Ogni idea assoluta è assolutamente falsa

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ogni idea assoluta è assolutamente falsa

Nel manuale di filosofia Il nuovo pensiero plurale, di E. Ruffaldi, P. Carelli, U. Nicola (ed. Loescher, Torino 2012), a p. 254 del vol. 1A, parlando di Platone, vi sono sette righe che meritano d'essere riportate per la loro evidente assurdità:

Socrate aveva cercato di superare il relativismo sofistico giungendo alla "definizione universale" mediante la ragione. Ciò che possiamo dimostrare razionalmente, mediante argomentazioni condivise, deve essere valido per tutti. Si tratta, però, di un fondamento fragile, perché fa comunque riferimento all'uomo, che potrebbe sbagliarsi nei suoi ragionamenti o comunque potrebbe considerare validi argomenti che non sono tali per tutti ma soltanto all'interno di una determinata comunità. Perché i valori siano davvero universali, devono esistere indipendentemente dagli uomini, in modo cioè oggettivo. Identificare i valori con le idee, considerandoli quindi come esistenti di per sé, indipendentemente dagli uomini, sembra conferire loro un fondamento veramente universale, perché non dipendono più in nessun modo dal soggetto conoscente.

Cioè il "fondamento" del tentativo di Socrate sarebbe stato fragile e quindi destinato all'insuccesso perché aveva come punto di riferimento l'uomo?! Quindi Socrate non sarebbe riuscito a trovare un oggettività razionale al proprio operato semplicemente perché si confrontava con uomini che, proprio in quanto "uomini", sono soggetti a continui errori di valutazione?! Quindi Platone, sostituendo gli uomini con le "idee assolute", cioè le opinioni terrene con delle certezze iperuraniche, avrebbe finalmente trovato l'universalità e quindi l'indiscutibile necessità dei valori?! E questo sarebbe stato un progresso indiscutibile dell'uno rispetto all'altro?! Dovremmo quindi credere che l'universalità sarebbe una conseguenza dell'esistenza di idee assolute, del tutto indipendenti dalla volontà umana?!

Nell'universo c'è forse qualcosa che non dipende strettamente dalla volontà umana? Sì, la materia, con le sue leggi, che non sono "idee assolute", riguardanti ogni campo dell'esistenza umana, fino al più piccolo, interpretabili soltanto da un filosofo enciclopedico e moralmente purificato. L'uomo deve scoprire e attenersi consapevolmente a queste leggi, che non sono state poste per mortificarlo, cioè per fargli capire che ha un destino segnato, che la sua libertà è ridotta a zero e che non può pretendere di vivere un'esistenza di molto superiore a quella degli animali.

Con la nascita dell'uomo la natura ha preso coscienza di se stessa. Questa coscienza non viene data agli uomini dall'esterno, ma nasce con la loro nascita: il problema, semmai, è quello di come svilupparla e, per poterlo fare, non si può certo interpellare l'intellettuale di turno, come fosse un profeta mandato da dio. Semplicemente ci si deve confrontare, si deve discutere, approvando insieme determinate risoluzioni e agendo di conseguenza, cercando di applicarle coerentemente, fino a quando il mutamento delle condizioni non imporrà la necessità di ritornare sulle decisioni prese, modificandole. Non occorre essere dei grandi filosofi per capire dei processi democratici così semplici.

In questo alto sviluppo della coscienza (che scopre davvero se stessa facendo parte di un collettivo) il massimo cui gli uomini possono attendere sono solo le idee oggettive, continuamente rivedibili al variare delle circostanze di tempo e di luogo, al mutare cioè delle situazioni di bisogno, del livello della conoscenza.

Darsi delle verità assolute, cioè immodificabili, sarebbe come uccidere la ricerca, la possibilità di reinterpretare le cose, la stessa libertà di coscienza, ovvero la capacità decisionale che ogni essere umano deve sentire come propria, al fine di potersi realizzare.

