STUDI SULL'ATEISMO SCIENTIFICO


CRITICA AL TEOREMA DELLA CREAZIONE DI BONTADINI

Mattia Fabbri

Dopo le critiche mosse da Hume e da Kant contro le tradizionali prove dell’esistenza di Dio, è diventato quasi un luogo comune (sia per i filosofi che per gli uomini della strada) la non dimostrabilità della fede. Molti tra gli stessi credenti - anche nel mondo cattolico – sembrano intellettualmente più vicini a Guglielmo d’Ockham o a Kant che non a Tommaso d’Aquino. Non mancano (e non sono mancati) anche coloro che additano come impresa superba e vanagloriosa pretendere di dimostrare – tramite strumenti “umani troppo umani” come l’esperienza e la ragione – ciò che è ad un tempo indimostrabile e al di là di ogni pensiero umano. Ricordiamo che lo stesso Anselmo d’Aosta – filosofo e teologo medioevale e ideatore dell’argomento ontologico che “deduceva” dio a partire dal suo stesso concetto – riteneva  anche che dio fosse “più grande di quanto non si potesse pensare”, ovvero trascendente l’intelletto umano. Per non citare la grande tradizione mistica (cattolica e non) la quale – proprio muovendo dall’assolutezza e dall’incommensurabilità di Dio – ne scoraggia qualsiasi indagine razionale, puntando invece sull’ “esperienza” interiore.

Eppure, nel secolo scorso, non sono mancati filosofi che hanno tentato di superare le obiezioni scettiche e atee del pensiero moderno richiamandosi a Tommaso d’Aquino e “aggiornando” la prima delle sue cinque vie (quella ex motu). Da qui il loro inquadramento come “neo-tomisti”. I più noti sono la Vanni Rovighi e Bontadini.

Mi concentrerò su quest’ultimo, sia perché il suo argomento – da lui denominato “teorema della creazione” è ingegnoso e per nulla banale, sia perché gli apologeti più colti e preparati del mondo cattolico tendono a considerarlo come una vera e propria “prova probante” dell’esistenza di dio in grado di superare le obiezioni di Hume e di Kant e di rendere irrazionali le posizioni ateiste.

Per chiarire la struttura logica del “teorema della creazione” riporterò l’agevole riassunto che ne fa Nello Venturini (docente di filosofia al Pontificio Ateneo Regina Apostolorum di Roma, di estrazione neotomista) e citerò alcuni passaggi dell’intervista rilasciata da Bontadini a padre Aldo Bergamaschi a Milano il 5 Aprile 1981.

Cominciamo dall’intervista. Alla domanda di inquadrare il suo “principio di creazione” partendo dalla base dell’argomento, ossia dal divenire, Bontadini risponde:

Il divenire si presenta come una realtà contraddittoria. In che cosa consiste la contraddittorietà del divenire? Ho detto si presenta come realtà contraddittoria però devo subito avvertire che io so già in partenza che il divenire non è contraddittorio perché è reale. Siccome il reale non è contraddittorio e il divenire è reale, il divenire non può essere contraddittorio, però si presenta contraddittorio. Allora devo uscire da questa empasse, cercando di integrare la visione del reale in guisa tale che il divenire non risulti contraddittorio” (corsivo mio).

I termini del problema sono chiari: il divenire – in quanto oggetto di esperienza – è reale; il reale non può essere contraddittorio, in quanto ciò che è contraddittorio è ipso facto impossibile; il divenire dunque – in quanto reale – non è contraddittorio, ma appare contraddittorio. Da qui l’esigenza di trovare una soluzione che “tolga” la contraddizione, ovvero che neutralizzi la parvenza contraddittoria del divenire.

Padre Bergamaschi domanda allora al Bontadini di precisare il significato di “contraddittorio”; il filosofo risponde affermando che “ (…) la contraddittorietà del divenire consiste in ciò che nel divenire è presente ad ogni istante, ad ogni battuta sua, ossia il non essere di un certo essere”. Dunque ogni istante del divenire è segnato dalla contraddizione, perché in ogni istante un certo essere diventa non essere.

