LA FILOSOFIA ELLENISTICA E LA NASCITA DEL CRISTIANESIMO

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LA FILOSOFIA ELLENISTICA E LA NASCITA DEL CRISTIANESIMO

DAL MONDO ELLENICO A QUELLO ELLENISTICO

Ellenismo (I-II-III) - Quadro storico 1 - Quadro storico 2 - Quadro storico 3 - Considerazioni

Inquadramento storico culturale

La filosofia ellenistica, di origine greca, si sviluppa dalla morte di Alessandro Magno (323 a.C.) alla conquista romana dell'Egitto (30 a.C.). Già ampiamente diffusa in oriente grazie ai Macedoni, tale filosofia verrà trapiantata in tutto l'impero romano, giungendo sino al III sec. d.C.

Ma forse sarebbe meglio dire che l'ultimo periodo dell'Ellenismo (post-ellenismo), quello della filosofia neoplatonica, sopravviverà sino al 527-529, quando un decreto dell'imperatore Giustiniano farà chiudere l'Accademia (platonica) di Atene, imponendo la totale distruzione dell'Ellenismo, anche nella vita civile. Il cristianesimo, ovunque trionfante, procederà alla demolizione dei templi, dei riti, ecc., compiendo gravi persecuzioni, anche di uomini altolocati. In questo modo finisce la filosofia veramente greca: Boezio, un cristiano di cultura ellenica vissuto alla corte dell'ostrogoto Teodorico, non ne è che un tardo epigono.

L'Ellenismo è una cultura che unisce un'istanza universalistica sul piano etico a un certo riflusso delle idee politiche verso posizioni conformistiche. Infatti la fine dell'impero alessandrino non comportò un ritorno alla democrazia, ma semplicemente la continuazione degli stessi metodi autoritari su scala ridotta, quella appunto dei regni ellenistici. Questo fino a quando non emerse la potenza imperiale romana, che diede a quella filosofia (o meglio, a una sua corrente, quella stoica) un respiro di nuovo universale.

Nella sua fase iniziale la filosofia ellenistica si scinde in due correnti relativamente opposte, quella stoica e quella epicurea, che si danno proprie scuole, dove l'insegnamento impartito è piuttosto dogmatico e dove le materie d'insegnamento ruotano attorno a tre settori principali: logica, fisica ed etica (quest'ultima comprende anche la politica).

Oltre a queste scuole vi sono dei movimenti filosofici, piuttosto informali, perché non organizzati, che si rifanno a idee socratiche, all'interno delle quali si esprimono alcuni aspetti contestativi dello status quo: si tratta degli scettici e dei cinici.

Un tratto comune a tutte le correnti ellenistiche è la volontà di dare alla filosofia una funzione pratica, nel senso che, in luogo della metafisica, si preferisce vedere nella filosofia una terapia esistenziale contro, in un certo senso, il “male di vivere”, cioè contro la percezione dell'insignificanza della vita. Di qui i nessi organici con l'etica e la psicologia.

Si ritiene che la filosofia debba porsi come uno strumento consolatorio a disposizione di chiunque, al di là delle differenze sociali, culturali, linguistiche, sessuali, religiose... Epicuro, p.es., è il primo filosofo ad ammettere gli schiavi nella propria scuola. Lo stoico Epitteto è un liberto, cioè un ex-schiavo.

Queste correnti anticipano, sul piano etico, la venuta del cristianesimo, pur essendo molto diverse dall'ebraismo fortemente politicizzato e nazionalista.

La corrente più significativa è quella stoica, che va da Zenone di Cizio, fondatore della scuola, alle tre fondamentali figure del tardo stoicismo: Seneca (precettore di Nerone), Epitteto e l'imperatore Marco Aurelio.

Concezione gnoseologica

Per gli stoici principio originante di tutto è il logos, inteso in senso eracliteo, cioè non necessariamente identificabile con una divinità, anche perché, quando parlano di logica, gli stoici non pongono alcun rapporto diretto tra parole e cose. Parole diverse possono indicare lo stesso oggetto; un'unica parola può indicare oggetti diversi. Sembra una banalità, ma questo relativismo semantico non sarebbe stato ammesso né da Platone né da Aristotele. La precisione del significato delle parole, siano esse filosofiche o scientifiche, era un postulato fondamentale del loro pensiero.

Invece per gli stoici tutto diventa relativo e contestuale. Anzi, poiché la relazione linguaggio/mondo perde la sua cogenza, diventa per gli stoici più importante il linguaggio che non il mondo, anche perché nei confronti di quest'ultimo si ha un atteggiamento piuttosto rassegnato.

La logica non è più tenuta a trovare una corrispondenza nella realtà, perché può anche essere autoreferenziale. Infatti la premessa maggiore dei loro sillogismi può anche essere un'ipotesi del tutto inverosimile (p.es. “se Socrate avesse le ruote”), e persino la conclusione può risultare inverosimile, pur essendo formalmente corretta e quindi logicamente valida (p.es. “Socrate sarebbe un carretto”).