Che cos'è preferibile che faccia un insegnante: avvalorare la tendenza giovanile a credere in entità esterne, caratterizzate da superpoteri, oppure dire chiaramente che, se il manuale ha ragione, allora il principale falsificatore del pensiero di Socrate è stato proprio il suo discepolo più prestigioso?

L'EVIDENZA E' SOLO UN'ABITUDINE

Non c'è nessuna evidenza, di nessun tipo. Per milioni di anni s'è creduto al sole che ci girava intorno, per poi scoprire ch'era il contrario. Neanche dio in persona, se ci si presentasse, potremmo considerarlo un'evidenza. E presumere di dimostrarlo, come facevano gli Scolastici con le loro prove logiche, è ridicolo, anzi patetico.

Ci può essere soltanto l'abitudine a considerare evidenti quelle cose che si ripetono costantemente, come diceva Hume. Ma proprio sul cambiamento delle abitudini Darwin ha posto le fondamenta del suo evoluzionismo.

Una qualunque abitudine può sempre essere smentita, magari non immediatamente o non in qualunque momento, ma se pretende di non esserlo mai, di sicuro - scriveva Popper - è falsa, non è scientifica. In effetti è la vita stessa che c'insegna ad essere elastici duttili flessibili. Dobbiamo abituarci a non avere abitudini tassative.

La gravitazione universale non ha alcuna forza per l'astronauta e, per questa ragione, quello è costretto a fare ginnastica anche quando non ne ha voglia, se non vuole che si decalcifichino le ossa e s'atrofizzino i muscoli.

Per cambiare abitudine bisogna solo avere il coraggio, la volontà e poi la costanza di farlo: ne sanno qualcosa gli obesi o gli accaniti fumatori, per i quali il vizio è un'evidenza che devono cercare di smentire, se vogliono star bene con se stessi e continuare a vivere in società come persone normali. E certamente le abitudini sociali, quando sbagliate, si superano solo collettivamente. Gli sforzi individuali servono a poco se non si fa una campagna pubblica contro una cattiva abitudine. In tal senso tutta la pubblicità dovrebbe essere "progresso": i refrain giovano moltissimo; a volte si dà retta a quel che dicono proprio per non doverli più sentire.

Se ci fossero delle evidenze indiscutibili, ne subirebbe un danno la libertà umana: oggi abbiamo dei dubbi persino sul significato dell'appartenenza a un orientamento sessuale. Abbiamo infatti capito che non è una certezza del genere che, di per sé, ci rende eticamente migliori. Non lo diceva forse anche san Paolo ai Galati che nel regno dei cieli non solo non ci sarà né schiavo né libero, ma neppure né uomo né donna?

La libertà si sente davvero realizzata soltanto quando è libera di scegliere, e non una tantum ma ogni volta che lo desidera. Scegliere cioè di credere o di non credere in un determinato fatto evento fenomeno, o anche un semplice oggetto segno simbolo, una parola o una frase, persino un sentimento. Sappiamo che gli attori recitano, però quando ci commuovono ci piace credere che siano sinceri.

Certo, qualcuno potrebbe obiettare che se mettessimo in dubbio che i segnali stradali sono un'evidenza, poveri noi. Ma l'evidenza di quei simboli è puramente convenzionale: l'abbiamo decisa a tavolino e nulla c'impedisce di modificarla. L'importante è che tutti lo sappiano. In tal senso anzi dovremmo chiederci se non sia sbagliato pensare che, una volta presa la patente, l'automobilista non possa non ricordarsi tutti i segnali appresi quando andava a scuola-guida.

Insomma non ci piace essere "abituati" a credere o a non credere, e neppure ad amare o ad essere amati. Preferiamo, almeno di tanto in tanto, rimetterci in gioco: la scontatezza logora. Per questo dovremmo desiderare ardentemente la rotazione delle cariche, dei ruoli, delle funzioni. A scuola ci limitiamo a quella dei banchi, ma di tanto in tanto sarebbe bene che lo studente salisse in cattedra e tenesse la sua lezione.

Di fronte a qualunque cosa ci si dovrebbe sentire liberi di credere in maniera personale, non perché qualcuno ci obbliga o ci induce. Quelli che considerano la coerenza un valore assoluto, non si rendono conto che anche un qualunque elettrodomestico è coerente.

