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a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare di Torino

Dizionario enciclopedico marxista


C


Comunismo 

E' la società senza classi. Il comunismo, nella sua forma primitiva, fu l'organizzazione sociale tipica delle prime comunità umane, dove il processo di divisione sociale del lavoro era ancora in una fase del tutto naturale, e i mezzi di produzione erano limitati alle sole mani o a strumenti semplicissimi. In questo periodo storico, secondo il marxismo, gli uomini erano nella condizione della più completa dipendenza dalla natura e mancanza di libertà (libertà e necessità). Tuttavia in questo tipo di società mancava anche quel fenomeno caratteristico di tutte le società che da allora l'umanità ha conosciuto, cioè l'oppressione e lo sfruttamento dell'uomo sull'uomo.

Anche per questo, dal momento della dissoluzione del comunismo primitivo si è manifestata nelle classi oppresse, sia pure in forme estremamente diverse, l'aspirazione alla realizzazione del comunismo. Secondo il marxismo queste aspirazioni possono concretizzarsi solo a condizione che esista una classe che, per la funzione che svolge all'interno della produzione, sia in grado di eliminare radicalmente e definitivamente le differenze di classe. Le condizioni per la nascita di questa classe si sono verificate soltanto con lo sviluppo del capitalismo industriale moderno.

«I primi tentativi fatti dal proletariato per far valere direttamente il suo proprio interesse di classe in un tempo di fermento generale, nel periodo del rovesciamento della società feudale, dovevano di necessità fallire, sia per il difetto di sviluppo del proletariato, sia per la mancanza di quelle condizioni materiali della sua emancipazione, le quali non possono essere che il prodotto dell'epoca borghese.
La letteratura rivoluzionaria che accompagnò questi primi moti del proletariato è, per il suo contenuto, necessariamente reazionaria. Essa insegna un ascetismo universale e una rozza tendenza a tutto uguagliare» (Manifesto, pp. 62-63).

Questo comunismo ancora «rozzo e materiale» non era in generale che «l'espressione conseguente della proprietà privata» e al pari di questa era negazione della personalità umana come è evidente nella pretesa della «comunanza delle donne» il cui unico risultato avrebbe potuto essere soltanto quello di «un rapporto di prostituzione generale con la comunità». Si trattava in sostanza di cupidigia per la proprietà privata più ricca, espressa «sotto forma di invidia e di tendenza al livellamento», nelle forme stesse, dunque, che costituiscono la natura della concorrenza. Il comunismo rozzo è perciò «il compimento di questa invidia e di questo livellamento, la negazione astratta dell'intero mondo della cultura e della civiltà», l'assurdo ritorno alla condizione dell'uomo primitivo.

Dalla critica delle teorie del socialismo e comunismo critico-utopistici, ben diversi dal comunismo rozzo, dell'economia politica inglese e della filosofia classica tedesca (cfr. Lenin, Tre fonti e tre parti integranti del marxismo) Marx ed Engels svilupparono la concezione scientifica del comunismo, che afferma la necessità e la possibilità della sua realizzazione, in base allo studio delle leggi di sviluppo del capitalismo. Marx distinse due fasi del comunismo: una prima fase sviluppata sull'«espropriazione degli espropriatori» o «stato della necessità» in cui a ciascuno è dato secondo il suo lavoro (
Socialismo) e una seconda fase, «stato della libertà», in cui a ciascuno è dato secondo i suoi bisogni. Lenin a questo proposito, nell'affrontare il problema della «fase superiore della società comunista», nel suo libro Stato e Rivoluzione scritto nel settembre del 1917, riporta a pagina 106 un passo della Critica del programma di Gotha di Marx:

«...In una fase più elevata della società comunista, dopo che è scomparsa la subordinazione asservitrice degli individui alla divisione del lavoro, e quindi anche il contrasto di lavoro intellettuale e fisico; dopo che il lavoro non è divenuto soltanto mezzo di vita ma anche il primo bisogno della vita; dopo che con lo sviluppo onnilaterale degli individui sono cresciute anche le forze produttive e tutte le sorgenti della ricchezza collettiva scorrono in tutta la loro pienezza, solo allora l'angusto orizzonte giuridico borghese può essere superato, e la società può scrivere sulle sue bandiere: ognuno secondo le sue capacità, a ognuno secondo i suoi bisogni!».

Un problema centrale, secondo la concezione marxista, per la realizzazione del comunismo è quello di riuscire a determinare nella prima fase le condizioni per la progressiva estinzione dello
Stato. La stessa formulazione del problema fa riferimento, nell'analisi marxista, non alla «distruzione» dello Stato socialista ma alla sua progressiva perdita di funzioni, al cessare delle condizioni storiche ed economiche che ne giustificano l'esistenza.

«Soltanto allora [nella società comunista] diventa possibile e si attua una democrazia realmente completa, realmente senza alcuna eccezione. Soltanto allora la democrazia comincia ad estinguersi, per la semplice ragione che, liberati dalla schiavitù capitalistica, dagli innumerevoli errori, barbarie, assurdità, ignominie dello sfruttamento capitalistico, gli uomini si abituano a poco a poco a osservare le regole elementari della convivenza sociale, da tutti conosciute da secoli, ripetute da millenni in tutti i comandamenti, a osservarle senza violenza, senza costrizione, senza sottomissione, senza quello speciale apparato di costrizione che si chiama Stato» (ivi, p. 99).

