IL POSITIVISMO

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IL POSITIVISMO

pregi e difetti

Premessa

Il positivismo emerge in Europa in concomitanza con lo sviluppo industriale, scientifico e tecnologico. È la filosofia della borghesia in ascesa, produttiva e ottimistica.

Ci sono volute varie esperienze significative perché potesse nascere una filosofia così vincente, in grado d'imporsi con una certa sicurezza, almeno sino alla prima guerra mondiale.

La prima esperienza che ha fatto da spartiacque tra Medioevo ed epoca moderna, è stata, sul piano teorico, quella dello sviluppo della matematica, la quale, applicata alla fisica, ha prodotto una vera e propria rivoluzione astronomica.

La seconda esperienza è stata quella politica e culturale dell'Illuminismo, che ha posto le basi della laicizzazione del pensiero, della democratizzazione della politica, dell'uguaglianza formale nel diritto e che ha portato alla rivoluzione francese.

Queste due fondamentali esperienze storiche, dai potenti risvolti culturali, hanno portato nell'Ottocento, parallelamente allo sviluppo industriale delle nazioni, alla nascita della filosofia più tipica della borghesia, quella appunto del positivismo.

Oltre a tutto ciò vi è un altro elemento da considerare, il cui peso specifico, relativo alla formazione di questo sistema capitalistico, è difficilmente quantificabile, benché sicuramente di un certo rilievo: il colonialismo. Senza questo fenomeno è probabile che il capitalismo europeo si sarebbe sviluppato meno velocemente, o comunque sarebbe stato caratterizzato da molti più conflitti interstatali, destinati a ripetersi nel tempo in forme sempre più cruente. Il colonialismo è stato avvertito, in Europa occidentale, come una valvola di sfogo per i problemi economici che non si riuscivano a risolvere.

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Nei manuali di filosofia, quando si parla di positivismo, s'includono anche l'utilitarismo, il liberalismo, l'evoluzionismo e altre correnti, all'interno delle quali è difficile trovare il bandolo della matassa, ovvero ciò che le tiene unite.

Se si guardano dal punto di vista strettamente filosofico, contengono aspetti sicuramente condivisibili, in quanto concedono assai poco al misticismo e alla metafisica, ma se si guardano dal punto di vista sociale o politico si ha l'impressione che siano tutte pesantemente influenzate dagli interessi della borghesia. Non c'è neanche un intellettuale, tra quelli che gli autori dei manuali prendono in esame (Saint-Simon, Comte, Bentham, Mill, Stuart Mill, Ricardo, Malthus, Darwin, Spencer, Cattaneo, Lombroso, Ardigò...), che si metta dalla parte dei lavoratori, siano essi dell'industria o dell'agricoltura. Tutti sono preoccupati soltanto di difendere gli interessi di chi detiene capitali da investire in imprese commerciali, finanziarie o industriali. Questo perché si è convinti che il progresso e il benessere possono provenire soltanto da questi ambienti. E tutti, nessuno escluso, sono affascinati dall'idea che, nel realizzare tale progresso, si tenga conto del valore della scienza applicata alla tecnologia.

Persino l'intellettuale che più sembra avvicinarsi alle idee del socialismo (pur nella sua variante riformistica), Robert Owen, non ha dubbi nel ritenere che il progresso dell'umanità dipenderà dallo sviluppo della scienza e dell'industria. Tuttavia, quando parlano di lui, gli autori dei manuali lo ritengono particolarmente ingenuo e illuso e, a riprova di ciò, mostrano che i suoi esperimenti di gestione collettiva della produzione e del consumo fallirono tutti. Eppure proprio a lui si deve la fondazione del socialismo cooperativistico.

John Stuart Mill

Vediamo ora gli aspetti condivisibili del positivismo. Uno lo troviamo nella logica di John Stuart Mill, secondo cui tutta la conoscenza è basata sul metodo induttivo, cioè da molti particolari si può ricavare un principio generale. Non esiste alcun innatismo conoscitivo, in quanto tutto dipende dall'esperienza. Quelle che noi riteniamo verità assiomatiche sono dovute al fatto che la nostra mente, per un proprio processo di economia, tende a fissare nella memoria una proposizione generale che riassume molti fatti particolari incontrati nell'esperienza.

Un principio splendido, sicuramente non metafisico, anche se astratto, come lo sono spesso i ragionamenti dei positivisti, che amano stare dalla parte della borghesia. Trasposto infatti sul piano politico quel principio non vuol dire nulla. Supponiamo infatti che una determinata esperienza sia vissuta negli agi e nei lussi, in modo tale che il soggetto non abbia mai modo di sapere da dove veramente gli viene la ricchezza di cui beneficia, cioè che non sappia assolutamente nulla della sofferenza di chi viene sfruttato, di chi patisce le contraddizioni di un sistema iniquo, basato sull'ingiustizia sociale; e supponiamo che i mezzi di comunicazione che potrebbero rivelargli come stanno veramente le cose siano gestiti da persone come lui, interessate soltanto a fare profitti di ogni genere, quale verità si potrà mai ricavare dalla propria esperienza o dalla propria logica induttiva?

Stuart Mill diceva che ogni conoscenza è il prodotto di un'inferenza. È giustissimo, ma se l'esperienza che sta alla base di questa conoscenza, è viziata in partenza, quale sarà il livello di verità che si potrà raggiungere? Come hanno fatto Marx ed Engels, figli di una borghesia media (il primo), alta (il secondo), ad arrivare a capire le fondamentali contraddizioni economiche del capitalismo? Le ha forse capite Stuart Mill? Vediamo cosa dice sul piano politico-sociale.

