Linguaggio, Autoconsumo e Libertà di coscienza

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LINGUAGGIO, AUTOCONSUMO E LIBERTA' DI COSCIENZA

I

Il linguaggio esiste prima del linguaggio. La paradossalità di questa affermazione è tollerata in quanto gli esseri umani sanno andare al di là di quello che dicono. Cosa che tra gli animali e i computer (ma spesso anche negli ambienti di tipo militare) non viene consentito.

Noi possiamo dire cose apparentemente assurde, logicamente insensate, eppure suscettibili di interpretazioni metalinguistiche, quelle che ci distinguono da tutti gli altri esseri viventi, che di regola hanno bisogno di messaggi chiari e distinti.

Se per comprendere il significato di un'espressione o di un intero codice linguistico bastasse conoscere dei meccanismi di tipo logico-sintattico, ad un certo punto ci verrebbe tutto a noia, anche nel caso in cui non fossero esaurite le possibili combinazioni lessicali. E' proprio la mancanza di ambiguità nelle espressioni linguistiche che rende arida la comprensione e limitata l'interpretazione semantica. Noi abbiamo costantemente bisogno di andare al di là dell'evidenza. Se ci pensiamo, il linguaggio informatico, che pur ha permesso a buona parte dell'umanità di fare enormi passi avanti, è, dal punto di vista propriamente "umano", incredibilmente limitato.

Se partiamo dal presupposto che il linguaggio è anzitutto comunicazione e che la comunicazione primordiale era monosillabica, fonematica, dovremmo dire che il linguaggio più universale del mondo, che ogni adulto è in grado di capire, è proprio quello dei neonati.

L'uomo si esprime anche a gesti, a sguardi, a sillabe e fonemi. Lo capiamo p.es. quando un neonato è più ricettivo di un altro, ha più voglia di interagire. Esattamente come riusciamo ad accorgerci quando, a teatro o al cinema, una stessa battuta, detta da due attori diversi, produce risultati incredibilmente diversi, che sono poi quelli che permettono di distinguere un tipo di recitazione da un'altra.

Non dobbiamo però pensare che questo linguaggio "primordiale", solo perché apparentemente meno evoluto di quello forbito degli intellettuali, possa essere per definizione più vero, più genuino, più autentico del nostro. L'essere umano, proprio perché connaturato in lui, impara molto presto a usare il linguaggio in maniera ambigua, strumentale, per ottenere qualcosa con l'inganno, col piccolo ricatto, col proprio istinto, che si vorrebbe sempre soddisfare il più velocemente possibile.

Il linguaggio è strettamente correlato alla libertà di coscienza e questa ci è data dalla nascita. Il legame si pone secondo gradi, forme e modi molto diversi, nel tempo e nello spazio, al punto che per capirci dovremmo prima trovare un denominatore comune, molto semplice, elementare, ma fondamentale.

Il soggetto ha bisogno di comunicare prima ancora di nascere. E' proiettato verso l'esterno, proprio per capire il proprio interno. Si forma guardando fuori, per potersi guardare dentro. Il soggetto istintivamente interpreta la realtà e, così facendo, si dà un'identità, comprende se stesso.

Non c'è prima l'identità e poi la diversità o l'alterità, ma c'è una realtà composita, ambivalente, in cui i due elementi (io, non-io) interagiscono, condizionandosi a vicenda.

Anche l'animale interpreta la natura, ma, avendo esigenze molto limitate, non si pone mai eccessive domande. Gli animali hanno fondamentalmente cinque esigenze: alimentarsi, riprodursi, controllare il territorio, proteggere la prole e addestrarla alla sopravvivenza. Negli animali superiori esiste anche l'esigenza ludica. Ad essi invece manca totalmente l'esigenza artistico-simbolica, la capacità astrattiva che porta a interpretare la realtà in maniera diversa dall'apparenza o dall'evidenza (ecco perché diciamo che la verità non è sempre quello che si vede, e chi pensa di poter credere solo a ciò che vede, inevitabilmente s'illude).

Gli animali non hanno la libertà di coscienza, poiché appunto agiscono istintivamente o secondo la volontà umana. Un animale è "buono" secondo i criteri del proprio istinto, ma questo, dal punto di vista umano, non significa nulla: potrebbe anche compiere azioni che, mentre a lui paiono naturali, a noi sembrano del tutto disumane. Lo stesso animale potrebbe sopportare molto malvolentieri d'essere addestrato o addomesticato secondo il nostro concetto di "bontà" o di "utilità".

