STUDI SULL'ATEISMO SCIENTIFICO


TRANSIZIONE DALLA RELIGIONE ALL'ATEISMO

Perché ciò che i credenti attribuiscono a dio, un ateo non potrebbe attribuirlo a un uomo? La risposta che i credenti danno è semplice e storicamente nota: l'essere umano è molto imperfetto.

I credenti sono rassegnati a questa imperfezione, anzi sono convinti di vederla sempre più aumentare, finché un giorno arriverà - secondo loro - il cosiddetto "giudizio universale". Dunque essi basano la loro moralità su una percezione pessimista delle cose: una negatività ritenuta crescente, senza soluzione di continuità.

La particolarità della loro posizione sta tuttavia in questo, ch'essi non sono tenuti a favorire la negatività, quanto piuttosto a ostacolarla o comunque a resistervi, senza però aver mai la pretesa di superarla, di risolverla.

Il male non può essere eliminato, essendo costitutivo all'essere umano in seguito al peccato d'origine; possono soltanto essere ridotti i suoi effetti sull'anima, contrastandoli con la volontà, individuale e di gruppo.

Il famoso "peccato originale", con cui s'è introdotto il male sulla terra, viene considerato insuperabile, in quanto l'unico ad averlo vinto non era esattamente un uomo bensì un dio fattosi uomo: Gesù Cristo, l'unigenito figlio di dio, avente medesima natura del dio-padre e del dio-spirito, a loro consustanziale (così recitano i vari dogmi ecclesiali).

Nessun altro uomo, non potendo essere un dio come lui, potrà mai superare definitivamente gli effetti del peccato adamitico: al massimo potrà ridurli, contenerli, senza mai potersi vantare di nulla.

Infatti l'unico modo per superare la negatività è appunto quello di credere che il Cristo vi è riuscito: il che implica il dover accettare l'idea della sua divinità, il fatto che sia "risorto" da morte, sia apparso subito dopo, sia asceso in cielo, sia andato a liberare le anime di quanti erano morti prima della sua incarnazione e infine che tornerà sulla terra, alla fine dei tempi, per giudicare i vivi e i morti.

Di fronte a tale impostazione del problema del male, l'atteggiamento del credente deve limitarsi a una sorta di "resistenza passiva": da un lato cioè egli non deve favorire il male, dall'altro non deve neppur avere la pretesa di sconfiggerlo. Il male va accettato come un destino inevitabile, pur nella consapevolezza che nell'aldilà, nel cosiddetto "regno dei cieli", esso verrà definitivamente superato.

In teoria il credente non dovrebbe svolgere alcuna attività politica, in quanto, per salvarsi, gli è sufficiente obbedire alle autorità costituite, cristiane o pagane che siano. Infatti, anche se fossero cristiane, il credente non è tenuto ad aspettarsi da loro la fine del male, ma, al massimo, un'attenuazione dei suoi condizionamenti.

Essendo convinti che i destini dell'umanità si giochino solo nell'aldilà, le autorità cristiane dovrebbero cercare di ridurre al massimo le sofferenze alle persone più deboli, più esposte ai colpi del male. Ecco perché i credenti, quando parlano di "giustizia sociale", la intendono solo nel senso della carità che i potenti devono fare nei confronti degli indigenti.

Le chiese fanno discorsi di tipo meramente etico per smuovere le coscienze dei ceti benestanti. E la carità in cui i deboli possono sperare, può essere ottenuta in varie forme, dalle più semplici, nei confronti dei più bisognosi, alle più impegnative, nei confronti di chi aspira a sistemarsi sul piano sociale. Ecco perché viene chiesto ai credenti di stare sottomessi alle autorità costituite.

Quand'è che questo modo di concepire le cose subisce delle battute d'arresto?

  1. Il primo momento avviene quando le contraddizioni sociali tra ricchi e poveri sono troppo forti per essere affrontate con gli strumenti dell'assistenza caritatevole. La chiesa non riesce più a incidere sulle classi agiate e queste non si sentono più in dovere di fare qualcosa di significativo per quelle non abbienti.
  2. Il secondo momento si verifica quando la stessa chiesa svolge un ruolo più affine alle classi agiate, cioè quando essa stessa, a forza di ricevere lasciti e donazioni, diventa un organismo di potere. Essa continua a elargire elemosine, ma appare molto stridente il contrasto tra quanto dice e quanto fa.