Il riferimento all'abitudine non è dovuto alla ovvia difficoltà nello stabilire esattamente quali saranno, nei minimi particolari, i caratteri del comunismo, ma è un tratto distintivo della concezione marxista del comunismo nei confronti di interpretazioni utopistiche (Anarchismo, Socialismo) dello stesso. Infatti l'abitudine all'autogoverno - in altri passi si fa riferimento al costume - fa parte di quel processo generale di riappropriazione da parte dell'uomo della propria coscienza sociale, che può avvenire solo a patto che vengano eliminate le condizioni materiali del prodursi dell'alienazione.

 Concentrazione del capitale 

Processo mediante il quale i mezzi di produzione tendono a essere controllati da pochi «grandi» capitalisti, i quali vengono così a trovarsi nelle condizioni di poter influenzare in modo determinante la produzione e la distribuzione dei profitti. La specializzazione dei sistemi produttivi e le innovazioni tecnologiche sollecitate dalla concorrenza, sono la spinta all'aumento dei fondi a disposizione dei capitalisti, poiché sono le aziende più forti economicamente ad avere la possibilità di acquistare macchinari più efficienti e ad essere nelle migliori condizioni per un efficace andamento del processo di accumulazione.

Questo determina contemporaneamente la necessità di aumentare il volume dei mezzi di produzione a cui consegue un maggior profitto e l'impossibilità della sopravvivenza delle piccole imprese, che sono obbligate ad abbandonare il mercato e ad assoggettarsi o a lasciarsi incorporare dai grandi complessi. Ciò comporta la perdita di indipendenza del piccolo capitale: con la concentrazione del capitale, dice Marx, i capitalisti espropriano i capitalisti. La concentrazione del capitale, che non va confusa col processo di
centralizzazione del capitale, è una delle tappe verso la formazione del capitale finanziario e del capitalismo monopolistico.

Concorrenza

E' una tipica manifestazione delle contraddizione e delle tensioni antagonistiche che, nel modo capitalistico di produzione, si sviluppano in tutti gli ambiti della vita sociale ed economica. Può essere definita, in generale, secondo l'espressione di Hobbes, ripresa da Marx nella Critica alla filosofia hegeliana del diritto pubblico, come «lotta di tutti contro tutti». Le cause e la funzione di questa lotta sono state diversamente interpretate nelle teorie economiche precedenti o estranee all'analisi marxista del capitalismo. Vi fu una concezione, largamente diffusasi nella prima metà del secolo XIX, che considerava la concorrenza come uno stimolo allo sviluppo della produzione e del commercio (Liberismo), e spesso tendeva a sottovalutarne gli effetti negativi e il processo di disgregazione sociale che questo fenomeno comporta.

L'analisi marxista del processo complessivo della produzione capitalistica mostra che la concorrenza viene necessariamente generata dalle modalità stesse di
accumulazione e riproduzione del capitale ed è in stretto rapporto con la tendenza alla diminuzione del saggio del profitto. Infatti questa lotta, che si manifesta - in gran parte indipendentemente dalla volontà singola di coloro che la conducono - come necessaria per la stessa sopravvivenza non solo tra i capitalisti, ma tra tutti i componenti della società, trae origine dall'insieme delle condizioni generali di produzione che il capitale determina per la sua continua autovalorizzazione. Secondo Marx

«...lo sviluppo della produzione capitalistica rende necessario un aumento continuo del capitale collocato in un'impresa industriale, e la concorrenza impone a ogni capitalista individuale le leggi immanenti del modo di produzione capitalistico come leggi coercitive esterne. Lo costringe ad espandere continuamente il suo capitale per mantenerlo, ed egli lo può espandere soltanto per mezzo dell'accumulazione progressiva» (Il Capitale, libro I, p. 648).

La concorrenza è, accanto al credito, un potente meccanismo del processo di centralizzazione del capitale; tuttavia il regime di concorrenza, nel modo di produzione capitalistico sviluppato, sfugge in un certo senso al controllo degli stessi detentori del potere economico e si presenta ad. essi e a tutta la società come una forza incontrollabile che livella i profitti così come il consumo, e appare come condizione dello sviluppo in generale e non come risultato di un certo tipo di sviluppo.

In seguito alle gravi
crisi di sovrapproduzione e in particolare a fenomeni di sovrapproduzione cronica generale provocati dagli squilibri caratteristici di una prima fase dello sviluppo del capitalismo, detta anche di libera concorrenza, si verificarono dei tentativi di superare almeno nelle sue manifestazioni più evidenti i guasti provocati dallo sviluppo indiscriminato della concorrenza attraverso l'organizzazione di cartelli e monopoli.

Tuttavia, secondo l'analisi marxista, la concorrenza e gli squilibri che essa genera si riproducono nel capitalismo monopolistico in forma ulteriormente aggravata e la scomparsa di questa lotta può avvenire soltanto attraverso il passaggio a un'organizzazione socialista della produzione (
Socialismo).

Concreto e astratto

Nell'opera di Marx tale rapporto acquista un significato specifico nella critica dell'economia politica borghese e nell'analisi dei modelli teorici adatti alla comprensione scientifica della società capitalistica e dei suoi meccanismi.

In particolare nella Introduzione alla critica dell'economia politica del 1857, Marx presenta i criteri generali di metodo seguiti nella sua opera. Il punto di partenza è la negazione dell'affermazione secondo la quale il metodo dell'indagine scientifica procede, nella conoscenza e riproduzione del reale, dal dato di fatto, dal concreto empirico. Per Marx è ben vero che il pensiero procede dal reale, attraverso l'intuizione e la rappresentazione sensibile, ma la realtà nella sua concretezza non deve confondersi con quel concreto del pensiero che appare appunto come prodotto di un procedimento che necessariamente muove da una razionale astrazione degli elementi che costituiscono il reale.