Che cos’è il divenire per il nostro? “Divenire significa movimento, significa alterazione”. Nel concetto di divenire è compreso qualsiasi cambiamento, trasformazione o movimento di qualsiasi cosa. Divenire – esemplifica il filosofo – è lo spostamento della matita da un punto all’altro dello spazio (divenire locale), oppure il passaggio dalla vita alla morte di una qualsivoglia persona (divenire sostanziale). A questi esempi se ne possono aggiungere infiniti altri. Ecco il nocciolo del problema delineato da Bontadini:

Qualche non nulla è nulla, un positivo è negativo, un essere è non essere, questa è la contraddittorietà del divenire. Cioè bisogna por mente che la contraddittorietà del divenire non consiste nel fatto che prima Socrate è vivo e poi è morto, che prima la matita è qui e poi non è più qui, perché allora il tempo dirime la contraddizione, non è nello stesso tempo che Socrate è vivo e che Socrate è morto. Perciò Aristotele diceva che è impossibile che una cosa possa essere e non essere nello stesso tempo, ma può essere e non essere in tempi diversi e allora sotto questo modo di riguardarlo il divenire non risulta contraddittorio, perché il divenire mi presenta l'essere di un qualche cosa in un momento e il suo non essere in qualche altro momento.
Ma la verità è che se io dico che questa cosa non c’è in un altro momento, riconosco che in quel momento l'essere, un certo essere, una certa cosa non è. L'essere è (diventa) non essere: questa è la contraddittorietà del divenire” (corsivo mio).

L’influsso parmenideo è evidente: qualsiasi trasformazione implica un’acquisizione o una perdita di “essere”, e quindi un’assurda identificazione essere=non essere. Come uscire dall’impasse? Secondo Bontadini – come già anticipato – l’unica via possibile è data dal “teorema della creazione”:

“Nella visione creazionistica interviene un nuovo fattore che è l'atto creatore il quale è identico alla sostanza divina; questo atto è un positivo e in quanto atto creatore continua in sé tanta perfezione quanto è quella che nel divenire va annullata e perciò (…) questa positività dell'atto creativo colma quel vuoto di essere che c'è nel divenire, lo sana per così dire.
(…) Quello che nel quadro empirico è un negativo nel quadro metafisico è un positivo. La negatività che costituisce il motivo della contraddizione è tolta, è soppressa, è colmata o come altrimenti si voglia dire per metafora” (corsivo mio).

L’atto creatore è la conditio sine qua non affinché la contraddizione del divenire  sia tolta: in altre parole, il venir meno (non essere) di un dato essere viene – per dir così – rimpiazzato dall’atto creatore; la negatività del non essere inerente il divenire viene tolta e neutralizzata dalla positività dell’atto creatore (che è tutt’uno con la sostanza di Dio). Come si vede, Bontadini intende integrare e risolvere le problematiche sollevate nell’antichità da Parmenide tramite concetti desunti dall’armamentario religioso-monoteistico (in particolare quello di creazione); la necessità di risolvere la contraddizione che egli individua nel divenire gli fornisce – a suo giudizio – un’ottima prova dell’esistenza di un creatore  che, nella sua originalità, si sottrae alle obiezioni kantiane ed humiane. Rendendo così nuovamente possibile la metafisica come scienza.