Di fronte a questi due momenti, spesso sono gli stessi credenti che reagiscono, inducendo la chiesa a essere più coerente o a stare con più decisione dalla parte dei più deboli.

Se la chiesa, come istituzione, reagisce negativamente a tali sollecitazioni, è facile che si formino movimenti organizzati di protesta, che possono sfociare anche in aperte eresie o addirittura in posizioni scismatiche.

L'inutilità di combattere istituzioni ecclesiastiche profondamente corrotte, ha portato molti credenti a vivere la loro fede in maniera del tutto formale, come un guscio vuoto, oppure a uscire dalla chiesa e a diventare persino dei non-credenti.

Quando si diventa non-credenti ci si chiede se di fronte al male del mondo bisogna continuare ad avere un atteggiamento rassegnato (e se in questo atteggiamento si possono fare significative concessioni al male, al fine di rendere più sopportabile lo scarto tra principi teorici positivi e attività pratica negativa); oppure ci si chiede se bisogna lottare assiduamente contro ogni forma di corruzione, laica o ecclesiastica che sia. In questo secondo caso la religione comincia ad assumere un aspetto di secondaria importanza, in quanto ci si concentra, di preferenza, sugli aspetti sociali, economici, politici...

Se si vuole che le cose migliorino, non si può confidare molto sull'aiuto dei credenti, a meno che un credente non sia capace di scindersi come credente davanti alla sua chiesa e come cittadino davanti allo Stato, e sempre che, come cittadino, non si limiti a fare gli interessi dei credenti.

Tale dualismo politico ed esistenziale è comunque destinato a subire delle trasformazioni. Infatti, o il credente, lottando come cittadino per migliorare la realtà, smette di essere credente; oppure, fingendo di migliorarla, corrompe la propria fede, e quindi smette ugualmente d'essere credente, benché in tal caso usi la religione come forma di potere.

Per sua natura il credente è uno stoico o un buddhista, ma se s'impegna per migliorare qualitativamente le cose, di fronte a sé ha sempre due strade: o le migliora veramente, e allora smette d'essere credente, o finge di migliorarle, e allora diventa ipocrita, cioè usa la religione come strumento d'inganno e di asservimento.

Questo per dire che un'esperienza cristiana che si volesse del tutto pura, dovrebbe essere di tipo monastico, cioè collocata al di fuori delle realtà conflittuali come quelle schiavili, servili o salariali, lontana cioè da quei condizionamenti che possono distrarre la mente, tentare i sensi, ingannare la percezione delle cose, infiacchire la volontà di resistenza al male...

In queste comunità isolate il credente migliora se stesso non perché ha la fede in verità mistiche, ma perché torna a vivere come l'uomo primitivo, a stretto contatto con la natura, limitandosi ai bisogni essenziali della sopravvivenza (a meno che il credente non avverta anche il bisogno di svolgere attività intellettuali o artistiche, come scrivere, dipingere o produrre manufatti artigianali).

Tuttavia anche queste comunità, accettando lasciti e donazioni, facilmente possono corrompersi e diventare delle potenze economiche, soprattutto se iniziano a servirsi di operai salariati al loro servizio o se iniziano a praticare forme di servaggio contadino.

Un'altra forma di esperienza religiosa pura è quella che viene definita con la parola "misticismo", e che s'incontra nelle tradizioni esicaste, sufiche, hindi e che è stata teorizzata da molti teologi di varie confessioni. Dante ne parla nell'ultimo Canto del Paradiso. Inutile però dire che in casi di questo genere la differenza tra estasi mistica e psicosi allucinatoria è così sottile da giustificare l'interpretazione della religione come di un fenomeno oppiaceo.

Fonti


Le immagini sono state prese dal sito Foto Mulazzani

Web Homolaicus

Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Teoria - Ateismo
 - Stampa pagina
Aggiornamento: 10/09/2014