«Il concreto è concreto perché è sintesi di molte determinazioni, quindi, unità del molteplice. Per questo esso appare nel pensiero come processo di sintesi, come risultato e non come punto di partenza, sebbene esso sia il punto di partenza effettivo e perciò anche il punto di partenza dell'intuizione e della rappresentazione» (Marx, Introduzione a per la critica dell'economia politica, p. 38).

Marx quindi rivaluta, contro l'empirismo, l'uso dell'astrazione. Le scienze non hanno come punto di partenza del proprio procedimento la realtà così come essa si presenta nella sua immediatezza, ma partono invece astraendo da questa i suoi elementi costitutivi, per poi riprodurla nella teoria, proprio mettendone «in luce i nessi, le priorità, i processi. La critica di Marx però si rivolge al tempo stesso al procedimento idealistico, in particolare di Hegel, per cui il processo di astrazione del pensiero giunge a identificarsi con la formazione del reale stesso. Ciò conduce all'illecita estensione del procedimento per cui la produzione dell'astrazione diventa proprio la produzione della realtà e non invece l'adeguamento delle scienze alle strutture reali oggettive. Quindi Marx afferma:

«... il metodo di salire dall'astratto al concreto è solo il modo in cui il pensiero si appropria il concreto, lo riproduce come un che di spiritualmente concreto. Ma mai e poi mai il processo di formazione del concreto stesso» (ivi, p. 38).

Ecco quindi che le osservazioni di Marx sulla dialettica che si svolge tra astratto e concreto nel procedimento del pensiero acquistano un significato fondamentale. Da una parte la realtà nella sua concretezza viene mantenuta come presupposto oggettivo e materiale della conoscenza, cioè «continua a sussistere tanto prima che dopo nella sua indipendenza, fuori del pensiero», ma al con tempo diviene fondamento di un processo conoscitivo che, partendo dall'astrazione degli elementi del reale, giunge a produrre nel pensiero un proprio oggetto. In altre parole il riconoscimento oggettivo del reale porta a riconoscere il carattere concreto e determinato anche dei processi di astrazione e dei modi della conoscenza teorica, a concepire «l'attività umana stessa come attività oggettiva». Da qui la necessità di integrare la funzione positiva dell'astrazione con gli elementi storicamente determinati dello sviluppo del reale. Solo così si può arrivare a una visione della totalità che non commetta l'errore di sovrapporre la rappresentazione logica del reale e il reale stesso, e che riconosca nel sapere un carattere storico e pratico. Alla concretezza nell'indagine scientifica non si arriva attraverso la negazione di ogni livello di astrazione teorica: ciò porta non già alla comprensione del reale, ma al contrario all'empirismo vuoto di pensiero. Così il richiamo a una presunta analisi concreta che dimentica l'importanza della teoria non significa la comprensione reale dei problemi concreti, quanto piuttosto il loro misconoscimento attraverso un piatto adeguamento a ciò che esiste. Non inserire una situazione concreta nel quadro complessivo teorico che ne può indicare le condizioni, i limiti, i modi del suo sviluppo, non vuol dire comprendere la realtà per ciò che è, bensì accettarne i presupposti, senza prefigurarne il superamento.

Contraddizione

Indica l'esistenza di elementi incompatibili o comunque contrastanti all'interno di un pensiero, di un fenomeno, di una qualsiasi situazione concreta; nelle opere di autori marxisti si parla con frequenza di contraddizioni esistenti a ogni livello e in ogni campo di indagine e ciò dipende dal modo dialettico, proprio del marxismo, di affrontare i più diversi argomenti (Dialettica).

Osserva Engels che se «consideriamo le cose in stato di riposo e prive di vita, ciascuna per sé, l'una accanto all'altra, l'una dopo l’altra, è certo che in esse non incontreremo nessuna contraddizione»; il modo di pensare «metafisico» è allora adatto alla conoscenza di quelle cose proprio perché di loro non interessano antro che notizie frammentarie, isolate dall'insieme e senza connessioni reciproche. «Ma è invece tutt'altra cosa allorché consideriamo le cose nel loro movimento, nel loro cambiamento, nella loro vita, nella loro azione reciproca. Qui cadiamo subito in contraddizioni».

Ogni forma di sviluppo, di trasformazione, di moto si svolge dunque sotto il segno della contraddizione: per non vederla occorre un atteggiamento preconcetto che immagini la realtà come immobile ed eterna e che non voglia considerare questa nella sua complessa mutevolezza. Il cambiamento è infatti il prodotto delle contraddizioni di ciò che cambia, la loro dissoluzione e l'apertura di una nuova fase che ha superato le contraddizioni precedenti e ne pone di nuove e di diverse: tanto nelle piccole quanto nelle grandi cose, tanto nei fenomeni naturali quanto nelle vicende della storia, nei processi che si svolgono nella mente dell'uomo come in quelli che si verificano nella sfera dell'economia.

Esempi classici di contraddizioni studiati attentamente in seno al marxismo sono quelli tra la forma sociale della produzione e la proprietà privata dei mezzi per attuarla, tra valore d'uso e valore di
scambio della merce, tra città e campagna, ecc.

La consapevolezza della contraddizione e il suo studio nelle specifiche situazioni non è soltanto uno degli strumenti di conoscenza che hanno permesso la fondazione dell'analisi marxista della storia e della società, ma anche uno dei modi pratici per evitare giudizi superficiali o schematici sulle questioni relative alla lotta politica. In questo campo l'opera di Lenin è stata veramente rilevante: per esempio nel denunciare la tendenza a pensare il nemico di classe come un blocco omogeneo e compatto, libero da contraddizioni interne utilizzabili per la sua sconfitta.

