" con "energia" ed equiparando la figura di Cristo a quella dell'essere umano.

Cristo potrebbe essere considerato il prototipo dell'essere umano: in tale equivalenza il concetto di "dio" risulterebbe del tutto insignificante. L'unico vero dio è l'uomo, di cui il Cristo è l'archetipo.

Si deve arrivare a dire questo perché nella sindone si è verificata una trasformazione della materia in energia, o comunque l'energia si è riappropriata completamente della propria materia. Al momento la dinamica di questo processo non ci è del tutto comprensibile, anche se riusciamo a intuirne il significato, la portata.

Quel che soprattutto ci è chiaro è che se la sindone è vera i vangeli mentono, in quanto è impensabile un trattamento del genere a un semplice "redentore morale".

Il corpo è la forma dell'energia, che in passato veniva chiamata "anima". L'energia umana produce "pulsioni", cariche emotive, motivazioni, istanze di giustizia, desideri di identità, ansia di libertà, empatia e partecipazione, condivisione del bisogno, commozione interiore...

Se queste considerazioni sono vere, allora la conclusione è non solo ateistica ma anche rivoluzionaria. Cioè se l'uomo è l'unica realtà esistente dell'universo, i problemi ch'egli deve affrontare su questa terra, saranno gli stessi anche quando la terra non esisterà più.

Cambieranno solo le forme, ma la sostanza dei problemi sarà la stessa.
La "libertà di essere" deve poter essere liberamente affermata e condivisa, cioè non imposta né subita contro la propria volontà. La libertà di coscienza dovrà trovare ampia facoltà di esprimersi: non c'è libertà più grande di questa.

Non esiste alcun dio che possa risolvere i problemi dell'uomo. Quanto non è stato risolto su questo pianeta, dovrà essere risolto nella nuova dimensione che ci attenderà, foss'anche quella di trasformare i tanti pianeta morti dell'universo in un qualcosa di vivo, secondo il modello della Terra.

Qualunque discorso religioso di paradiso celeste, di inferno eterno, di giudizio universale, di rassegnazione al male o di retribuzione ultraterrena, e amenità del genere, non ha alcun senso. Dio non solo non esiste, ma è il peggior nemico di una rivoluzione umana e politica che faccia diventare l'uomo quello che è, un essere di natura.

Seconda riflessione

OMNIA AUTEM PROBATE QUOD BONUM EST TENETE
VAGLIATE TUTTO E TRATTENETE IL BUONO (1 Ts 5,21)

Di tutti i vangeli gli unici due che presentano alcuni aspetti di storicità sono quelli di Marco e di Giovanni.

Per individuare questi aspetti bisogna prima compiere una sorta di epurazione, eliminando dai racconti tutte quelle sovrastrutture magico-religiose che fanno del Cristo un essere sovrumano: quindi i miracoli, le guarigioni, le apparizioni dopo morto, gli aspetti sacramentali e spiritualistici della sua predicazione.

Fatto questo resta molto poco. Se si vogliono ugualmente utilizzare tali racconti fantastici come materiale che comunque può far capire qualcosa del cristianesimo primitivo, si può farlo, sul piano storico, dando però per scontato che in essi sono presenti vari tentativi redazionali di falsificazione della realtà. P.es. nei racconti di guarigione miracolosa (cioè di una guarigione che va al di là di un approccio psico-somatico alla malattia), una certa conclusione religiosa può essere stata messa per sostituirne un’altra di tipo politico o umanistico.

E' infatti evidente che in tutti i racconti fantastici è stato trasposto in maniera spiritualistica un dibattito pubblico o privato su temi etico-politici, cui il Cristo aveva dato risposte pertinenti, che ovviamente, fallita l’idea di costruire una Palestina indipendente, cominciarono a risultare scomode a dei redattori che volevano far apparire i cristiani come cittadini affidabili dell’impero. Molto probabilmente erano dibattiti in cui la gente comune manifestava sfiducia nella riuscita di una rivoluzione anti-romana.

Paradossalmente proprio i miracoli, che pur vengono presentati dagli evangelisti come occasione per credere, se veramente fossero avvenuti, non avrebbero fatto altro che aumentare lo scetticismo della gente nei confronti delle proprie capacità o, nel migliore dei casi, non avrebbero fatto altro che incentivare quell’atteggiamento di delega nei confronti dei poteri di un messia sovrumano, che lo stesso messia Gesù, in modo molto “umano”, cercò sempre accuratamente di evitare. Questo nel racconto dei pani moltiplicati risulta molto evidente.

Fatta questa premessa, i due vangeli di Marco e Giovanni hanno ancora qualcosa da dire e in particolare il secondo, in quel bellissimo episodio in cui gli apostoli Pietro e Giovanni corrono verso la tomba vuota, dopo essere stati avvisati da alcune donne alla sequela di Gesù.

Quando entrano dentro, ad almeno due domande devono aver cercato di dare delle risposte:

1. se hanno rubato il cadavere, perché non l’hanno portato via con tutto il lenzuolo?
2. se volevano prenderlo senza lenzuolo, perché questo l’hanno ripiegato e messo da una parte?

Per terra infatti c’erano le bende che tenevano unita la sindone e questa era stata ripiegata come per poterla conservare.

Nel racconto viene scritto che Giovanni “vide e credette”: ma credette a cosa? Credette semplicemente al fatto che il cadavere non poteva essere stato trafugato: proprio l’indizio della sindone lo escludeva.

