TEORIA
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L'IDENTITA' DI SE' E LA TORRE DI BABELE
L'identità sembra esserci data, ma di sicuro non sappiamo quale sia. Le nostre sembianze mutano di continuo, e spesso anche le idee, i comportamenti, i gusti... Se guardiamo le foto di quando avevamo pochi anni, ci riconosciamo solo perché siamo abituati a guardarle, ma chi ci rivede a distanza di tanti anni, stenta a credere che siamo proprio noi. Cos'è dunque che fa la nostra identità? Che cosa ci caratterizza in modo permanente? Che cosa, propriamente parlando, permette quel "riconoscimento" che non dipende da luoghi e circostanze? Ogni volta che ci guardiamo allo specchio, vediamo qualcosa di diverso: aumentano le rughe, i capelli bianchi, gli occhi si appesantiscono... La "persona" è la stessa, diciamo, ma cosa vuol dire "persona"? Il cristianesimo dice che la l'identità è personale, ma se le fattezze cambiano di continuo, che cosa rende uguali a se stessi? che cosa ci fa unici e irripetibili? Davvero c'è qualcosa di immutevole in noi? Oppure siamo destinati a subire eterni cambiamenti? "Eterni" davvero o è soltanto un modo di dire? Noi p.es. avvertiamo con disagio la vecchiaia, la debolezza che ne consegue, la lentezza dei movimenti, l'incertezza o la fatica con cui facciamo le cose. Nel corpo umano deve esistere un momento in cui lo sviluppo è massimo, dopodiché inizia il declino. Perché non riusciamo a fermarci in quel preciso punto? Se esiste una prosecuzione di questa vita terrena, chi non desidererebbe poter tornare ad essere com'era da giovane? Chi non vorrebbe avere la maturità di un adulto, come solo l'esperienza può dare, con la forza e la bellezza della gioventù, come solo la natura può permettere? E chi non vorrebbe poter modificare (in meglio ovviamente) ciò che anche da giovane non gli soddisfaceva? Non potrebbe essere che l'identità sia soltanto il frutto di vari desideri che maturano col tempo? Noi occidentali cerchiamo anzitutto di soddisfare bisogni, soprattutto i nostri, a discapito di quelli altrui. Tutta la controversia tra capitalismo e socialismo si riduce in fondo a una diversa definizione del destinatario dei bisogni, che per l'uno è l'individuo singolo e per l'altro il collettivo. Forse abbiamo ridotto tutto a una questione di "soddisfazione di bisogni", perché siamo aridi sul piano dei sentimenti. P.es. in un ricovero per anziani, cioè per soggetti tipicamente "improduttivi", questi vengono accuditi, nutriti, lavati ecc., ma raramente vengono ascoltati. Si pensa sempre che abbiano da dire cose sconnesse, senza senso, slegate tra loro, perché se vivono lì un grave motivo deve esserci. Chi non soddisfa "bisogni altrui" non vale nulla nel nostro sistema, specie se egli stesso è solo un bisogno per gli altri. Certo, l'aspetto esteriore, il fisico, l'igiene, la salute... sono cose importanti, ma un anziano, con un secolo di storie da raccontare, per quanto possa farlo alla sua maniera, con tutti i limiti della sua condizione, avrebbe anche bisogno di sentirsi "vivo", non solo oggetto nelle mani altrui, ma anche soggetto che ha ancora qualcosa da dire, da comunicare a qualcuno, per ripensare con questo qualcuno, al suo passato, per potersi commuovere ripensando a quel che era stato. Noi dovremmo educarci a soddisfare non solo bisogni ma anche desideri: il desiderio di essere, di sentirsi vivi, il desiderio di poter ricordare con nostalgia, il desiderio di poter essere ascoltati, capiti, il desiderio di poter condividere con qualcuno i propri pensieri, le proprie emozioni. Un anziano non può sentirsi abbandonato proprio mentre viene accudito con la massima cura. Ma se è così, cioè se, in definitiva, i desideri hanno un'importanza fondamentale per la realizzazione di sé, allora dovrebbero averla anche per il nostro aspetto fisico, per le sembianze carnali che noi vogliamo ci caratterizzino (se io sono nato cieco non voglio soltanto avere la vista, ma anche nuovi occhi, p.es. scuri come quelli di un bambino africano, e voglio che tu sia messo in grado di riconoscermi con questi nuovi occhi). Tutti noi sappiamo che la realizzazione dei desideri incide molto sulla nostra psicologia, sul modo che abbiamo di esprimerci, di relazionarci... Qualcuno potrebbe anche desiderare d'essere più diplomatico, meno diretto, proprio