Noi possiamo anche accettare d'essere condizionati o persuasi da qualcuno, ma, in ultima istanza, vogliamo sempre poter dire che il fatto di credere o meno in una determinata cosa o persona dipende da una nostra libera decisione. Non vogliamo apparire plagiati o suggestionati. Le dittature nascono così, da quelle mega di Hitler e Stalin, che finirono con l'ammazzare milioni di propri connazionali, a quelle mini dei mariti violenti o dei santoni fanatici che, come Jim Jones, pur di non riconoscere la libertà di coscienza ai propri seguaci, preferiscono eliminarli tutti.

Ci piace apprezzare la libertà e, per questa ragione, non sopportiamo le cose o le persone che pretendono d'imporsi. Anzi, se siamo abbastanza esperti nelle cose del mondo, preferiamo insospettirci proprio di fronte a tutto ciò che pretende d'essere evidente, lapalissiano. Per questo non sopportiamo chi urla, chi non ascolta, chi non dialoga, chi si sottrae alle domande, chi presume d'avere la verità in tasca, chi pilota i dibattiti secondo uno schema precostituito, chi interpreta qualunque cosa secondo una sua determinata pre-comprensione. Non sopportiamo né la troppa luce né il troppo buio, né il silenzio assoluto né il rumore assordante.

L'evidenza è soltanto un pregiudizio, un infantile schema mentale, il difetto di una mancanza di dialettica. Una verità evidente è la più povera del mondo, è una banale tautologia, è la meno adatta a ulteriori sviluppi, è la morte del pensiero. La verità evidente è quella sbandierata dalle dittature, di destra e di sinistra, laiche e clericali. È l'idolatria del dogma, la morte della democrazia, del libero confronto delle opinioni.

La storia è piena di queste dittature del pensiero, che hanno avuto la presunzione di abbattere le evidenze con altre evidenze. "Stato" e "mercato", p. es., sono due evidenze insopportabili, che ci legano mani e piedi. È non meno evidente che dobbiamo liberarcene.

IL VALORE DELLA FACOLTA' DI SCELTA

Non c'è parola che non meriti d'essere attentamente considerata e collocata in un contesto significativo di idee e di valori. Prendiamo ad es. le tre parole: monismo, dualismo e pluralismo, cioè uno, due e tanti. Opporre l'una all'altra è insensato, poiché sono tutte indispensabili. L'abbiamo visto nel passaggio dalle religioni politeistiche a quelle monoteistiche: quest'ultime hanno sì eliminato gli dèi, ma poi li hanno reintrodotti nelle vesti di angeli, santi e beati, capaci di fare miracoli o di apparire in maniera prodigiosa.

È come si può pretendere di opporre, in maniera esclusiva, la verità soggettiva a quella oggettiva o la verità relativa a quella assoluta. Non c'è niente di assoluto che, col tempo, non diventi relativo; una verità è oggettiva finché ci si crede o finché, discutendo, non se n'è trovata un'altra.

L'unica cosa che davvero conta è l'essere umano, che, per definizione, è indicibile. Questo vuol dire che tutto quanto lo riguarda o gli si riferisce, è utile e corretto, a condizione che lo si rapporti allo spazio e al tempo in cui egli vive. La vivibilità di questo essere - che è poi un esserci - è la sua personale esperienza, costituita di rapporti sociali, caratterizzata da una memoria e da un desiderio, cioè da un passato e da un futuro, tenuti insieme dal presente, che è il luogo in cui il bisogno d'essere quel che si è si realizza. E siccome le cose, nello spazio e nel tempo, mutano di continuo, è necessario che l'essere umano resti disponibile al mutamento, all'ovvia condizione di non rinunciare mai alla propria umanità, che è l'unica cosa assoluta che conta, ma di cui non è possibile dare una definizione univoca.