Sul significato della contraddizione esiste anche uno scritto di Mao-Tsetung che ha sollevato nei tempi recenti notevole interesse (
Maoismo).

Controrivoluzione 

Ogni attività tendente a soffocare un processo rivoluzionario. L'esperienza storica e politica indica come la lotta della classe operaia e l'avanzamento del processo rivoluzionario si accompagnino sempre a spinte opposte da parte della borghesia e delle forze reazionarie. In particolare in quei paesi dove la lotta per il socialismo ha portato la classe operaia al potere, i tentativi controrivoluzionari operati dai settori della borghesia sconfitta e delle forze imperialistiche costituiscono la più grave minaccia, come già indicò Lenin, per la costruzione del socialismo e per lo sviluppo di una reale democrazia proletaria.

L'insegnamento che nel socialismo continuano a esistere le classi e la lotta di classe, e che da ciò deriva la necessità di promuovere la lotta di classe in ogni campo e all'interno stesso del partito, individuando le forme nuove attraverso le quali essa si sviluppa, costituisce la più valida indicazione per la sconfitta di ogni minaccia controrivoluzionaria.

Un esempio storico di tentativo controrivoluzionario è quello messo in atto in Russia, a partire dal 1917, da varie formazioni politiche reazionarie che contrastarono in ogni modo, compreso quello militare, l'affermarsi del potere sovietico, trascinando il paese in una lunga guerra civile.

Cooperativismo

E' la tendenza alla creazione di associazioni di produttori (cooperative di produzione) o di consumatori (cooperative di consumo) che determinino forme di collaborazione e di controllo nella produzione o distribuzione delle merci. Le condizioni per il sorgere di una forte tendenza alla formazione di cooperative sono determinate in primo luogo dal carattere sociale della produzione in generale, che è una delle caratteristiche fondamentali del capitalismo.

La nascita di un vero e proprio movimento cooperativo avvenne solo in seguito alla comprensione da parte degli stessi produttori e consumatori della necessità di attribuire alla cooperazione finalità diverse da quelle di un semplice aumento della produttività o di un semplice aumento delle possibilità di consumo. Il cooperativismo sorse infatti, dapprima nel consumo e in seguito si estese ai settori produttivi, quali l'agricoltura, come il tentativo di contrastare le tendenze alla disgregazione e alla
concorrenza tra gli stessi produttori e consumatori, che pure sono determinate dalle leggi generali di sviluppo del capitalismo. Per questo motivo il movimento operaio, nel corso della sua storia, ha sempre più cercato di ampliare le basi del movimento cooperativo, che nel secolo XX ha assunto dimensioni notevoli, tali da incidere in misura rilevante nel processo complessivo della produzione e della distribuzione. Lenin attribuì un'importanza notevolissima alle cooperative considerandole come elementi fondamentali per la stessa edificazione del socialismo, anche perché possono svolgere, qualora siano impostate secondo principi che tendono a realizzare «una battaglia per l'inventario e il controllo popolare», una funzione educativa e di abitudine alla collaborazione cosciente che è uno dei presupposti per la realizzazione del socialismo.

Tuttavia, nel capitalismo, oltre al manifestarsi di tendenze che contrastano direttamente lo sviluppo del cooperativismo, come la stessa crescente centralizzazione e
accumulazione del capitale che pone nelle mani di pochi capitalisti tutto il potere decisionale per quanto riguarda la produzione e la distribuzione delle merci, si verificano spesso fenomeni involutivi, interni allo stesso movimento cooperativo, che tendono a integrare le cooperative nel quadro generale delle esigenze di sviluppo del capitale, privandole della loro funzione storica e riducendole a semplici associazioni assistenziali.

Cooperazione

Il termine compare ne L'Ideologia tedesca per indicare molto generalmente il carattere collettivo della produzione e la conseguente ripartizione delle mansioni al suo interno; in questo primo significato è strettamente connesso con il concetto di divisione del lavoro.

Nel Capitale il termine viene ad assumere un significato molto più preciso, che Marx illustra in questa definizione:

«la forma del lavoro di molte persone che lavorano l'una accanto all'altra e l'una assieme all'altra secondo un piano in uno stesso processo di produzione o in processi di produzione differenti ma connessi si chiama cooperazione» (Il Capitale, libro I, p. 367).

Come si vede sono in tal modo descritte le condizioni necessarie per l'esecuzione di un lavoro da parte di più persone, cioè per un lavoro «combinato» costituito dalle prestazioni organizzate di più operai.

Il riferimento al processo di produzione compiuto in una fabbrica appare evidente; qui «il carattere cooperativo del processo lavorativo diviene dunque necessità tecnica imposta dal mezzo di lavoro stesso».

La cooperazione come viene descritta da Marx è dunque un fatto ben diverso da quello cui ci si riferisce nel linguaggio comune che utilizza il termine in stretto rapporto col movimento delle cooperative o
cooperativismo; in un caso è una situazione tecnico-organizzativa presente in ogni industria moderna, nell'altro una forma di lavoro associato che tende a sottrarsi al dominio del capitale.

Corporativismo

Dottrina fondata sull'intervento diretto dello Stato nella repressione della lotta di classe; la parola deriva da corporazione, libera associazione professionale e di mestiere, operante fin dai tempi dell'antichità romana. Le corporazioni svolsero per molto tempo un ruolo altamente positivo nello sviluppo della società, ma già a partire dal XVIII secolo cominciarono a rivelarsi istituzioni antiquate, ostacolanti lo sviluppo economico tanto che nel 1791 in Francia (legge Chapelier) e nel 1799 in Inghilterra (Combination Laws) dovettero essere soppresse per le difficoltà che frapponevano al nuovo modo di produzione.