Uscendo dalla tomba si saranno per forza posti un’altra domanda: se il cadavere fosse stato rubato, perché i ladri non hanno richiuso la porta?

E se non è stato rubato ma è scomparso in maniera misteriosa, com’è stata possibile un’apertura della porta (un masso rotolante di peso notevole) dall’interno? E per quale motivo questo corpo redivivo ha avuto bisogno di aprire la porta per andarsene?

La questione della tomba aperta deve avere messo nella mente dei discepoli non meno dubbi di quella della tomba vuota.

Giunti a casa, avranno srotolato il lenzuolo e inevitabilmente si saranno posti un’altra importante domanda, che sul piano “umano” avrebbe dovuto rimanere senza risposta (come lo resta oggi nonostante tutta la nostra scienza): che cosa sono queste macchie? Che cos’è questa figura? Come s’è formata?

Ma la domanda più importante emergeva proprio da tutti quegli indizi messi insieme e ad essa non si poteva non dare una risposta precisa: cosa diremo adesso ai suoi seguaci? Se non troviamo chi ha rubato il cadavere, se non ce lo restituiscono, cosa racconteremo? E se nessuno l’ha rubato, come spiegare quello che abbiamo trovato dentro la tomba?

E' stato proprio per rispondere a questa domanda che è emersa la tesi revisionista di Pietro: il cadavere non è stato rubato da nessuno, Cristo non era un uomo come noi e se è scomparso in maniera così strana, significa che è risorto, cioè che non era effettivamente morto come a tutti noi sembrava, e se è risorto vuol dire che può anche ritornare e questa volta non per morire di nuovo ma per trionfare sui suoi nemici.

Si tratta quindi di attendere con pazienza la sua venuta imminente. La Palestina sta per essere liberata.

Al che gli altri discepoli avranno obiettato (i vangeli parlano solo di Tommaso): se era un uomo con poteri così particolari, perché s’è lasciato morire in croce senza reagire?

E qui Pietro, con un colpo di genio, ha inventato una falsificazione a dir poco rivoluzionaria: se si è lasciato crocifiggere senza reagire, è stato perché voleva farlo e voleva farlo per poter dimostrare che gli uomini, da soli, non hanno la possibilità di liberarsi dalla schiavitù che li condanna, e questo significa che la liberazione politica è possibile solo dopo la sua venuta. La croce è stata quindi necessaria e chi non crede in questa versione è meglio che se ne vada.

Considerando che dagli Atti scompare molto presto, l’apostolo Giovanni deve essersi decisamente opposto a questa tesi, e anche della maggioranza degli altri non si sa quasi nulla.

Il vangelo di Marco è l’espressione più eloquente della tesi revisionista di Pietro, ben documentata anche nella prima parte degli Atti, specie là dove si parla di “morte necessaria predetta dai profeti”.

Lo si comprende anzitutto dalla teoria del “segreto messianico”, secondo cui Cristo, pur sentendosi un messia politico-rivoluzionario, non voleva farlo sapere, non avendo come obiettivo primario quello di liberare la Palestina, ma quello di dimostrare che gli uomini, uccidendo lui, non sarebbero stati in grado di farlo. Cristo è sì messia politico ma secondo i suoi criteri, che non sono quelli degli ebrei, e lo dimostrerà al suo ritorno.

In secondo luogo lo si comprende dalla finale del vangelo, secondo cui il Cristo risorto sarebbe ripartito da dove era venuto, cioè dalla Galilea, e questa volta – è da presumere – in modo vittorioso.

Pietro deciderà di andarsene da Gerusalemme quando s’accorgerà che il ritorno trionfale di Cristo non si era verificato nell’immediato.

A quel punto infatti le alternative erano diventate due: o si riprendeva subito la lotta anti-romana, oppure si portava la tesi di Pietro a un livello superiore di falsificazione.

Fu così che venne fuori Paolo, che da seguace della prima tesi (non in quanto cristiano ma in quanto ebreo) ad un certo punto si fece aperto sostenitore della seconda.

E la sua nuova tesi fu ancora più incredibile di quella di Pietro: Cristo è l’unigenito figlio di dio e il suo sacrificio è servito per riconciliare l’umanità con dio, da cui s’era staccata sin dai tempi del peccato d’origine.

Il Cristo-figlio diventa così un mero strumento nelle mani del dio-padre, che aveva bisogno di un sacrificio “divino”, cioè della morte vergognosa di una persona assolutamente innocente, giusta per natura, per potersi riconciliare con l’umanità e salvarla dalla dannazione della schiavitù, fisica e morale.

Nessuna rivoluzione politica ha quindi più senso, ma soltanto il giudizio universale, che coinciderà con la fine dei tempi e della storia e che darà a ognuno secondo i meriti.

Siamo nella metafisica spiritualistica più pura. L’unica variante di questa metafisica, che la chiesa non avrà difficoltà ad accettare, è stata elaborata dai falsificatori dell’antico vangelo di Giovanni, secondo i quali Cristo si è lasciato crocifiggere perché chi ama non può usare la violenza in alcuna maniera, neppure per difendersi. Cristo ha amato tanto gli uomini che ha accettato di morire per loro senza difendersi.

Fonti


Le immagini sono state prese dal sito Foto Mulazzani (sezione Natura/Fiori)

Web Homolaicus

Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Teoria - Ateismo
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Aggiornamento: 10/09/2014