Di fronte alle cose che cambiano, l'uomo e la donna devono fare delle scelte, devono misurarsi nella loro facoltà di scelta, devono saper prendere delle decisioni in coscienza. Non si può indurli a compiere delle scelte, mostrando loro che una determinata opzione ha un valore assoluto, ovvero è assolutamente prioritaria su tutte le altre. Non è questo il modo di educare alla democrazia, di far crescere le persone. Quando si fanno delle scelte, giuste o sbagliate che siano, occorre assumersi una certa responsabilità. Se si pensa di trovarsi in condizioni in cui non sia possibile alcuna scelta, ci s'inganna, poiché non esiste una condizione del genere; neppure da morti si è impossibilitati a scegliere, poiché la morte è solo un momento di passaggio da una condizione a un'altra.

La libertà di scelta è fondamentale per qualunque essere umano in qualunque momento, anche nel caso in cui vi fossero in gioco solo due possibilità: quella di decidersi per una cosa o di non decidersi affatto. Quante volte in politica si dice che anche la non-scelta è una scelta? Semmai dovremmo dire, se davvero ci definiamo "pluralisti", che anche le non-scelte dovrebbero avere il loro peso. Se quando si vota, si ottiene che il 50% dell'elettorato si diversifica su varie opzioni politiche, mentre un altro 50% non va a votare (oppure vota scheda bianca o annulla la scheda elettorale), per quale motivo questo secondo gruppo di elettori non ha alcun peso politico? È giusto che si formi un governo votato da un terzo o addirittura da un quarto del 50%? Se si decide che, in rapporto a 100 elettori, gli eletti non possono essere più di 10, gli eletti andrebbero ridotti a cinque se solo 50 elettori esprimessero un voto esplicito a favore dei propri candidati. E dovrebbero essere ridotti a uno, se i voti considerati validi fossero solo 10. In questa maniera sarebbe impossibile non accorgersi del peso del voto di quegli elettori insofferenti alla politica governativa in generale.

Esiste una verità assoluta?

Quanto più ci avviciniamo alla verità assoluta, tanto meno saremo in grado di definirla. Questa cosa gli assolutisti e i dogmatici dovrebbero averla chiara.

Infatti qualunque definizione, foss'anche la più perfetta possibile, è sempre una negazione di qualcosa.

La verità assoluta, quella assolutamente obiettiva o oggettiva, non avrà alcuna definizione messa per iscritto, proprio perché la scrittura, di per sé, fossilizza, pietrifica.

E sarà impossibile che una verità assoluta non coincida, stricto sensu, con un'assoluta libertà. Quindi la scrittura può servire soltanto per criticare le pretese di chi nega l'esigenza di ricercare una verità assoluta, che è anche un'assoluta libertà.

Ma la scrittura, di per sé, non può porre le condizioni perché questa verità e questa libertà siano effettivamente, praticamente, vissute.

Questo significa che non c'è modo di trovare nella scrittura la soluzione dei problemi che si vivono nel presente, meno che mai nella scrittura del passato. I problemi del presente possono essere affrontati solo attraverso rapporti interpersonali, diretti, mettendo a confronto le reciproche volontà, le diverse interpretazioni della realtà.

Leggiamo ora cosa dice in merito Lenin nel suo Materialismo ed empiriocriticismo. “... i limiti di approssimazione delle nostre conoscenze alla verità obiettiva, assoluta, sono storicamente relativi, ma l'esistenza di questa verità è incontestabile, come lo è il fatto che noi ci avviciniamo ad essa... ogni ideologia è storicamente condizionata, ma è incondizionato il fatto che ad ogni ideologia scientifica (a differenza, p.es., dell'ideologia religiosa) corrisponde una verità obiettiva, una natura assoluta... questa distinzione tra la verità assoluta e la verità relativa è indeterminata... quanto basta per impedire che la scienza sia trasformata in un dogma nel peggior senso della parola... ma è 'determinata' appunto quanto basta per distinguersi nel modo più deciso e inequivocabile dal fideismo e dalla sofistica dei seguaci di Hume e di Kant”.