Il linguaggio animale è necessariamente ridotto al minimo essenziale. Un animale non ama per il gusto di amare, ma per riprodursi. E chi ama gli animali più degli esseri umani è perché si porta una ferita nel cuore, quella appunto che lo induce a cercare rapporti semplici, diretti, non complicati dall'ambiguità delle cose.

Dal modo come gli altri reagiscono alle sue domande, un individuo può verificare se le risposte sono compatibili con quello che lui sente di essere. Non ci sono però un soggetto e una realtà separati, posti uno di fronte all'altra. L'interazione è reciproca: domande e risposte partono ora da uno, ora dall'altra.

La cosa straordinaria di questo processo è che quando avviene secondo principi innaturali, cioè secondo valori non tipicamente umani, col tempo tende ad aggiustarsi, in quanto le contraddizioni non riescono ad essere sopportate oltre un certo limite. Un cane può morire di vecchiaia, legato a una catena, magari sempre più incattivito. Un uomo invece deve darsi delle ragioni per morire in queste condizioni, proprio perché istintivamente non riuscirebbe a farlo. Spesso le rivoluzioni sorgono proprio quando si avverte che la vita non ha un valore più grande della libertà perduta, cioè quando si preferisce rischiare di morire pur di liberarsi della propria schiavitù.

Per realizzare questo possono occorrere anche secoli e secoli. Le occorrenze che andiamo cercando nei nostri motori di ricerca possono valere anche per i processi storici. P.es. quando gli antagonismi sono di recente formazione, in genere possono essere superati più facilmente, ma questo non vuol dire che non occorra una presa di posizione da parte di qualcuno. Anche la medicina, di fronte ai primi sintomi del male, dice la stessa cosa: la causa di tanti mali non sta forse nella pigrizia degli stessi malati? e questa non è forse la risultante di una concezione fatalistica della vita?

Se la memoria di un collettivo, basata su valori positivi, è ancora viva, il rischio può diventare quello di illudersi di poter sopportare meglio gli antagonismi. Questo è uno dei motivi per cui nella storia le rivoluzioni sono piuttosto rare. Ci si illude sempre di poter risolvere i problemi senza particolare fatica, eventualmente scaricandone il peso su soggetti più deboli: il colonialismo non è forse nato così?

E che dire del fatto che le forme autoritarie del potere sono più deboli quando gli antagonismi sociali, all'interno di una società, si sono col tempo consolidati? Quante volte abbiamo visto agire gli statisti a favore di un aumento della democrazia proprio per conservare meglio la dittatura del più forte?

La storia può essere letta come un confronto continuo tra memoria e desiderio: quando la prima viene infranta, il secondo dovrebbe reagire immediatamente, ma quanto più tardi lo fa, tanto più è difficile recuperare quella, e quanto più è difficile il recupero, tanto più il desiderio tende a esprimersi in maniera irrazionale.

Sin dalla nascita l'essere umano ha in sé qualcosa di naturale che, se anche viene negato dalla realtà, non può però essere definitivamente cancellato: rimane in un certo senso latente nell'inconscio.

II

La realtà non riesce ad essere sempre uguale a se stessa ed è un bene che sia così. Evolve di continuo, proprio perché il soggetto ha bisogno di trovare l'oggetto compatibile con se stesso, a meno che non ritenga di averlo sufficientemente trovato: in tal caso i progressi sono infinitamente più lenti e anzi visti con sospetto.

Ma questo accade, in genere, quando l'ambiente presenta notevoli difficoltà per l'adattamento umano. Le grandi civiltà si sono formate in ambienti geografici molto ostili (paludosi, desertici) e hanno potuto sviluppare un notevole progresso tecnico-scientifico, rendendo quegli ambienti più vivibili. Tuttavia questo ha comportato una certa schiavizzazione di massa, senza la quale sarebbe stato impossibile lavorare in quelle condizioni.

In questa ricerca delle migliori compatibilità ambientali, hanno la meglio i soggetti più forti, che non necessariamente sono i migliori e neppure quelli che danno alla propria forza un attributo di "fisicità". I più forti sono quelli che s'impongono, che si fanno valere o sulle tendenze centrifughe o su quelle troppo conservative.

Questa imposizione può essere positiva o negativa: non c'è un criterio astratto per definirla. Se un collettivo nega i valori umani, la reazione di un soggetto può essere positiva. Ma questa reazione può anche peggiorare la negatività, anche contro le intenzioni di chi l'ha posta.

Non c'è nessun criterio che a priori possa definire quando una transizione è positiva o negativa. Sono solo le circostanze che possono deciderlo, quelle in cui gli uomini possono giocarsi la loro libertà di coscienza, la loro libera scelta (che è sempre relativa appunto alle circostanze di tempo e luogo).