L'espansione del capitalismo industriale non mancò di suscitare rimpianti per il mondo preindustriale o, come fu anche chiamato, per la «società organica»; la vecchia idea della corporazione fu rielaborata e divenne alla fine dell'800 il nucleo della neonata dottrina sociale dei cattolici tendente a ricercare una via di mezzo tra le esigenze del capitalismo liberale e l'incalzare del socialismo classista. Il tentativo fallì completamente in quanto nonostante la vernice democratica che prevedeva, tra l'altro, l'elezione diretta dei dirigenti delle varie categorie produttive, la credibilità di un'operazione diretta a separare la lotta di classe in due componenti rigorosamente distinte, una interna all'impresa capitalistica e l'altra sul terreno dello Stato e delle istituzioni, si rivelò pressoché nulla.

Mentre i cattolici rinunciavano all'idea corporativistica nuove forze politiche se ne impadronivano: in Italia, nazionalisti prima e fascisti poi; le remore democratiche spariscono e il sistema corporativo viene immaginato come un organismo rigidamente strutturato secondo criteri gerarchici e burocratici sotto il controllo e la direzione dello Stato autoritario. Di fatto, come è ben noto, il fascismo eliminò le libertà sindacali, impose un unico sindacato per i lavoratori ma lo mantenne distinto dalle organizzazioni degli imprenditori facendone in pratica uno strumento per bloccare qualsiasi rivendicazione.

Logico risultato di atteggiamenti interclassisti, il corporativismo è, come si è detto, un modo per contenere la lotta di classe a tutto vantaggio della classe al potere e, nelle sue forme meno brutali, pretende di sostituire la conflittualità sul piano economico con la solidarietà tra coloro che fanno lo stesso tipo di lavoro, la lotta di classe con qualche armonica composizione dettata dall'alto, lo scontro ideologico con la comune fede nella superiore essenza dello Stato.

Coscienza di classe

Il concetto di coscienza di classe non è separabile da quello di classe e di lotta di classe, e ciò per la centralità del nesso teoria-prassi in tutto il pensiero marxiano e nel marxismo posteriore. Infatti, secondo Marx, nel momento in cui la divisione sociale del lavoro produce la sua forma estrema, cioè la divisione tra lavoro materiale e lavoro spirituale «... la coscienza può realmente figurarsi di essere qualcosa di diverso dalla coscienza della prassi esistente, concepire realmente qualche cosa, senza concepire alcunché di reale».

Gli elementi che concorrono alla formazione di una classe, primo la situazione economica come dato della classe in sé, quindi l'organizzazione politica e la consapevolezza della propria funzione storica, come dati della classe per sé, possono essere messi in relazione con fasi formative della coscienza di classe; il che non indica uno sviluppo graduale di questa nel tempo, anche se talvolta ciò può avvenire, ma il modo di porsi della coscienza nella storia. Né d'altro canto questa coscienza è riducibile al semplice dato di una psicologia collettiva; non si tratta cioè, nel caso del proletariato, della somma delle idee che i singoli lavoratori sviluppano sulle loro specifiche condizioni, ma della consapevolezza che il contrasto degli interessi sul piano economico e quindi sul piano sociale è lotta politica, lotta di classe organizzata per la soppressione degli attuali rapporti di dominio. Per usare le parole di Marx:

«Ciò che conta è che cosa esso [il proletariato] è e che cosa esso sarà costretto storicamente a fare in conformità a questo suo essere. Il suo fine e la sua azione storica sono indicati in modo chiaro, in modo irrevocabile, nella situazione della sua vita e in tutta l'organizzazione della società civile moderna» (La sacra famiglia, in Opere IV, p. 38).

Il rapporto coscienza-situazione di classe, che per il proletariato è in linea teorica il più semplice e immediato, assume in concreto una forma complessa; la struttura della società capitalistica appare infatti alla coscienza come una «pluralità» di cose singole, prive di relazioni. Tra queste la separazione della sfera economica dalla sfera politica si rivela come la più pericolosa dal punto di vista della lotta di classe: il soddisfacimento dei bisogni immediati come fine e non come mezzo della lotta, tipico di certi aspetti del revisionismo e latente in tutti i movimenti sindacali, porta la classe operaia a «dimenticare che essa lotta contro gli effetti, ma non contro le cause di quegli effetti; che essa applica soltanto dei palliativi, ma non cura la malattia». Alla autentica coscienza di classe si impone invece il problema del legame che intercorre tra interesse immediato e scopo finale, che, nel caso del proletariato, è la fondazione della società senza classi, e quindi la necessità di condurre la lotta organizzata anche a livello politico; allora la sfera politica apparirà alla coscienza nella sua vera natura di espressione dei rapporti economici.

«La coscienza politica di classe può essere portata all'operaio solo dall'esterno, cioè dall'esterno della lotta economica, dall'esterno della sfera dei rapporti tra operai e padroni. Il solo campo dal quale è possibile attingere questa coscienza è il campo dei rapporti di tutte le classi e di tutti gli strati della popolazione con lo Stato e con il governo, il campo dei rapporti reciproci di tutte le classi» (Lenin, Che fare?, p. 115).