perché, per quanti sforzi faccia, su questa terra non vi riesce, se non in minima parte. Ma per quale ragione dovremmo rinunciare alla materialità della vita fisica nella definizione della nostra futura identità? L'invecchiamento dovrebbe essere soltanto una cosa dello spirito, non del corpo. Se uno si sente giovane e ha ancora voglia di vivere, di lavorare, di produrre, di riprodursi... perché deve invecchiare nel fisico? La vecchiaia dovrebbe soltanto essere la conseguenza del rifiuto dei nostri migliori desideri, quelli conformi a natura. Probabilmente l'origine di tutte queste domande dipende dal fatto di non rendersi conto di quanto sia sbagliata la parola "identità", che di per sé, purtroppo, tende a escludere la "diversità". La persona è fatta di desideri e di libertà; la libertà è il modo e lo strumento per realizzarli, nella consapevolezza che le cose col tempo possono cambiare e che quanto si realizza non può essere ottenuto a scapito dei desideri altrui. "Essere se stessi" in fondo non vuol dire nulla, se non si è capaci di essere "altro da sé", o quanto meno se non si è capaci di cogliere l'altro come "diversità". Siamo identici e diversi, siamo e non-siamo, siamo essere e siamo nulla, o meglio siamo soltanto qualcosa, poiché nulla è creato e nulla distrutto, ma tutto trasformato. E' l'aut-aut che va abolito. La libertà, coi suoi desideri, non può accettare l'identità senza la diversità. Gli omosessuali spesso accusano gli eterosessuali di non accettare la diversità; eppure, se ci pensiamo, l'omosessualità appare come un rifiuto istituzionalizzato della diversità di genere nel rapporto di coppia. Il concetto di "diversità" o di "alterità" non può mai essere ipostatizzato. Ognuno di noi è nello stesso tempo "sé" e "altro". Definire una volta per tutte chi è "emittente" e chi "ricevente" significa impoverire al massimo la dialettica nel rapporto umano. Noi siamo fatti anzitutto e soprattutto di libertà, la quale rende possibile ogni cosa. La libertà deve soltanto capire quando i desideri sono umani e naturali. Noi dunque siamo una tabula rasa che viene modificata dall'esperienza, e la natura ci permette di capire quali di queste esperienze possono davvero giovarci e quali no. Solo che per poterlo capire occorre che i desideri siano sani e che la libertà venga usata nel migliore dei modi: cosa che non può certo essere definita a priori e tanto meno una volta per tutte. Per poter capire al meglio il significato di tutto ciò, occorre vivere un'esperienza sociale in cui i desideri e la libertà di un individuo non siano antitetici (almeno non in maniera irreparabile) a quelli di un altro, cioè non siano così contraddittori da determinare, ad un certo punto, la rottura del collettivo, la crisi traumatica dei suoi interessi generali. L'identità ci è data, ma a condizione di viverla in un'esperienza i cui valori siano condivisi, altrimenti è solo un'astrazione. Tutti parlano di identità, ma riferendosi a cose completamente diverse, come se vivessimo sulla torre di Babele. MEMORIA E NATURA La memoria di cui abbiamo veramente bisogno non può riguardare solo la nostra attuale dimensione terrena. Noi siamo figli dell'universo e dobbiamo avere una "memoria universale", che ci permetta di vivere umanamente in ogni luogo dell'universo. In tal senso la memoria deve per forza andare al di là delle sue forme storiche, perché tutta la storia del genere umano possa ricordare quel che ha perduto e perché possa desiderare di ritrovarlo. Il punto è: ci potrà ancora essere "storia", cioè "movimento", quando avremo ritrovato quel che si è perduto? Oppure il cammino, per poterlo ritrovare, non avrà mai fine? Noi non abbiamo bisogno di distruggere per esistere, non abbiamo bisogno di odiarci per poter essere. Però abbiamo bisogno di problemi da risolvere, di contraddizioni da superare. La frustrazione ci è cara, anche se le comodità che andiamo a ricercare ci tolgono il gusto della vittoria, la soddisfazione personale di aver trovato una soluzione al problema. Oggi per noi storia vuol dire "non aver pace". I problemi ci angosciano, temiamo di perdere il benessere raggiunto, desideriamo averlo a tutti i costi per non essere schiacciati dall'egoismo altrui. Noi siamo costantemente insoddisfatti di quel che non siamo, perché quel che siamo ci