Vediamo ora l’esposizione del principio di creazione di Nello Venturini nella parte finale del suo dizionario filosofico “I filosofi e Dio”, ed. Marna:

“Il divenire è un dato innegabile dell’esperienza, dato che le cose mutano acquisendo (o perdendo) qualcosa. E’ contraddittorio che il diveniente si autodia il nuovo che il divenire comporta, perché dovrebbe non averlo per poterlo ricevere ed averlo per poterselo dare (dato che nessuno può dare quello che non ha). Il nuovo non può venire dal nulla, perché il non essere non può generare alcunché. Infine, supporre un processo all’infinito è inconcepibile, perché non sarebbe mai tolta la contraddittorietà di un divenire originario. Occorre perciò che ci sia l’Indivenibile (Dio)” (corsivo mio)

Nella parte del suo dizionario storico-critico dedicata alla trattazione del pensiero di Bontadini, il Venturini scrive:

In un divenire originario (…) ci sarebbe un incremento d’essere derivato dal nulla ed un decremento d’essere causato sempre dal nulla. Ma il maestro Parmenide ha insegnato che l’essere è ed il non essere non è, e chi non esiste nulla può fare. La difficoltà scompare se si pone all’inizio un Essere infinito che crea enti diversamente limitati” (corsivo mio).

Quanto al concetto bontadiniano di ‘essere’, Venturini ricorda che “il significato del termine essere emerge in correlazione col nulla, cioè l’essere è il positivo in contrapposizione al negativo” (corsivo mio).

Ho evidenziato in corsivo, tra i passaggi citati, quelli che maggiormente chiariscono la struttura della “prova” e costituiscono – a mio avviso – il nocciolo della argomentazione. Le mie obiezioni faranno riferimento soprattutto a questi.

Obiezioni alla prova: L’essere – per Bontadini – è il positivo in contrapposizione al negativo. Nulla impedisce dunque di identificarlo con la massa/energia dell’universo (sicuramente diversa dal ‘nulla’). Stante però questa identificazione, perché un divenire originario comporterebbe “un incremento di essere derivato dal nulla ed un decremento di essere causato sempre dal nulla”? Uno dei principi cardine della fisica moderna – il principio di conservazione dell’energia – non lascia adito a dubbi: l’energia non si crea e non si distrugge (dunque non aumenta né diminuisce), ma si trasforma. Essa rimane quindi costante, limitandosi a cambiare forma, struttura ed organizzazione (trans-formare). Esempio: se faccio collidere un protone ed un antiprotone (oppure un elettrone ed un positrone) provoco l’annullamento delle forme delle rispettive particelle, ma a tale reciproco annichilimento corrisponde una violenta liberazione di energia. Nulla si è perso nel nulla, in quanto è cambiata solamente la forma o modalità dell’essere (ovvero dell’energia/massa). Vale anche l’esempio contrario: dall’energia, per effetti quantici, possono originarsi coppie di particelle e antiparticelle. Non si tratta di una creazione dal nulla, ovvero di un plus di energia che va ad aggiungersi all’energia preesistente, ma di una diversa (e temporanea) modalità o manifestazione assunta dalla stessa.

Gli esempi potrebbero continuare, ma credo che sia chiaro il concetto: l’essere (ovvero l’energia) non aumenta né diminuisce in quanto non si crea e non si distrugge; i cambiamenti non riguardano la “quantità” di essere (che nel complesso resta sempre costante) ma le sue “modalità” o particolari manifestazioni. Parafrasando Spinoza, potremmo dire che gli uomini (così come tutti gli altri esseri viventi e non) altro non sono che un “modo” o un’ “escrescenza” della Sostanza, o energia cosmica; il passaggio da un determinato modo di essere ad un altro può al massimo esigere di essere analizzato, chiarito e precisato, ma non comporta alcuna contraddizione. La contraddizione  si dà solamente quando l’Essere lo si fa derivare dal Nulla (anziché da un’altra sua modalità). Essere e Nulla sono concetti assolutistici, non conoscono sfumature, e pertanto vanno maneggiati con molta cautela. Se parliamo di enti, oppure di oggetti o di eventi particolari, ci stiamo riferendo non all’ Essere, ma ad una sua modalità di espressione. Una tra le tante. Una tra infinite. Il passaggio da una modalità dell’ essere all’altra, ovvero da una forma all’altra dell’energia/massa, può essere difficile da ricostruire o da mettere a fuoco “empiricamente” a causa dei nostri limitati strumenti di osservazione e delle nostre percezioni imperfette; ma non può essere contraddittorio.