Secondo Lenin quindi questa coscienza, cioè la «coscienza politica socialista», non può essere raggiunta dalla classe operaia direttamente, ma si sviluppa con l'apporto della conoscenza della teoria rivoluzionaria, cioè del marxismo; intermediario fra la teoria e il movimento è il partito, che si presenta in una prima fase come il portatore «dall'esterno» della coscienza di classe e in una seconda fase come l'elaboratore della teoria stessa, che deriva in questo caso dalla riflessione diretta sulle lotte politiche, economiche e sociali.

La coscienza politica è infine per il proletariato coscienza del proprio ruolo storico, cioè della funzione rivoluzionaria che nell'ambito della storia umana esso è destinato ad assolvere. Il proletariato è infatti la

«classe che forma la maggioranza di tutti i membri della società e dalla quale prende le mosse la coscienza della necessità di una rivoluzione che vada al fondo, la coscienza comunista» (Marx, L'ideologia tedesca, in Opere V, p. 37).

In Lukács il concetto di coscienza di classe subisce un ulteriore allargamento; all'interno della società capitalistica la lotta sociale è vista come una lotta ideologica per «l'occultamento o il disvelamento» della base classista. La borghesia è costretta a mascherare attraverso l'ideologia la sua reale funzione di classe dominante, mentre il proletariato in quanto classe che tende alla soppressione di tutte le classi, non ha bisogno di mascheramenti, è una coscienza «pura», perciò «... il destino della rivoluzione (e con esso quello dell'umanità) dipende dalla maturità ideologica del proletariato, dalla sua coscienza di classe».

Cosmopolitismo

Nel linguaggio marxista viene solitamente preferito al termine cosmopolitismo quello di internazionalismo proletario, per sottolineare gli aspetti antinazionalisti della concezione marxista dei rapporti tra i popoli di diverse nazioni. intatti il significato di cosmopolitismo, di derivazione illuministica, viene piuttosto riferito a un ideale di superamento delle nazionalità indipendentemente dalla valutazione delle condizioni politiche, economiche e, in generale, storiche che possono determinarlo, mentre l'accezione internazionalismo proletario meglio si adegua agli obiettivi storici generali della classe operaia e, in ultima istanza, al superamento dei confini nazionali dovuto all'estinzione delle classi e dello Stato (Comunismo).

Costituzione

Il termine ha diversi significati: il più frequente è quello che si definisce «strumentale» e indica l'atto scritto, il documento che sanziona il complesso fondamentale delle norme giuridiche vigenti in uno Stato; in questo senso può essere sinonimo di Statuto. Nel suo significato «empirico» indica il modo di essere dello Stato nei suoi ordinamenti fondamentali: in questa accezione, la parola costituzione veniva già usata dai politici dell'Età Antica e del Medio Evo.

A tale termine si ricollegano anche le recenti teorie che fanno coincidere, almeno in parte, il concetto dell'ordinamento giuridico dello Stato con le istituzioni, intese come aspetto oggettivo della sua organizzazione. Il significato «materiale» del termine si riferisce al complesso delle norme giuridiche fondamentali, che formano l'ordinamento dello Stato. In questo senso, quindi, il tèrmine equivale a «diritto costituzionale».

Come insieme delle norme giuridiche la costituzione registra, nel linguaggio che le è proprio, e sancisce, sotto la forma di norme statuali, le esigenze economiche e politiche delle classi dominanti, determinando le condizioni giuridiche per la conservazione della loro
egemonia.

Le costituzioni inoltre, limitandosi alla enunciazione di principi, non contengono possibilità attive di assicurare che gli stessi siano operativi: è noto, ad esempio, come la dichiarazione che il cittadino è «uguale» di fronte alla legge, non significa che davanti a un giudice vengano realizzate di fatto le condizioni di uguaglianza dichiarate in linea di principio.

Crisi economica

E' il verificarsi di condizioni che determinano una perturbazione o la paralisi temporanea nel processo di produzione. Può investire il processo produttivo nel suo complesso o manifestarsi in un settore particolare dello stesso.

Già la scuola classica dell'
economia politica aveva individuato nelle crisi un fenomeno caratteristico del capitalismo. Tuttavia le cause che conducevano al verificarsi di crisi periodiche, la funzione che queste crisi assumevano nel quadro generale dello sviluppo del capitalismo restarono in gran parte sconosciute ai fondatori dell'economia politica. Marx affrontò il problema delle crisi conducendo sia una critica complessiva del modo di produzione capitalistico che la critica dell'economia politica classica. Secondo l'analisi marxista la crisi è il manifestarsi di un limite, di una contraddizione nel modo capitalistico di produrre, e al tempo stesso costituisce una parziale e temporanea soluzione degli squilibri e delle contraddizioni che lo sviluppo stesso del capitalismo comporta.

«La contraddizione, esposta in termini generali, consiste in questo: la produzione capitalistica racchiude una tendenza verso lo sviluppo assoluto delle forze produttive, indipendentemente dal valore e dal plusvalore in esso contenuto, indipendentemente anche dalle condizioni sociali nelle quali essa funziona; ma nello stesso tempo tale produzione ha come scopo la conservazione del valore-capitale esistente e la sua massima valorizzazione (vale a dire l'accrescimento accelerato di questo valore). Per la sua intrinseca natura essa tende a considerare il valore-capitale esistente come mezzo per la massima valorizzazione possibile di questo valore» (Il Capitale, libro III, p. 302).