Curiosamente parole del genere le usava anche Pascal quando diceva che c'è abbastanza per credere e abbastanza per non credere. In tal senso non si comprende perché si debba ritenere valida una frase del genere, detta da un forte credente come Pascal, e non la si debba ritenere valida quando detta da un forte ateo e materialista come Lenin. Queste sono frasi in cui la dialettica gioca un ruolo di primo piano, sia essa di contenuto laico o religioso.

Tuttavia il vero ruolo è giocato solo dalla pratica, che è l'unico criterio adeguato per trovare la verità assoluta.

Ma leggiamo ancora cosa dice Lenin: “il criterio della pratica... non può mai confermare o confutare completamente una rappresentazione umana, qualunque essa sia. Anche questo criterio è talmente 'indeterminato' da non permettere alle conoscenze dell'uomo di trasformarsi in un 'assoluto'; ma nello stesso tempo è abbastanza determinato per permettere una lotta implacabile contro tutte le varietà dell'idealismo e dell'agnosticismo”. Cioè non solo la teoria è insufficiente a determinare, in maniera definitiva, la verità assoluta, ma anche la pratica soffre di questo limite.

Vi è qui, nelle parole di Lenin, una sorta di inconfessato escatologismo. Se si crede in una verità assoluta e non si ritiene possibile raggiungerla storicamente al cento per cento, allora la prospettiva è quella di una “fine della storia”.

Lenin però non spiega da dove venga la necessità di una verità assoluta. Quanto meno avrebbe dovuto dire ch'essa, in un qualche passato, era già esistita e che, ad un certo punto (p.es. quello della nascita dello schiavismo), s'è cominciato a negarla. In caso contrario il suo ragionamento rischia di apparire astratto e infondato, cioè non superiore a quello di chi afferma che la verità è solo relativa.

Al massimo infatti sarebbe possibile sostenere che nessuno può affermare l'esistenza di un relativismo assoluto senza contraddirsi immediatamente. Un relativismo, per definizione, non può essere assoluto, anche se – bisogna ammetterlo –, chi sostenesse che il relativismo è relativo, dovrebbe poi specificare in rapporto a quale assoluto, o a quale “pretesa assoluta”, lo sia.

Se io dico “questa è una mela”, sono relativista quando punto l'attenzione sull'aggettivo dimostrativo, ma sono un assolutista quando mi riferisco al sostantivo. Infatti, in quanto relativista, potrei dire: “anche quest'altra, pur non essendo rossa, è una mela”. Ma devo per forza essere un assolutista per dimostrare che quello specifico frutto non è una pera. Nella fattispecie, dunque, ciò che unisce l'assoluto al relativo non è che il verbo “essere”, che, usato al presente, permette di stabilire, in tempo reale, l'attendibilità delle affermazioni che si dicono.

In astratto quindi si può anche sostenere che chi afferma il relativismo è preferibile all'assolutista, ma è anche indubitabile che laddove si afferma la necessità di un assoluto è impossibile non essere dogmatici. Almeno su qualcosa si deve essere intransigenti. Se si accetta che la verità assoluta coincida con la libertà, almeno su questo bisogna essere dogmatici.

A questo punto però sarebbe meglio concentrarsi non tanto sulla verità assoluta (o sulla progressiva approssimazione ad essa), quanto piuttosto sulla libertà, cioè sulla modalità con cui si cerca di metterla in pratica. In merito si può tranquillamente affermare che la libertà o è per tutti o non è. Chi pensa di affermare una libertà per sé che non coincida immediatamente con una libertà per altri, ha un concetto di libertà (e quindi di verità) che si squalifica da solo.

Cioè è sufficiente vedere come uno concepisce la libertà per capire la sua concezione della verità. È evidente, infatti, che se la libertà è anzitutto per sé, la verità sarà assoluta soltanto per sé. Non a caso soggetti del genere sostengono, per non apparire individualisti, che la verità non ha nulla di assoluto. In tal modo possono offrire l'impressione d'essere democratici, come i sofisti nella Grecia classica.


Web Homolaicus

Foto di Paolo Mulazzani


Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Teoria
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Aggiornamento: 14/12/2018