STUDI SULL'ATEISMO SCIENTIFICO


DIFFERENZA TRA AGNOSTICISMO E ATEISMO

La parola “non credere”, per gli agnostici, non è apodittica ma sospensiva, aperturista. Loro rifiutano le posizioni dogmatiche, gli autoritarismi della fede, dei sacerdoti e persino delle secolari tradizioni, però restano disponibili alle dimostrazioni, ai ragionamenti, alla logica e alla scienza, salvo prova contraria, come dicono tutte le persone ragionevoli e quindi anche gli agnostici, che evitano di dirsi atei, poiché ritengono l’ateismo una religione rovesciata.

Loro sono possibilisti, ancorché non ingenui, poiché una qualunque religione deve stare, kantianamente, nei limiti della ragione, altrimenti il dialogo diventa difficile.

L’ateismo però è un’altra cosa e non esattamente quella che dicono gli agnostici, anche se la differenza non è poi così grande. Quando si parla dell’esistenza di dio, un ateo dovrebbe negare valore anche alla più remota ipotesi.

Un agnostico non arriverà mai a dire “non credo che dio esista”; al massimo dirà, come Ugo Grozio, che il fatto che esista o non esista è indifferente per la vita terrena dell’uomo. Magari può anche esistere, ma non in questa dimensione spazio-temporale, poiché i nostri sensi non possono percepirlo in alcuna maniera o dimostrare che quanto percepiscono sia vero; e se anche, a nostra insaputa, ci fosse un dio, il fatto che permetta tutte le mostruosità e aberrazioni che quotidianamente vediamo, sarebbe un motivo sufficiente per dubitare delle qualità sovrumane che i credenti gli attribuiscono.

Per un ateo invece un qualunque dio, onnisciente e onnipotente, in qualsivoglia dimensione dell’universo, andrebbe considerato, di per sé, come una negazione dell’uomo, in quanto violerebbe anzitutto la sua libertà di coscienza, la quale non può accettare le evidenze che s’impongono da sé, quelle che impediscono di fare una scelta personale. Non c’è altro dio nell’universo che non sia l’uomo stesso.

E’ possibile non fare dell’ateismo una religione rovesciata? Sì, se evitiamo fanatismi, intolleranze e fondamentalismi. Non ha senso mettersi a discutere con un credente di questioni religiose, quelle di tipo mistico o trascendente, come p.es. la divinoumanità del Cristo (su cui nel passato ci si ammazzava), proprio perché non riguardano la concretezza dell’uomo ma le sue astratte speculazioni.

Peraltro sappiamo bene che un credente (come qualunque altra persona, beninteso) non si lascia mai convincere da un semplice ragionamento. La fede o la nonfede è una questione interiore, intima, un “oggetto sensibile”. Uno si convince da solo, guardando come gli altri vivono le loro convinzioni.

Certo, dobbiamo lottare contro superstizioni e clericalismi, ma senza metterci sullo stesso piano dei nostri avversari. Anche perché la religione non ha una “storia propria”, che possa indicare i parametri interpretativi a tutte le altre storie. Quando presume di farlo, è ridicola e generalmente resta inascoltata.

La religione è solo un aspetto della cultura, anche quando pretende di determinarla. Un ateo non potrebbe mai scrivere una “storia della chiesa” intesa come “storia del dogma”, ma semmai una “storia della società”, in cui la chiesa può aver giocato un ruolo di rilievo (sociale, culturale e, come nel caso della chiesa romana, politico). Le convinzioni in materia di fede mutano al mutare della società o al mutare dell’esperienza personale di ognuno di noi. Dal momento in cui in Europa occidentale è nata la borghesia a quello in cui è sorto il protestantesimo dovettero passare cinque secoli: i tempi sono sempre molto lunghi per cambiare mentalità. Chi fa cultura lavora sul lungo periodo.