L'enorme sviluppo delle forze produttive, caratteristico del capitalismo industriale, non è controllato e organizzato in relazione alle esigenze e agli effettivi bisogni della società, ma in seguito alle condizioni di valorizzazione del capitale. In conseguenza a ciò, a un determinato grado di sviluppo del processo di produzione, si verifica una sovrapproduzione relativa di capitale, nella forma sia di mezzi di produzione che di merci, che non sono più in condizione di fornire plusvalore in una proporzione «adeguata» (cioè sempre maggiore) alle esigenze di sviluppo del capitale stesso. Descrivendo il limite del modo capitalistico di produzione Marx afferma:

«L'estensione o la riduzione della produzione non viene decisa in base al rapporto fra la produzione e i bisogni sociali, i bisogni di un'umanità socialmente sviluppata, ma in base all'appropriazione del lavoro non pagato e al rapporto fra questo lavoro non pagato e il lavoro oggettivato in generale o, per usare un'espressione capitalistica, in base al profitto e al rapporto fra questo profitto e il capitale impiegato, vale a dire in base al livello del saggio di profitto» (ivi, p. 312).

Analogamente lo sviluppo irrazionale di alcuni settori della produzione determina, quando vengono a cessare le condizioni di valorizzazione del capitale impiegato nei settori divenuti inutili - dal punto di vista capitalistico - in seguito a sovrapproduzione, una sovrappopolazione relativa, cioè un eccesso di offerta di forza-lavoro in quei settori. Le crisi sono, in generale, lo strumento attraverso il quale, nel modo capitalistico di produrre, viene ristabilito l'equilibrio tra capitale impiegato e profitto realizzato, attraverso la distruzione delle forze produttive che risultano in eccesso in seguito alla sovrapproduzione e alla sovrappopolazione relative. Nei «periodi» di crisi si verifica una generale restrizione dei consumi:

«Precisamente perché solo in questo nesso, specificamente capitalistico, il prodotto in eccesso riveste una forma tale che colui che lo possiede può metterlo a disposizione del consumo unicamente quando esso si riconverte per lui in capitale» (ivi, p. 311).

Restrizione che si accompagna all'espulsione dal processo produttivo di ingenti masse di lavoratori.

Le crisi, pur essendo collegate a questa contraddizione fondamentale tra carattere sociale della produzione e proprietà privata dei mezzi di produzione, hanno assunto, soprattutto nel XX secolo, caratteristiche alquanto diverse dalle crisi decennali di sovrapproduzione dell'Ottocento, in seguito allo sviluppo del
capitalismo monopolistico e dell'imperialismo, hanno avuto come «fattori scatenanti» anche motivi di carattere finanziario. Tuttavia, secondo l'analisi marxista, permangono le stesse motivazioni di fondo e gli stessi fenomeni speculativi, di concorrenza spietata e realizzazione di superprofitti che erano immediatamente evidenti nelle crisi periodiche del 1800.

Gli Stati moderni sono in grado di utilizzare strumenti più efficaci di quelli impiegati nell'Ottocento per risolvere o tentare di risolvere le crisi economiche nella nostra epoca. Tra questi vi sono provvedimenti diventati ormai tradizionali, anche se di volta in volta vengono presentati con etichette diverse. Il primo consiste nell'aumento delle imposte indirette. Ciò produce, tra l'altro, un rialzo generale dei prezzi di vendita delle merci, che determina una diminuzione dei redditi reali, non già in rapporto al reddito complessivo, ma al reddito destinato all'acquisto dei beni che sono soggetti all'aumento di imposta. La conseguenza più ovvia che ne deriva è una riduzione del salario reale in quanto la parte maggiore dei salari è spesa nell'acquisto di tali beni. Invece l'aumento generalizzato dei prezzi dei generi di prima necessità non incide, se non in minima parte, sui redditi più alti.

Il secondo provvedimento è basato sull'emissione in eccesso di banconote, cioè su una politica inflazionistica controllata. I pagamenti con carta moneta svalutata producono, in generale, gli stessi effetti di rialzo dei prezzi e di riduzione del salario reale che si verificano con l'aumento delle imposte indirette. In entrambi i casi si tratta di provvedimenti che rafforzano lo Stato e le classi che questo rappresenta, indebolendo oggettivamente il movimento operaio, e aggravano le condizioni di vita dei lavoratori.

Cultura

Questo termine è utilizzato in almeno tre significati diversi legati tra loro in vario modo.

1) Per indicare il patrimonio personale di conoscenze e di riflessioni sulle stesse, che nel loro insieme contribuiscono a formare la personalità dell'individuo. In questo caso il termine rinvia al livello di istruzione di una persona pur non volendo limitarsi a ciò. E' esemplificabile da espressioni del tipo «persona di grande cultura», che indicano non soltanto la quantità di conoscenze ma anche le loro conseguenze sul piano del comportamento, del gusto, ecc.

2) Per indicare l'insieme delle conoscenze, delle opere, degli atteggiamenti critici e, talvolta, delle istituzioni relative a un dato campo delle attività creative (artistiche, scientifiche, ecc.) o a un loro periodo. Questo significato si trova in espressioni del tipo «cultura storica», «cultura matematica», «cultura classica», ecc., e in quelle del tipo «la cultura italiana del dopoguerra» e altre consimili.
«Cultura marxista» rientra solitamente in questo significato e intende riferirsi non solo agli studi e alle discussioni sul marxismo, ma anche al clima politico ed etico che le alimenta.

3) Per indicare tutte quelle attività - dalle tecniche di lavoro ai riti, dalle usanze generali alle istituzioni, dalle arti alle leggende - che contraddistinguono nel loro insieme una comunità umana. Questo si ritrova nelle espressioni del genere «la cultura dravidica», «la cultura degli Irochesi», ecc. A questo senso ci si riferisce quando, parlando del marxismo, si dice che è una trattazione critica della cultura di un'epoca.