Una logica del genere, messa a confronto con quella aristotelica, può apparire una forzatura, eppure essa risulterà molto più interessante nella nostra epoca contemporanea, soprattutto per il neopositivismo logico, e oggi ha trovato applicazioni persino nei linguaggi informatici.

Praticamente si era giunti alla conclusione che se la logica riesce a esprimere una propria coerenza interna, che non trova corrispondenza nella realtà, è questa che deve cambiare, non la logica.

È anche vero però che una logica del genere, essendo svolta in maniera separata dalla realtà, avrebbe potuto giustificare qualunque tipo di evento sociale o fenomeno, anche quelli più contraddittori, tipici, p.es., della società schiavistica.

Lo stoicismo, tuttavia, non voleva essere una sorta di sofistica, ma una corrente filosofica seria. Non poteva, pertanto, non chiedersi quando i contenuti mentali di cui si occupa la logica, trovano una corrispondenza nella realtà.

Qui la differenza dell'epicureismo è abbastanza netta. Da un lato, infatti, entrambe le correnti affermano che fondamento di ogni attività intellettiva sono le sensazioni (gli stimoli provenienti dall'ambiente) che producono impressioni sui nostri organi di senso. Dall'altro però gli stoici ritengono che le rappresentazioni concettuali che la mente forma in rapporto alle impressioni possono essere del tutto false. Dunque come fare per avere delle certezze?

Gli epicurei sono individualisti o membri di piccole comunità: non aspirano a diventare dei “filosofi istituzionali”, anzi tendono a porsi in maniera anticonformistica (si pensi p.es. a Lucrezio). Lo stoicismo invece diventerà la filosofia dominante dell'impero romano (seppur frammisto a eclettismo e scetticismo, come nel caso p.es. di Cicerone), almeno fino a quando non verrà completamente assorbito dal cristianesimo. Doveva per forza trovare una soluzione, e la troverà nella teoria della rappresentazione catalettica.

Il ragionamento cruciale, in pratica, sarà il seguente. Ogni impressione (determinata dalle sensazioni) va sottoposta al filtro dell'assenso, che è il libero giudizio della mente. Questo filtro ha di fronte a sé tre possibilità: nell'immediato affermare o smentire, oppure sospendere il giudizio, in attesa di ulteriori ragguagli.

L'evidenza si basa sul fatto che più lo stimolo proveniente dall'esterno è forte e chiaro, più probabile sarà l'assenso. La rappresentazione diventa catalettica (cioè il “sentire” diventa “acconsentire”) quando l'evidenza non appare contraddittoria rispetto ad altre sensazioni.

Lo stoico, quindi, di fronte a un qualunque problema, a una qualunque domanda, non avrà fretta di rispondere, ma si prenderà tutto il tempo necessario. Se si usano criteri troppo elastici si rischia di avvalorare impressioni false; se troppo rigidi, si rischia di non accettare l'evidenza. È infatti quest'ultima che deve decidere, ma soltanto dopo che tutto è stato passato al setaccio.

Concezioni astronomiche

Questa sorta di “relativismo prudenziale” si riflette anche nelle concezioni fisico-astronomiche. Gli stoici, infatti, da un lato sostengono che l'universo è un sistema totalmente razionale, dove le cose avvengono in maniera necessaria e predeterminata, cioè non solo non possono non accadere, ma anche non possono accadere in maniera diversa da come avvengono; dall'altro sostengono che l'universo, pur essendo uno spazio eterno (esistente da sempre e destinato a esistere), contiene una materia soggetta a morire e a rinascere di continuo, per cui nulla è eterno. L'unica cosa eterna è appunto la ciclicità del tempo e il ripetersi della storia nel mondo.

Gli stoici ritengono che all'origine di tutto vi è un logos che è una sorta di fuoco, in grado di permeare di sé ogni cosa, inclusa l'anima umana, rendendo tutto vivente. Se esiste un dio, non può essere che questo logos, che non è certamente qualcosa privo di materialità. Questo fuoco ha il potere di fare ciò che vuole e nessuno è in grado di opporvisi. Alcuni stoici erano persino convinti che il ripetersi ciclico delle cose dovesse avvenire ogni 36000 anni: tale rigenerazione o palingenesi la chiamavano “apocatastasi”.

In questo loro determinismo si distinguevano certamente dagli epicurei, per i quali non si poteva escludere a priori l'idea di casualità o di libero arbitrio. Gli stoici tuttavia obiettavano che noi parliamo di casualità soltanto quando ignoriamo le cause necessarie che producono determinati fenomeni, indipendenti dalla volontà umana. In tal senso il loro concetto di "provvidenza", ereditato poi dal cristianesimo, riabilita il male in quanto lo finalizza, contro la sua volontà, a una strategia di bene più complessa e globale.