Neppure il criterio della maggioranza può in sé essere sufficiente. Neppure quello della tradizione, anche se quest'ultimo ha un peso non indifferente. Se la forza è positiva, il fatto di basarsi su una tradizione consolidata, la rende ancora più forte. Facilmente la maggioranza s'adegua alla tradizione, quando questa è positiva. Ma quando si spezza la catena della tradizione, anche la maggioranza tende facilmente a disgregarsi: non viene più avvertita come un vincolo positivo, ma come un abuso, una condanna.

In maniera molto approssimativa e astratta si può affermare che la corrispondenza migliore per la libertà di coscienza è l'autoconsumo. Cioè quanto meno l'esistenza di un collettivo dipende da un fattore estrinseco a sé (esogeno), tanto più è facile l'espressione della libertà di coscienza, la quale, per potersi esprimere adeguatamente, non può essere legata a un individuo singolo, poiché questo, senza un collettivo di riferimento, non riesce a sussistere, non ha una percezione obiettiva né di sé né della realtà.

La dipendenza del singolo da un collettivo è non solo inevitabile ma anche necessaria alla formazione della sua identità. E' piuttosto la dipendenza di un collettivo nei confronti di un altro collettivo che va messa in discussione. Ecco perché la libertà di coscienza va messa strettamente in relazione all'autogestione dei propri bisogni collettivi.

Autoconsumo vuol dire che un collettivo, per la propria riproduzione, non ha bisogno di un altro collettivo. Se due collettivi sono autonomi in ciò che per loro è fondamentale per esistere, in caso di difficoltà si aiuteranno a conservare la loro autonomia. Chi vive della propria autonomia non ha interesse a negare l'autonomia altrui.

Gli scambi possono avvenire liberamente, commerciando le eccedenze, festeggiando eventi comuni, praticando l'esogamia, scambiandosi liberamente forme di cultura e di tecnologia. La forza che manda avanti la storia può anche essere quella di un collettivo del tutto pacifico.

Lo stesso concetto di "forza" va reinterpretato, essendo molto relativo. Quando nella storia si vedono collettivi usare molta forza militare, si può pensare ch'essi siano molto deboli sul piano sociale, cioè poco coesi, troppo determinati da antagonismi distruttivi.

Un atto di forza può essere compiuto da un collettivo minoritario rispetto a uno maggioritario: in casi del genere è facile la scissione. Probabilmente le primissime civiltà si sono formate così. Non a caso i territori in cui si sono formate erano aridi e impervi, e solo grazie a un lavoro schiavile imponente sono state completamente trasformate, dando origine a una cosa assolutamente inedita e assai poco naturale: l'urbanizzazione.

La città infatti è la negazione per eccellenza dell'autoconsumo, anzi è l'espressione più significativa della dipendenza della campagna nei confronti della città. Qui vivono i poteri forti che dominano non solo in città ma anche in campagna.

Non è mai esistito un rapporto paritetico tra città e campagna, proprio perché la città in sé nega alla campagna la propria autonomia. Qualunque civiltà che nella storia abbiamo visto formarsi negli ultimi seimila anni, è stata una civiltà che ha negato l'autonomia ai collettivi ad essa limitrofi.

Quando un collettivo non è capace di vivere l'autonomia al proprio interno, tende a negarla al proprio esterno. E la storia dimostra che non si è capaci di vivere l'autonomia quando non esiste uguaglianza tra uomo e uomo, tra uomo e donna, tra esseri umani e natura.

Quando l'identità vuole affermarsi negando la diversità, i rapporti diventano conflittuali, antagonistici. Nella dialettica dei contrari prevale l'opposizione (o repulsione) sull'unificazione (o attrazione) e uno dei due elementi tende a prevaricare sull'altro, a sottometterlo. Il collettivo socialmente s'indebolisce proprio mentre una parte di esso presume d'imporsi con la forza.

In realtà la vera forza è del collettivo nel suo insieme, non in una parte di esso. E un collettivo è forte quando è disarmato, cioè quando usa le armi solo per cibarsi. Oppure quando l'intero collettivo si difende contro un altro collettivo che lo attacca perché vuole sottometterlo. Le armi difensive, in un territorio che si conosce bene perché ci si vive, non hanno bisogno di essere molto sofisticate. La forza non sta nelle armi in sé, anche perché, prima o poi, vengono copiate. Le spie costano meno degli scienziati.


Web Homolaicus

Foto di Paolo Mulazzani


Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Teoria
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Aggiornamento: 14/12/2018