Si è detto che questi tre significati della parola cultura, ai quali è possibile aggiungerne altri, con diverse sfumature, sono legati tra loro; il legame tra il primo e il secondo significato è evidente in quanto ambedue si riallacciano al livello di istruzione necessario per poter parlare di cultura in questo senso. Nel significato più corrente non si definisce «colta» una persona che non sia istruita né, d'altra parte, si parla di cultura storica senza le relative conoscenze che si acquisiscono soltanto attraverso lo studio. Infine questi due significati sono uniti anche dal segno positivo che li accomuna: contengono cioè un giudizio di
valore che manca invece nel terzo significato della parola. Qui la connessione con gli altri due è data dal comune rinvio a qualcosa di più del semplice elenco delle conoscenze raggiunte da un popolo cioè al loro riflettersi in usanze, atteggiamenti, schemi di comportamento; il sapere o la religione degli Irochesi, in altri termini, non vengono identificati con la loro cultura.

Queste distinzioni e affinità servono a comprendere il significato di espressioni come cultura «borghese», cultura «subaltema», ecc.

Nell'antichità esisteva una concezione aristocratica della cultura che prendeva atto dell'esistenza di una minoranza «colta» e di una maggioranza «incolta» e fissava per la prima un certo codice di comportamento che le persone colte, e non altri, erano tenute ad osservare. Nell'epoca del dominio della borghesia le cose cambiano e la cultura diventa un valore supremo al quale tutti, indiscriminatamente, sono tenuti a inchinarsi: la bellezza dell'anima, la libertà dello spirito, la fratellanza universale, la grandezza dell'arte diventano un regno autonomo distaccato dal mondo materiale e superiore alle sue miserie.

La contraddizione fondamentale della cultura borghese, al di là delle variazioni, delle preferenze e degli orientamenti, è data dall'esistenza accanto a questa sua pretesa di universalità che vincola tutti senza eccezione a riconoscere un superiore valore, dell'oppressione di grandi masse escluse di fatto dall'istruzione e dalle altre condizioni necessarie per accedere a questo mondo dei grandi valori. Essa riproduce fedelmente nello specifico ambito della cultura le contraddizioni di fondo di una classe che aveva promesso libertà, uguaglianza, benessere per tutti mentre la sua stessa esistenza poteva essere assicurata solo dalla loro negazione per i più.

Di questa riproduzione parla concisamente Marx in un celebre passo dell'Ideologia tedesca:

«Le idee della classe dominante sono in ogni epoca le idee dominanti; cioè, la classe che è la potenza materiale dominante della società è in pari tempo la sua potenza spirituale dominante. La classe che dispone dei mezzi della produzione materiale dispone con ciò, in pari tempo, dei mezzi della produzione intellettuale, cosicché ad essa in complesso sono assoggettate le idee di coloro ai quali mancano i mezzi della produzione intellettuale» (in Opere V, p. 44).

La cultura borghese compie al suo interno un processo di assolutizzazione uguale a quello che la borghesia ha compiuto sul suo ruolo storico: costruisce l'
ideologia di sé stessa, spaccia per eterno ciò che è proprio di un periodo della storia e quindi transitorio; così come la borghesia scambia la fine del modo di produzione capitalistico per la fine di ogni produzione, essa pensa che la fine della sua cultura di classe sia la fine di ogni cultura.

La consapevolezza del carattere classista della cultura borghese è ben altra cosa del rifiuto dei prodotti intellettuali - le scienze, le arti, le attività creative di ogni genere - sui quali e attraverso i quali essa si è sviluppata; una cosa alla quale né Marx né Engels avevano mai neppure vagamente pensato, così come mai avrebbero potuto pensare che il grano non dovesse essere più coltivato perché intorno alla sua coltivazione era cresciuta l'economia agraria borghese. L'esistenza di questa cultura di classe nell'esercizio del suo dominio non giustifica quindi posizioni di rifiuto che sono semplicemente variazioni sul tema borghese della fine della cultura con la fine della borghesia.

Il problema che si pone è insieme quello della cultura subalterna e quello dell'appropriazione di prodotti della cultura dominante. Il primo non deve sollevare illusioni: la cultura del proletariato è una cultura subalterna fino a quando il proletariato resta una classe subalterna. Cosa significa in questo caso cultura subalterna? Significa che per motivi storici essa non ha potuto esprimere dal proprio seno una cultura capace di alimentare prodotti intellettuali o - come dice spesso Marx - spirituali di livello paragonabile a quelli della classe finora dominante.

Non bisogna confondere il marxismo in quanto teoria critica della società capitalistica divenuto poi «coscienza teorica» del proletariato con un prodotto della cultura di questa classe : queste idealizzazioni costituiscono una fuga dalla realtà che ha sempre effetti negativi. Scriveva Lenin in proposito:

«La cultura proletaria non è qualcosa che sbuchi fuori da chissà dove, non è un'invenzione di coloro che se ne dicono specialisti. La cultura proletaria deve consistere nello sviluppo sistematico di tutto il sapere che l'umanità ha elaborato» (I compiti delle associazioni giovanili. In Sulla gioventù e sulla scuola, p. 79).

Così dunque come si appropria dei mezzi di produzione materiale, il proletariato si appropria dei mezzi di produzione spirituale; la classe subalterna diventa, nella fase di passaggio alla società senza classi, classe dominante e la sua cultura segue lo stesso destino. Solo quando la «liberazione del genere umano» sarà compiuta, solo quando sarà abolita la divisione sociale del lavoro, allora non ci saranno più pittori «ma uomini che, tra l'altro, dipingono anche».