Ecco dunque un primo gravissimo limite dell’argomentazione del Bontadini (limite che si riscontra anche in Parmenide): la categoria astratta ed assolutistica di ‘essere’ viene applicata troppo disinvoltamente agli enti, ovvero alle sue singole e specifiche modalità di manifestazione. In altri termini, l’universale (l’Essere) viene confuso e sovrapposto al particolare (gli enti o le cose). Identificare l’Essere con l’energia/massa dell’universo (come ho ritenuto non solo corretto, ma anche inevitabile) mi ha poi facilitato nel mostrare come le cose particolari altro non siano che “modalità” di essere. Il divenire dunque va ridefinito come passaggio da una forma all’altra dell’essere (trans –formazione) piuttosto che come passaggio dall’essere al non essere (o viceversa). In questo modo la contraddizione è tolta senza chiamare in causa Dio.

Veniamo ora a questo passaggio del Venturini: “Il nuovo non può venire dal nulla, perché il non essere non può generare alcunché”.

Qui il Venturini – sulla scorta del Bontadini – commette l’errore di “sostanzializzare” il “nuovo”, ovvero di trattarlo come se fosse l’ “essere” stesso. In realtà, il nuovo implicato dal divenire (ovvero dal processo di trasformazione della materia/energia) non è una cosa od un oggetto che compare ‘dal nulla’ e che, per non rimanere inspiegabile, deve rimandare ad una causa trascendente, ma può essere definibile soltanto in termini di “proprietà emergenti”. Tali proprietà non nascono dal nulla e neppure necessitano di una spiegazione “teologica” o “soprannaturale”, ma sono il risultato di determinate e specifiche modalità di aggregazione della materia. Se così non fosse, tutto originerebbe da….tutto! La chimica, che studia e analizza sia le qualità degli elementi sia quelle che emergono dai loro composti (e che sono assenti a livello elementare) diventerebbe una sciarada priva di senso, in quanto il “nuovo” (le proprietà emergenti) potrebbe sbucare allo stesso modo da qualsiasi composto e senza alcuna logica. Non ci sarebbe alcun legame causale tra le proprietà emergenti di un dato composto chimico e gli elementi che concorrono in tale composto. Sappiamo però – e lo sa anche un ragazzino delle medie che si sia dato soltanto la pena di aprire il manuale di chimica – che non è affatto così.

Esempio concreto: l’elio possiede delle proprietà che non erano presenti nell’idrogeno; tuttavia, tali proprietà non nascono dal nulla e neppure richiedono un intervento soprannaturale, ma sono il naturale risultato della fusione, nella fornace solare – a temperatura e pressione elevatissime – di quattro nuclei di idrogeno. Solo dalla fusione di questi elementi – e non di altri – è possibile ottenere l’elio e le sue nuove proprietà.

Se dovesse sembrare scorretto usare contro Tommaso e i suoi epigoni un esempio tratto dalla scienza moderna, si può considerare invece un oggetto comune, una torta; questa possiede molte caratteristiche – ad esempio la sua morbidezza – che non erano affatto presenti nei suoi ingredienti (uova, farina, zucchero). Invocare il principio secondo cui “il più non può venire dal meno” per dimostrare l’esistenza di Dio come unica spiegazione possibile di queste nuove caratteristiche, si rivela anche in questo caso inconcludente: la morbidezza della torta (che, ricordiamolo, non è l’essere ma una delle sue molteplici sfaccettature) non nasce ex nihilo, ma è originata dalle complesse reazioni chimiche che si verificano durante l’impasto e la cottura. Inoltre, poiché queste reazioni chimiche siamo noi ad innescarle assemblando i materiali in un certo modo e sotto certe condizioni, secondo la “logica” bontadiniana saremmo noi a “guidare” ed a “stimolare” l’azione creazionistica divina! Strano che conseguenze così “blasfeme” non siano state messe debitamente in conto dal Bontadini o dal Venturini: sarebbe bastato – al di là dell’esempio della torta – gettare uno sguardo alle molteplici realizzazioni o “creazioni” della tecnica per prendere atto che l’uomo – in quanto soggetto attivo oltre che passivo del divenire, capace cioè di “piegarlo” e “direzionarlo” secondo le proprie esigenze – concorre secondo la logica dell’argomento a “piegare” ed a “manipolare” l’azione creatrice divina (che per Bontadini è tutt’uno con la sostanza divina!) Quando si tratta di dimostrare l’esistenza di Dio, tutti gli effetti, per così dire, “collaterali” della dimostrazione non vengono mai presi in considerazione: e questa non è certo una novità.