Questo il motivo per cui gli stoici vengono spesso definiti “fatalisti”. Loro stessi erano convinti che se esiste un destino, non può mancare la possibilità di prevedere il futuro: la mantica era infatti per loro l'arte della predizione divinatoria del futuro.

Per noi contemporanei il fatalismo facilmente tende a sconfinare col cinismo, cioè con quell'atteggiamento di chi, convinto che tutto sia predeterminato dal destino, non si preoccupa molto della propria coscienza morale. Ma per gli antichi stoici la cosa era più sfumata.

Concezione antropologica

La loro concezione dell'uomo non poteva mai risultare contraddittoria con quella della ragione. L'uomo è moralmente sano quando vive secondo natura e secondo ragione: questo era un principio fondamentale per gli stoici.

La differenza tra loro e gli epicurei stava nel fatto che quest'ultimi cercavano la felicità nell'immediato e, per poterla avere, erano disposti a isolarsi fisicamente dalla società corrotta. Gli stoici invece, non avendo intenzione di uscire dalla società, ponevano la felicità (che altro non era se non una serenità interiore, cioè la soddisfazione d'aver compiuto il proprio dovere) come obiettivo ultimo dell'esistenza, non necessariamente realizzabile in maniera piena.

Che questo obiettivo fosse legittimo perseguirlo era dimostrato dalla natura stessa del bambino, che possiede in maniera innata un certo orientamento verso il bene. Anche gli epicurei si erano resi conto di questo: la differenza dagli stoici stava però nel modo di conservare o di recuperare, da adulti, tale innocenza perduta.

Gli epicurei, semplicemente, erano convinti di non poterlo fare in una società profondamente corrotta come quella schiavistica e mercantile del mondo greco-romano. Per gli stoici invece l'uomo può realizzare se stesso solo nella comunità in cui è chiamato vivere, senza costruirsi dei paradisi artificiali.

In Seneca addirittura lo stoicismo seppe così tanto approfondire il lato umano delle cose e l'interiorità soggettiva, che alcuni teologi cristiani s'inventarono un epistolario tra lui e san Paolo.

Conclusioni critiche

Dare ragione agli stoici, nella loro diatriba con gli epicurei, può essere fuorviante. Infatti, vivere secondo ragione o secondo natura, essere soddisfatti d'aver compiuto il proprio dovere, aver obbedito, in ogni situazione, alla propria coscienza sono tutti i principi che in sé e per sé, se non vengono contestualizzati in casi specifici, non vogliono dir nulla.

Il fatto stesso che gli stoici dicessero che vivere secondo ragione vuol dire rinunciare a provare emozioni e sentimenti, cioè essere imperturbabili o atarassici, non può certo essere considerato un segno sicuro di moralità o di ragionevolezza.

Si può anche pensare che una passione possa indurre più facilmente a compiere azioni sbagliate, immorali o illecite, ma non si può certo pensare che un'azione ragionevole sia di per sé più morale di una istintiva. Non esiste alcun criterio che possa stabilire a priori quando un'azione è giusta o sbagliata. È del tutto illusorio pensare che la rinuncia agli istinti o alle passioni faccia sbagliare di meno o induca a essere meno innaturali. Queste forme di ingenuità oggi sarebbero imperdonabili.

Astrattamente si può soltanto sostenere che ogni passione, anche quella più travolgente, è bene che diventi frutto di una libera decisione del soggetto.

Che gli stoici peccassero di astrattezza (peraltro inevitabile quando si vogliono decidere dei comportamenti validi in ogni tempo e luogo) è dimostrato anche dal fatto che non ammettevano una gerarchia delle colpe, ritenendole tutte gravi. Cioè non ammettevano l'esistenza di comportamenti quasi virtuosi o quasi viziosi.

Interessante il fatto che, assegnando alla determinazione della coscienza un valore non secondario, non escludevano l'ipotesi del suicidio quando il potere politico impediva loro di sentirsi liberi (famoso il caso di Catone Uticense, il quale, piuttosto che farsi arrestare e assistere alla fine dei valori repubblicani al tempo di Cesare, preferì uccidersi). Ma accettavano il suicidio anche in presenza di malattie degenerative o della semplice vecchiaia.

Forse l'aspetto più interessante dello stoicismo, che verrà ripreso in pieno dal cristianesimo, era il suo ideale cosmopolitico, anti-nazionalistico. L'uomo ragionevole è cittadino del mondo e, come tale, non può fare differenza di etnia, tribù, ceto, classe, genere sessuale ecc. Indubbiamente anche questa era una posizione ingenua, idealistica, in quanto prescindeva dalle differenze reali che i poteri imponevano, e tuttavia con essa si anticiperà il successo mondiale del cristianesimo.

Bibliografia

Opera generale di Zeller Eduard

Le schede sui singoli filosofi greci si trovano nella sezione Teorici


Web Homolaicus

Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Teoria
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Aggiornamento: 14/12/2018