TEORIA
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IL PREZZO DEL PIACERE
Il piacere ha sempre un prezzo da pagare. Lo si sa da quando si è usciti dall'eden, per gustare l'ebbrezza della libertà personale. E nessuno si sogna di negare questa evidenza per timore di dover fare un favore ai credenti. Basta vedere che salassi ecologici stiamo pagando per il nostro forsennato sviluppo economico. E' come se la natura volesse metterci in guardia contro facili illusioni; è come se volesse dirci che dobbiamo stare nei ranghi, accontentarci del giusto, dell'essenziale, per non rischiare di corromperci, di deviare da una retta via che lei stessa ha deciso, in quanto per noi "benigna" (Pascoli) e non "matrigna" (Leopardi). Piacere e comodità vanno a braccetto nelle civiltà conflittuali, basate sullo sfruttamento delle fatiche altrui. Si vuole godere, anche a costo di non pensare. Il piacere è assenza di pensiero. Le comodità impigriscono tutte le migliori facoltà intellettive: intuito fantasia immaginazione inventiva creatività associazione di idee... Nei regimi dittatoriali ci si lamenta sempre di non avere piacere e comodità, però - chissà perché - si producono grandi capolavori letterari, grandi scoperte scientifiche, grandi innovazioni tecnologiche, grandi rivoluzioni sociali e politiche per abbattere quei regimi. Poi, quando si è ottenuto quel che si voleva, tutto finisce nel nulla. Si perde la volontà di creare qualcosa di diverso. Il piacere e le comodità ci rendono pigri stanchi appiattiti monotoni. Diventiamo conformisti, tutti uguali. Non riusciamo ad accettare l'idea che il meglio di sé viene prodotto soprattutto nelle ristrettezze, nella mancanza di qualcosa, nel desiderio di ottenerla. Possibile che la natura sia così versatile e duttile da capire che il desiderio, per costruire un'identità, è più importante della sua soddisfazione? Da dove le viene questa intelligenza, che spesso neppure gli uomini hanno? Per quale motivo noi dovremmo vivere un'esistenza dove i desideri vengono soddisfatti al minimo? dove cioè è più importante l'ansia, la ricerca, l'insoddisfazione che non l'appagamento? La natura non ci chiede di non desiderare, ma soltanto di non farlo con l'intenzione di non averne più bisogno. Abbiamo bisogno di desiderare per sentirci vivi, ma dobbiamo stare attenti a non desiderare ciò che potrebbe far morire in noi questa caratteristica così umana. Desiderare è una facoltà dello spirito. Il piacere di desiderare lo sentiamo dentro e non sappiamo neppure spiegarcelo. Quello che spesso non riusciamo a capire è fin dove possiamo spingere questo nostro desiderio, cioè quale sia il suo limite naturale. Non riusciamo a capirlo proprio perché non permettiamo alla natura di stabilirlo. Ogni volta che l'uomo si sovrappone ad essa, smette di essere se stesso, non capisce più chi è, non riesce più a individuare i limiti invalicabili, quelli oltre i quali comincia a compiere cose innaturali. E soprattutto non riesce più a capire che è solo in maniera spirituale che non esistono limiti al desiderio. Noi dobbiamo crescere come soggetti spirituali, ma per poterlo fare dobbiamo decrescere come soggetti materiali, poiché la nostra attuale esistenza materiale è fondata sull'illusione dei piaceri fisici ad oltranza e del possesso egoistico dei beni economici. Dobbiamo creare le condizioni per cui la materialità non ci distragga dall'esigenza di voler essere noi stessi. |