appare come il "non essere". Dal non essere dobbiamo, anzi vogliamo passare all'essere, senza però sapere quale sia. Dovremmo farlo rispettando le libertà altrui, senza violare l'essere altrui, ma questo, nelle società e civiltà antagonistiche, non è mai stato fatto. La ricerca dell'identità è sempre avvenuta schiacciando le identità altrui. Sappiamo solo una cosa, che il tempo è illimitato e che la materia è soggetta a continua trasformazione. Siamo terreni ma destinati all'universo. La memoria delle cose terrene deve diventare "memoria universale", cioè ricordo dell'intero genere umano, che vuole essere se stesso. Quindi di tutta la memoria storica sarà meglio per noi conservare quello che serve al nostro essere. Su questa terra dobbiamo scoprire qual è la memoria da ricordare, il desiderio da desiderare, l'esperienza da vivere nell'infinità del tempo. Noi dobbiamo diventare quel che siamo veramente, perché abbiamo smesso di esserlo, e nonostante gli altissimi prezzi che di volta in volta abbiamo pagato, la nostra dimenticanza va aumentando. Noi non siamo più capaci di tornare ad essere noi stessi con le sole nostre forze. Questo perché non lasciamo che sia la natura, con le sue leggi, a determinarci. Per noi la natura è solo una risorsa da sfruttare il più possibile, senz'altra preoccupazione. La natura ha una memoria superiore alla nostra, ha delle leggi non scritte che risalgono alla nascita dell'universo o, quanto meno, del nostro sistema solare. Queste leggi si sono tramandate senza il concorso dell'uomo. Il conflitto tra le nostre leggi e quelle della natura è inconciliabile. Se la natura vuole sopravvivere, non avrà molta scelta: dovrà liberarsi di noi, anche a costo di rendere se stessa invivibile, come nei deserti o nei ghiacciai. Noi dobbiamo valorizzare gli esseri umani naturali, quelli che si oppongono al concetto di “civiltà” e che, allo stesso tempo, non fanno della natura un nuovo dio da adorare. CONOSCERE E RICONOSCERE Esiste un diritto al riconoscimento? Se uno è stato conosciuto quand'era bambino, ha il diritto di essere riconosciuto una volta divenuto anziano? Ha anche il dovere di essere riconosciuto? Che cos'è la riconoscibilità di sé: un diritto o un dovere? I diritti e i doveri spesso violano la libertà di coscienza. Il diritto di essere riconosciuto dovrebbe in realtà essere una facoltà (un privilegio) che si concede in piena libertà, senza alcun obbligo. Anche perché uno ha il diritto di essere diverso da quello che è o da quello che è stato. E' lo scorrere del tempo che gli assicura questo diritto. Essere sempre se stessi è, in un certo senso, una grande disgrazia, oltre che una condizione contronatura. Se uno è nato basso di statura o con gli occhi a mandorla o i capelli rossi e desidera essere diverso, ha il diritto di esserlo, anche se ciò potrebbe precludere la possibilità di essere riconosciuto. Il riconoscimento non può essere strettamente legato alla forma esteriore, anche perché questa muta di continuo. Semmai dovremmo porci un'altra domanda: è possibile vincolare i mutamenti della forma umana a un desiderio soggettivo, individuale? Cioè se uno desiderasse una forma stabile, slegata dallo scorrere del tempo, indipendente dalle circostanze di tempo e luogo, potrebbe essere soddisfatto in questo suo desiderio? o dovremmo considerare questa esigenza come del tutto errata o irrealizzabile? Se partissimo dal presupposto che più importante della materia è l'energia e che la materia non è che un prodotto dell'energia, dovremmo rispondere di sì, cioè che il desiderio è legittimo. Chi controlla la propria energia, controlla anche la propria materia. Ma se questo è possibile, allora il riconoscimento può anche non essere frutto di circostanze esteriori, dipendenti dalle forme. Uno potrebbe desiderare di essere riconosciuto semplicemente desiderandolo, e verrebbe riconosciuto appunto perché l'ha desiderato. E' importante stabilire questo, perché deve poter valere anche l'opposto, e cioè che chi non vuole essere riconosciuto, ha il diritto di non esserlo. Il riconoscimento non può essere una cosa oggettiva, indipendente dalla volontà del soggetto. Le forme, quando è in gioco la libertà di coscienza, non possono prevalere sulla sostanza, o la materia sull'energia. Dobbiamo abituarci sin da adesso all'idea