Altri esempi: il bios, così come lo conosciamo, ovvero la molecola di DNA, può originarsi solo in determinati contesti ambientali ed in presenza di condizioni fisico-chimiche estremamente specifiche e ristrette (tant’è vero che alcuni biologi come Jacques Monod lo ritengono statisticamente improbabile, frutto del caso e della necessità). Se fosse il risultato di una creazione divina, attecchirebbe dovunque ed in qualsiasi momento dell’evoluzione cosmica: non ci sarebbero condizioni avverse al suo formarsi, perché nulla può fermare o invalidare l’atto creativo dell’onnipotente! Invece, per quanto ancora oggi ci siano molte lacune circa la ricostruzione del periodo e delle dinamiche che hanno che portato alla nascita del vivente, una cosa tutti gli scienziati (credenti e non) ritengono certa ed assodata: come dimostrato dall’esperimento di Miller nel 1953, sono necessarie condizioni fisico-chimiche molto particolari e specifiche perché si possa formare anche solo una proteina o un amminoacido (che sono i “mattoni” del DNA); senza queste condizioni, la vita così come la conosciamo non può attecchire. Nessun astro-biologo che voglia indagare sulla presenza o meno di vita “extraterrestre” prenderà mai in considerazione pianeti troppo vicini o lontani dal sole, completamente ricoperti di ghiaccio o completamente aridi e privi di acqua.

Anche la coscienza costituisce un elemento di novità, ovvero una proprietà emergente dell’evoluzione dell’universo. Come la vita, anche la coscienza può emergere solo in sistemi fisico-chimici che abbiano superato un certo livello di complessità. Un neurone è un’unità biologica notevolmente complessa, ma da solo non può “generare” la mente; servono centinaia di miliardi di neuroni interconnessi tra di loro per rendere possibile l’attività intellettuale; e bastano piccole alterazioni nel loro funzionamento (causate sempre da fattori materiali, come ad es. le droghe o determinate malattie) per mandare in tilt la razionalità umana – tra l’altro sempre esaltata dagli apologisti religiosi come l’elemento immortale dell’uomo, che lo distinguerebbe dagli animali e lo assimilerebbe a Dio. Per non parlare poi della possibilità – che i progressi della cibernetica e della psicologia cognitiva rendono sempre più futuribile – di progettare e costruire una mente “artificiale” assemblando ed organizzando determinati elementi preesistenti; un altro esempio di come il progresso della scienza e della tecnica possa rendere l’uomo un prometeico soggetto attivo del divenire, in grado di plasmarlo e direzionarlo in concorrenza con la (presunta) attività creatrice divina!

Prescindendo comunque dalla scienza moderna o addirittura da possibili scenari della tecnologia del futuro, gioverà menzionare uno degli autori fondamentali della letteratura ateistica dell’antichità: Tito Lucrezio Caro. Già più di duemila anni fa, nel suo De rerum natura, aveva tentato di dare una spiegazione naturalistica del divenire delle cose, stigmatizzando come irrazionale il concetto di creatio ex nihilo per volere divino:

C’è un ordine nel quale le cose si svolgono senza intervento divino. Se provenisse dal nulla, qualsiasi specie potrebbe attecchire dovunque senza bisogno di un seme: l’uomo uscirebbe dal mare ed il pesce squamoso spunterebbe dal suolo: dal cielo cadrebbero uccelli. (…) Né coglieremmo da un albero un frutto soltanto: ce ne darebbe moltissimi, bastando un seme per tutti. Se ad ogni cosa mancasse il germe che la feconda come potremmo conoscere la sua sicura matrice? Per questo ogni specie dispone di un seme che è suo per cui giunge alla luce con propria forza spontanea ovunque ci sia qualche umore capace di darle la vita. Se ad ogni cosa compete un proprio potere creativo è anche sbagliato affermare che tutto nasce da tutto: perché la rosa fiorisce solo nel mese di Maggio, il grano matura d’estate e la vigna d’autunno? Perché solo in un tempo sono giuste le unioni di ciò che porta alla vita una specie precisa? Perché ciò che spunta lo fa nel momento in cui deve e quando la terra lo spinge a venire alla luce? Se invece ci fosse qualcosa che nasce dal nulla verrebbe fuori per caso, anche nel tempo sbagliato, non esistendo quei semi a cui la stagione nemica impedisce ogni sforzo per affacciarsi alla vita. Né occorrerebbe del tempo, venendo essi dal nulla, per maturare quei semi se pure riuscissero ad unirsi: ad un tratto bambini immaturi diventerebbero adulti e dal suolo, improvvisi, verrebbero fuori degli alberi. Se ciò non accade è solo perché – come ho detto – ogni cosa ha un suo seme che si apre nel tempo dovuto seguendo la propria natura e può svilupparsi sereno perché la natura provvede a tutto ciò che gli occorre. Va anche detto che senza stagioni di piogge la terra non ci darebbe i suoi frutti gioiosi né una specie vivente potrebbe, privata del suo cibo, riprodurre se stessa e perpetuarsi nel tempo. Esistono degli elementi che sono comuni a più cose come le lettere uguali sparse in parole diverse: ma non c’è niente che possa crearsi senza di loro. (…) Tutto quello che esiste richiede tanta materia nel momento in cui nasce quanta ne occorre a formarlo, ma ogni cosa che nasce ha sempre bisogno di un seme (…): anche per questo diciamo che niente proviene dal niente” (De rerum natura, I, 149-207 – Corsivo mio)

Le parti che ho corsivato sono quelle che – a mio giudizio – rendono più chiaramente l’idea della logica immanente che informa il divenire, ovvero del nesso inscindibile e necessario che intercorre tra il ‘nuovo’ e le condizioni materiali che ne sono alla base. Se qualcosa provenisse dal nulla (o da un atto divino legibus naturalibus solutus) potrebbe giocoforza attecchire dovunque, all’improvviso, in qualsiasi momento e sotto qualsiasi condizione: in una parola, il divenire della natura sarebbe sprovvisto di regolarità in quanto continuamente in balia di una creatio continua di un Dio non vincolato da nulla e da nessuno. Le concrete argomentazioni di Lucrezio sembrano rispondere con un anticipo di più di duemila anni alle astruse speculazioni degli epigoni di Parmenide e Tommaso d’Aquino.

Riepilogando: il nuovo implicato dal divenire non nasce dal nulla ma è la naturale conseguenza di ciò che lo precede: e poiché l’atto causativo è sempre riconducibile all’azione – o meglio, all’inter-azione – di più cause differenti, non deve stupire che l’effetto possa contenere elementi di novità non riscontrabili nelle cause (considerate separatamente) dalle quali è stato prodotto.

