LA PRASSI E LA REALTA’ LOCALE

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LA PRASSI E LA REALTA’ LOCALE

Non c’è assolutamente modo di stabilire la verità delle cose con un criterio astratto, fissato a priori. Se questo criterio fosse quello della dialettica, cioè della legge che spiega l’attrazione e repulsione dei contrari, l’unità sintetica di tesi e antitesi, allora bisogna dire che questo criterio indica, al massimo, un processo avvenuto (ex-post), ma non offre dei chiarimenti univoci relativi ai singoli momenti in cui il processo avviene (in actu).

Questo perché l’esistenza è in sé irriducibile a qualunque sistema interpretativo, che sarebbe astratto anche se avesse elementi di tipo politico o socioeconomico.

La dialettica può comprendere e descrivere un processo quand’esso è terminato, cioè a posteriori, ma non può spiegarlo nel mentre si svolge, cioè non può dare delle indicazioni di merito per risolvere determinati problemi, proprio perché ciò si configurerebbe come un’operazione meramente intellettuale.

Gli uomini devono restare tali quando affrontano le loro contraddizioni, cioè devono affrontarle come collettivo, ragionando insieme su delle ipotesi praticabili di soluzione. In nessun libro della storia si potrebbe trovare il minimo aiuto per poter risolvere un determinato problema, lì dove esso si pone (hic et nunc).

La prassi è il criterio della verità e quindi ha un primato assoluto sulla teoria, anche se, indubbiamente, essa va aiutata da una teoria intelligente, altrimenti non si troverà alcuna soluzione ad alcun problema, neppure se ci pensassero sopra, contemporaneamente, un milione di persone.

Tuttavia, il fatto che debba esistere una teoria intelligente, non significa che debba essere la prassi a conformarsi meccanicamente ad essa. Una teoria intelligente può soltanto offrire uno spunto, un suggerimento, un’indicazione di massima, ma poi la soluzione va cercata nel confronto tra le diverse opinioni, che si devono poter esprimere liberamente e in maniera esauriente.

Se questo primato ontologico e operativo della prassi ci fosse chiaro, noi saremmo costretti a interessarci soltanto di problemi locali, cioè solo di quei problemi che pensiamo di poter risolvere, sapendo di averne i mezzi sufficienti per farlo.

E se il problema locale fosse per noi il perimetro in cui far agire una prassi decisionale, deliberativa, allora dovremmo far di tutto per impedire che il livello locale subisca dei condizionamenti che gli facciano perdere la piena autonomia. Se il locale è pesantemente condizionato da elementi esterni, esogeni, estranei, la possibilità di risolvere i problemi sarà tanto più debole quanto più forti saranno queste pressioni.

Là dove esiste una centralizzazione statale dei poteri, che ovviamente non può tener conto, nella loro complessità e vastità, delle esigenze delle realtà locali, lì esiste anche un’ideologia politica più o meno ufficiale, una Costituzione più o meno vincolante, una serie di Codici istituzionali di comportamento e soprattutto una serie infinita di leggi scritte.

Lo Stato è quella somma astrazione che ha la pretesa di regolamentare il più piccolo aspetto della concreta vita sociale. Chi non capisce un concetto così semplice, si deve chiedere se egli stesso non stia vivendo una vita del tutto astratta.

CHE COS'E' UN APPROCCIO OLISTICO ALLA REALTA'?

Quando Lenin scrisse a Gorki ch'era finito da un pezzo il periodo in cui ci si poteva opporre a un'idea religiosa con un'altra idea religiosa, aveva detto una sacrosanta verità ateistica. Egli quindi non poteva che rifiutare nettamente qualunque commistione di socialismo e religione.

Questo suo modo di porsi, da ideologo, venne poi temperato da considerazioni di tipo politico, in quanto, a rivoluzione compiuta, egli si rendeva perfettamente conto, essendo una persona intelligente, dotata di elasticità mentale, che, senza il concorso dei credenti, sarebbe stato impossibile costruire il socialismo in un paese prevalentemente ortodosso e di scarsa cultura scientifica e umanistica (almeno rispetto all'Europa occidentale). Alla fine della sua vita raccomandò di non essere intolleranti e di non offendere i sentimenti dei credenti, cercando piuttosto con loro un'intesa su questioni pratiche, di natura sociale ed economica.

Tuttavia, il marx-leninismo non è mai arrivato a comprendere sino in fondo quanto l'aspetto culturale, cioè normativo e assiologico, di una religione possa influenzare i processi socio-economici. Una posizione come quella leniniana non avrebbe potuto aiutare gli studi di tipo storico-culturale, anche perché, quando si pone la religione come mero fenomeno sovrastrutturale (cioè come riflesso), si tende inevitabilmente a sottovalutarla nell'analisi della struttura socio-economica. È peraltro significativo che tale sottovalutazione abbia sempre comportato, nell'analisi marxista, un accorpamento del momento "sociale" in quello "economico". Cioè l'aspetto "sociale" (che non riguarda solo i rapporti produttivi veri e propri, ma anche le tradizioni, i costumi, le abitudini, i riti e i miti, l'immaginario collettivo, ecc.) è stato per così dire inglobato, ricondotto, circoscritto in un orizzonte molto angusto, quello appunto economico-produttivo, come se questo fosse sufficiente per spiegare tutto il resto.

Sostanzialmente il marxismo non ha capito (però con Gramsci si sono fatti notevoli passi avanti) che, al centro dell'analisi di una determinata società o periodo storico, va posto l'essere umano qua talis, preso nella sua interezza e globalità. Il fatto che la cultura (cioè le idee, i valori...), sia molto più "invisibile" dei rapporti economici, non significa affatto che sia meno "potente" o meno "condizionante". I rapporti possono essere cambiati anche sulla base di motivazioni che pescano nella religiosità una certa "spinta", una certa "legittimazione" (basta vedere quale ruolo ha avuto il protestantesimo per la nascita del capitalismo - cosa che, peraltro, anche Marx aveva intuito).

Questo per dire che un vero marxista non deve avere atteggiamenti di preclusione verso nessun aspetto della realtà. Anzi, deve far capire al credente d'essere in grado di esprimere, da ateo, delle considerazioni obiettive persino sui contenuti della religione, mettendo i credenti di fronte alle loro responsabilità di "credenti".

Un marxista deve essere in grado di dimostrare quando, nel passato, una determinata posizione religiosa andava considerata migliore di un'altra, proprio in quanto più vicina alle idee dell'umanesimo laico e/o del socialismo democratico. Egli cioè non può permettere che esista un settore, quello appunto religioso, che si sottrae alla sua interpretazione della realtà. Se all'interno della considerazione generale delle cose va posto l'essere umano, non è possibile rinunciare ad analizzare quegli aspetti che, per tradizione, non rientrano negli interessi dominanti del materialismo storico-dialettico.

Questo, beninteso, non vuole affatto dire che l'esigenza di compiere una rivoluzione politica va subordinata a un'analisi della sovrastruttura, o che, prima di compiere la suddetta rivoluzione, bisogna preoccuparsi di ottenere un certo consenso in campo culturale. Vuol semplicemente dire che, per realizzare un'alternativa radicale al sistema dominante, nessun aspetto può essere escluso. Dobbiamo avere un approccio olistico nei confronti delle contraddizioni antagonistiche della realtà.


Web Homolaicus

Foto di Paolo Mulazzani


Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Teoria
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Aggiornamento: 14/12/2018