E’ storicamente accertato che una religione può influire sulla società, ma l’importante è vedere fino a che punto essa è in grado di risolverne le contraddizioni. E nessuna religione è in grado di risolvere alcunché. Gli uomini risolvono i loro problemi non in quanto atei o credenti, ma perché sono umani e oltre un certo livello di sopportazione del dolore, della sofferenza non vanno.

L’agnostico è propenso a credere in ciò che gli viene dimostrato, l’ateo invece non vi crede proprio se gli viene dimostrato. Qui sta la principale differenza tra i due modi di porsi di fronte alla questione religiosa.

Che cos’è questo? Uno scetticismo preventivo (il primo) e uno scetticismo assoluto (il secondo)? No, semplicemente è l’atteggiamento di noi figli di una cultura ben precisa, quella occidentale, che dapprima è stata greco-romana, poi cattolico-romana, poi cattolico-borghese, poi borghese-protestante, infine laico-borghese. Sono state queste le culture dominanti che ci hanno tolto la verginità.

Quando i grandi filosofi greci dicevano – loro che hanno fondato la nostra cultura – che alle fonti della conoscenza c’è lo stupore o la meraviglia e, allo stesso tempo, discriminavano il barbaro dal greco, lo schiavo dal libero, la donna dall’uomo e il nullatenente dal possidente, quale grande filosofia ci stavano insegnando? Una sola: quella della doppiezza, che si è trasmessa imperterrita nei secoli, a dispetto di tutte le varianti monoteistiche che han preteso di eliminare il paganesimo.

Di fronte a questi duemilacinquecento anni di ipocrisia, è del tutto naturale avere un atteggiamento un po’ guardingo e sospettoso. Nei vangeli si dice che se non diventeremo come bambini non entreremo nel regno dei cieli. Ma se nella nostra cultura si è violentati dalla culla, come faremo ad entrarci?

Noi non abbiamo più un dio a cui chiedere di non distruggere Sodoma nell’eventualità che si possano trovare almeno dieci saggi. Noi possiamo soltanto assumerci delle responsabilità, senza fare dello scetticismo un atteggiamento fine a se stesso.

Insomma il fatto di credere o non credere non c’entra nulla con la logica o l’ontologia: elaborare, come fece sant’Anselmo, delle argomentazioni per dimostrare l’esistenza di dio è insensato come fare il contrario, proprio perché siamo tutti consapevoli che uno, in coscienza, può vedere anche quello che non esiste, credere nell’impossibile e comportarsi di conseguenza, magari anche migliorando se stesso, se prima era dominato da passioni vizi o debolezze. Qui c’è da condividere Wittgenstein quando dice che di ciò di cui non si può parlare, è meglio tacere.

Non si è migliori solo perché si ha o non si ha la fede, solo perché sappiamo argomentare scientificamente le cose o perché speriamo contro ogni speranza. Tutto dipende dal modo di vivere, dall’attività pratica. Ci si convince guardando gli altri, prendendo esempio da chi è migliore di noi, non – si badi – dall’eloquenza o dal fervore delle sue parole, ma proprio dal valore umano del suo vivere quotidiano. Solo questo può rendere un credente migliore di un ateo. E viceversa, naturalmente.

Non c’è nessun criterio oggettivo che possa dirci, in maniera aprioristica, dove sta la verità di un’idea o la bontà di un’azione. E’ l’ambiguità delle cose che dimostra la nostra libertà e ci mette alla prova.

Gli atei e gli agnostici sono relativisti, ma senza fare del loro relativismo un assoluto e diventare così cinici e crudeli. Sono relativisti perché pensano che prima di andare a togliere la pagliuzza dall’occhio altrui, si devono togliere la propria trave. Non siamo dei perfezionisti, ma non diventiamo neppure nichilisti quando ci dicono che la zizzania sarà sempre con noi.

Fonti


Le immagini sono state prese dal sito Foto Mulazzani

Web Homolaicus

Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Teoria - Ateismo
 - Stampa pagina
Aggiornamento: 10/09/2014