Davvero la bellezza salverà il mondo?

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DAVVERO LA BELLEZZA SALVERA' IL MONDO?

"La bellezza salverà il mondo", afferma il principe Miškin nell'Idiota di Dostoevskij, ma questa frase ha un'origine platonica. Infatti la bellezza, per Platone, era l'unica idea che poteva manifestarsi, in tutta la sua suggestione, anche ai sensi. Questa manifestazione la chiamava "parusia", un termine che i cristiani useranno per indicare il ritorno trionfale del Cristo sulla Terra. La parusia platonica non aveva un carattere così mistico: era piuttosto una sorta di contemplazione delle idee più perfette nelle cose naturali che appaiono più belle, senza che sia possibile spiegarsene la ragione. Il bello attira in maniera naturale, istintiva e, per poterlo conservare, ci induce a migliorare noi stessi.

Tale corrispondenza tra bellezza esteriore e bellezza interiore (la virtù) era una caratteristica della cultura greca anche prima della filosofia platonica. È già presente nei poemi omerici, p. es. nella figura di Achille. Era indubbiamente una forma d'ingenuità, o forse sarebbe meglio dire una forzatura intellettuale, che noi oggi consideriamo del tutto fuori luogo, in quanto siamo abituati a sospettare di tutto e di tutti. Certo, in una società priva di conflitti di classe forse è anche possibile far coincidere bello e buono, ma già in quella schiavistica del mondo greco sarebbe stato problematico, se non appunto compiendo una forzatura di tipo filosofico.

D'altra parte lo stesso Platone aveva detto che la bellezza può sì coincidere con la bontà, ma solo a condizione ch'essa sia in grado di spingere alla virtù morale chi la contempla. Occorre compiere un processo di purificazione su di sé per essere davvero capaci, contemplando il bello, di apprezzare l'idea di bontà che gli è connessa. La corrispondenza tra bellezza e bontà è piuttosto un obiettivo da perseguire e chi lo persegue purificandosi, praticando l'ascesi, apparirà bello dentro, anche se esteticamente sarà brutto, come lo era Socrate.

Il cristianesimo erediterà questa concezione platonica arrivando addirittura a sostenere la pericolosità della bellezza esteriore in sé, che può essere fonte di tentazioni o di debolezze, capaci di far deviare dal compito della purificazione. Se i santi o la Madonna appaiono belli è perché sono particolarmente virtuosi. Ma la virtù per eccellenza è la croce, che non ha nulla di bello.

Inutile qui ricordare che concezioni analoghe si ritrovano in tutte le religioni, da quelle indo-buddiste a quelle ebraico-islamiche. Il divieto, impartito alle donne, di ostentare la propria bellezza viene spesso usato come forma di discriminazione di genere. Cosa che ovviamente avviene anche nelle società borghesi, ma in forma rovesciata: esaltando all'eccesso proprio quel tipo di bellezza.

Platonismo e cristianesimo sono in realtà due forme di moralismo: l'uno in veste filosofico-individualistica, l'altro in veste teologico-collettivistica. Platone puntava sul filosofo appartenente a una generica polis; il cristianesimo sulla persona comune, strettamente vincolata a una precisa comunità. L'obiettivo del filosofo era quello di giungere alla comprensione delle idee perfette, valide in sé e per sé, poste nell'iperuranio, cioè nell'aldilà. L'obiettivo del cristiano invece è quello di attendere con fiducia il ritorno trionfale di Cristo.

"Parusia" per il cristianesimo non è la semplice contemplazione della bontà nel bello, ma il trionfo definitivo della verità su tutto. Platonismo e cristianesimo sono due forme di moralismo perché inducono a compiere soltanto un lavoro su di sé, nella convinzione che la realtà (o meglio, una parte di essa) si possa modificare in maniera molto indiretta. Non arrivano mai a credere che la realtà sociale, esterna all'uomo, possa davvero modificarsi in senso qualitativo. Le modificazioni sono soltanto quantitative, limitate, circoscritte: l'insieme non migliora mai. Un'esistenza davvero giusta e democratica va al di là delle capacità umane, può essere soltanto il frutto di un intervento esterno.

Questo senso d'impotenza s'è talmente radicato in noi che, anche quando detestiamo la metafisica astratta del platonismo e del cristianesimo - come faceva Heidegger -, non riusciamo a esimerci dal pensare che "solo un dio potrà salvarci". Ecco perché è impossibile credere che le cose possano davvero cambiare finché non ci si libera di ciò che infonde in noi un senso di ingiustificata dipendenza. "Sapere aude!", cioè "Abbi il coraggio di conoscere!" ("servendoti della tua propria intelligenza"), diceva il Kant illuminista, riprendendo un'esortazione oraziana. Peccato però che anche lui fosse quanto meno ingenuo a credere che le cose possono davvero cambiare limitandosi a criticare quelle che non vanno.


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Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Teoria
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Aggiornamento: 14/12/2018