Nel Saggio sulla libertà (1859), nello scritto politico Considerazioni sul governo rappresentativo (1861) e nello scritto Utilitarismo (1863) egli sostiene che prima vengono i diritti degli individui singoli, poi quelli della collettività. Da un lato vuole che la democrazia sia la più possibile allargata, in modo tale che la minoranza controlli la maggioranza; dall'altro è assolutamente contrario allo Stato sociale o assistenziale (per non parlare del socialismo), in quanto - secondo lui - qualunque forma di sussidio determina nei poveri l'abitudine alla dipendenza, disincentivando l'iniziativa individuale.

A suo parere le leggi dovevano favorire la cooperazione e la libera circolazione delle merci, abolendo i dazi doganali protezionistici, come se i lavoratori, in genere privi di tutto, potessero davvero ottenere particolari benefici da un mercato assolutamente libero, non regolamentato, in cui inevitabilmente prevalgono le caratteristiche peggiori degli individui. Questo poi senza considerare che la libera circolazione delle merci era già una forma di "sussidio" nei confronti dell'industria, soprattutto di quella monopolistica. La stessa assenza di uno Stato sociale non era che un favore assicurato alle aziende sul versante fiscale.

La sua morale utilitaristica ha poi un che di spassoso quando viene paragonata a quella evangelica. Stuart Mill vedeva nella massima ebraico-cristiana "Ama il prossimo tuo come te stesso" un principio-base della morale utilitaristica: nel senso che se ci si comporta verso gli altri così come ci si comporta verso se stessi, l'armonia è garantita; se non si vuol far del male agli altri, così come non se ne vuole fare a se stessi, la pace è assicurata.

Princìpi assolutamente astratti, formulati da un intellettuale che presumeva d'essere molto concreto, molto "induttivo"; e che poi, alla fine della sua vita, nei tre saggi sulla religione (1874), arriva a dire che dio e l'umanità sono chiamati a cooperare in vista del perfezionamento del mondo.

È proprio vero che la borghesia perde il pelo ma non il vizio. Di primo acchito sembra vicina alle esigenze dei lavoratori, disposta a condividere la necessità di combattere le rendite feudali e le pretese aristocratiche (laiche ed ecclesiastiche); ma poi, alla resa dei fatti, quando si tratta davvero di scegliere da che parte stare, non ha mai dubbi di sorta.

Thomas R. Malthus

Che l'anglicanesimo sia una religione in tutto e per tutto protestante (nonostante che sul piano rituale assomigli non poco al cattolicesimo-romano) è dimostrato anche dal fatto che il pastore anglicano Thomas Robert Malthus era contrario a qualunque forma di assistenzialismo statale. In nome cioè dell'individualismo protestantico e quindi borghese chiedeva di abolire la legge sui poveri; non solo, ma per evitare un'eccedenza di popolazione dovuta alla povertà (i poveri fanno più figli dei ricchi), chiedeva l'astensione dal matrimonio, ovvero l'assunzione di pratiche d'astinenza e di castità.

Egli era convinto che un eccesso di popolazione portasse alla miseria anche i ricchi. Non riusciva assolutamente a capire che la ricchezza di una nazione dipende prevalentemente dal lavoro dei cittadini. Misurava la ricchezza in termini meramente quantitativi, ritenendo che la progressione geometrica della popolazione non potesse star dietro alla progressione aritmetica delle risorse alimentari.

Così dicendo non si rendeva conto che il sovraffollamento urbano era una diretta conseguenza della penetrazione del capitalismo nelle campagne; della trasformazione degli arativi in prativi; della recinzione, da parte degli agrari, dei terreni comuni; della trasformazione dell'autoconsumo in produzioni monocolturali per i mercati; della meccanizzazione di buona parte dei lavori agricoli (cosa che richiedeva molta meno manodopera).

Se fosse dipeso da lui e se avesse avuto a disposizione una scienza adeguata, il reverendo Malthus, professore di economia politica al College of East India di Haileybury, avrebbe praticato una sorta di selezione naturale eugenetica, una sterilizzazione delle donne povere, avrebbe obbligato tutti a praticare il controllo delle nascite (come oggi in Cina), imponendo un numero massimo di figli, oppure avrebbe spedito verso le colonie britanniche tutti i poveri della madrepatria.

Era quasi arrivato a rimpiangere i "bei tempi" in cui i rischi dell'esplosione demografica venivano risolti da guerre, epidemie e carestie. Al massimo arrivò a dire che se proprio si voleva dare un sussidio di disoccupazione, questo non poteva essere superiore al minimo vitale, così si evitavano i matrimoni e quindi i figli; inoltre meno gente è alla ricerca di lavoro, più alti saranno i salari.

Probabilmente si rendeva conto d'aver detto delle cose molto ciniche, tant'è che il suo famoso Saggio sul principio di popolazione l'aveva pubblicato anonimo, e nelle edizioni successive si affannò a difendere i suoi intenti filantropici, sostenendo di non essere affatto il nemico dei poveri e nemmeno l'avversario di un ragionevole incremento della popolazione.

Tuttavia questo astratto economista (così predisposto a fare gli interessi dei latifondisti) ebbe notevole influenza su nomi eccellenti come Ricardo e persino John Maynard Keynes, o come Charles Darwin, Alfred Russel Wallace ed Herbert Spencer. D'altra parte non c'è da stupirsi, poiché ancora oggi il suo pensiero ha un certo fascino su chi attribuisce la povertà e i fenomeni migratori allo squilibrio tra la crescita della popolazione e lo sviluppo delle risorse e non alle contraddizioni del capitalismo. Infatti è soltanto il tipo di produzione che decide se, quando e come una popolazione può essere considerata più o meno eccedente.


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Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Teoria
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Aggiornamento: 14/12/2018