che per "energia" non bisogna intendere qualcosa di meramente "fisico". L'energia ha un aspetto immateriale che riguarda la coscienza. LA FACOLTA' DELLA MEMORIA STORICA La memoria è una facoltà molto particolare, dalle potenzialità incredibili. La memoria non è solo una cosa che riguarda il nostro passato personale (in questo caso sarebbe meglio parlare di "ricordo"). La memoria è un qualcosa di storico, che riguarda l'intero genere umano. In un certo senso tutti, a prescindere dal tempo e dallo spazio, ci ricordiamo cose comuni, poiché le sentiamo nella stessa maniera. Nella memoria infatti è implicito il desiderio, l'emozione, la sensibilità... Nel senso che vi sono cose che non si possono dimenticare, poiché sembrano far parte del Dna della nostra specie, come p.es. quando amiamo qualcuno o quando qualcuno di caro ci muore. Son cose che riaffiorano sempre alla mente, anche a distanza di molti anni, tant'è che finiamo col provare gli stessi sentimenti della prima volta. Questo accade in tutti. Ma la memoria è storica anche per un'altra ragione. Quando, nei libri che leggiamo, vediamo esperienze di dolore, di sofferenza morale o materiale, noi ci chiediamo sempre come avremmo potuto risolverle, anche se, rispetto al nostro presente, esse sono distanti migliaia di anni. Noi guardiamo il passato cercando di immedesimarci nelle situazioni e nei personaggi che gli appartengono. Lo facciamo istintivamente, come se fra loro e noi non ci fosse alcuna barriera insormontabile a dividerci. La differenza sta solo negli aspetti formali, negli strumenti che si usano: la sostanza invece è la stessa. Se sentiamo fortemente i problemi del presente, il passato ci può essere più vicino di quanto non lo sia stato per chi lo viveva con una consapevolezza superficiale. Per certe cose noi possiamo avere la medesima memoria di chi ci ha preceduto di secoli e secoli. Quali cose è presto detto: il senso della libertà, della giustizia, della verità, dell'onestà... Noi possiamo capire chi ha sofferto ingiustamente nel passato, meglio di quanto abbia potuto farlo lui stesso o un suo contemporaneo. Dipende dall'intensità con cui si affrontano le cose. Noi abbiamo memoria della sofferenza di tutta la storia e non riusciamo a dimenticare nulla, anzi preferiamo immedesimarci con la sofferenza di tutti e ci chiediamo sempre cosa avremmo fatto al loro posto, e ci duole il fatto di non poter parlare coi diretti interessati e di doverci inventare degli ipotetici dialoghi. Sarebbe bello poter ricapitolare, tutti insieme, la storia del genere umano, per poterci chiarire sul perché delle scelte compiute. Abbiamo bisogno di fare chiarezza, ripulendo la nostra memoria dalle incrostazioni dei pregiudizi. ESSERE RELAZIONATO Quando ti guardi allo specchio ti vedi perfettamente. Ma quando guardi qualcos'altro allo specchio, non riesci più a vederti come prima (se non - come si dice - con la coda dell'occhio). Perché? Il motivo filosofico è molto semplice, anche se più complicato di quello fisico. Noi non siamo fatti per guardare soprattutto noi stessi, ma per guardare ciò che sta al di fuori di noi, e naturalmente per essere guardati dagli altri. L'essere umano non è fatto anzitutto per comunicare con se stesso, ma per farlo con altri o comunque con l'ambiente in cui vive. Quanto più si comunica con se stessi, tanto più si perde il contatto con la realtà e si finisce col deformarla. Sono gli altri che devono dirci qual è la nostra identità. Ma anche noi abbiamo questo compito nei confronti degli altri, per cui alla fine la reciproca identità non è che il frutto di un continuo scambio di idee e di esperienze, di cui nessuno può vantare un monopolio, un possesso esclusivo. Tutti devono essere disposti a mutare idee ed esperienze, poiché non esiste alcun apriorismo che possa dirci con sicurezza: "Ecco questa idea è quella giusta o questa esperienza è la migliore". Tutto viene sempre deciso dalla pratica e, in questa pratica, l'elemento più significativo sono i bisogni, i desideri, le istanze, per la cui soddisfazione bisogna trovare le condizioni giuste, che non danneggino nessuno e che favoriscano il maggior numero possibile di persone. La vita non è che un impegno comune nel cercare di risolvere i problemi di tutti. Fonti
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