Volendo comunque prendere per buono il “teorema della creazione” e portarlo alle sue logiche conseguenze, incappiamo in un’altra grave difficoltà (ovviamente non presa in considerazione da Bontadini e da Venturini): il problema del male e del dolore. E’ facile constatare infatti che se Dio è autore di ogni istante del divenire, in quanto altrimenti segnato dalla contraddizione essere=non essere, allora non può non essere direttamente responsabile di tutta la sofferenza e il male che affliggono gli uomini e tutti gli altri esseri viventi. La proliferazione delle cellule metastatiche, ad esempio, non è un nulla; è un positivo (con buona pace di Agostino che qualificava il male come semplice carenza di essere); non potendo provenire dal nulla, ed essendo un plus rispetto a ciò che v’era prima nell’organismo, deve esigere l’Immutabile e l’Indivenibile come spiegazione, altrimenti sarebbe scandalosamente contraddittorio; dunque deve postulare un Dio creatore. Si potrebbero fare miriadi di altri esempi simili per mostrare come la “prova probante” dell’esistenza di Dio – quand’anche fosse valida – si ritorcerebbe come un boomerang contro i suoi sostenitori, in quanto non solo non risolverebbe il problema della teodicea (su cui hanno perso inutilmente il sonno schiere di filosofi e teologi di tutti i tempi), ma lo aggraverebbe ulteriormente. Metterebbe seriamente a repentaglio anche quel libero arbitrio tanto caro al magistero cattolico: come potrebbe conciliarsi la libertà decisionale umana con il fatto che anche l’anima (presunta fonte di tale libertà) sarebbe coinvolta da quel divenire universale che solo l’atto creatore può rendere non contraddittorio? Come potrebbe essere libera un’anima continuamente formata dall’atto creativo divino?

C’è infine un’altra difficoltà che invalida l’argomento bontadiniano: l’impossibilità di togliere una (apparente) contraddizione con un’altra contraddizione (palese). Se il divenire appare contraddittorio, sicuramente è contraddittorio quell’atto di creazione ex nihilo con cui si pretende di togliere l’apparente contraddizione. Qualsiasi atto creazionistico, infatti, implica un nulla originario (per quanto relativo) da cui estrapolare magicamente gli essenti. Togliamo questo nulla e avremo al massimo: plasmazione, esteriorizzazione, emanazione, generazione; tutto, fuorché ‘creazione’. La creatio ex nihilo fa rientrare dalla finestra ciò che pretende di cacciare dalla porta, ovvero la contraddizione essere=non essere. Inoltre non è in grado di spiegare come l’Infinito e l’Indivenibile (Dio) possa rendere possibile un mondo in divenire ed interagirvi. Come potrebbe un Essere completamente immutabile e immobile infondere il movimento nelle cose create? Come potrebbe trasmettere ciò di cui lui stesso è assolutamente privo? Come può – più in generale – il totalmente Indivenibile determinare il divenire?

Come se non bastasse, l’atto stesso di creazione (identificato da Bontadini con la sostanza divina) è una scelta, una decisione consapevole – a meno di non considerare dio un creatore cieco ed incosciente – e quindi non può che essere frutto di un mutamento intervenuto in chi lo compie; infatti una scelta atemporale (senza un ‘prima’ e un ‘dopo’) è un assurdo semantico, assolutamente impensabile, in quanto snatura completamente il significato del termine, al di là delle sue sfumature. Il Nostro, invece, identificando tale atto con la sostanza immutabile di Dio, è costretto a considerare immutabile anche la scelta creazionistica. Il che comporta un altro grave problema teologico: come può una scelta immutabile (ammesso che abbia un senso) essere libera? La libertà è possibile solo quando c’è cambiamento. Un essere, un atto o una scelta cristallizzata e pietrificata in se stessa non può essere libera. Un Dio immutabile ed indivenibile – paralizzato com’è nella sua immobilità – non può agire, non può scegliere, non può fare alcunché. L’assoluta stasi non è sinonimo di libertà, semmai di morte! E un ipotetico Dio immutabile, incapace per sua natura di intervenire nelle vicende naturali e umane, non ha sicuramente nulla da dire agli uomini: per dirla con Sartre, “quand’anche esistesse, non cambierebbe nulla”.

Fonte: www.antrodiulisse.eu

Testi di Gustavo Bontadini


Le immagini sono state prese dal sito Foto Mulazzani

Web Homolaicus

Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Teoria - Ateismo
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Aggiornamento: 10/09/2014