ISLAM E DEMOCRAZIA

RELIGIONE E NO
Letture sul tema della religione e della laicità


7 - ISLAM E DEMOCRAZIA

La sociologa Fatema Mernissi, prova a dare una risposta proprio a una parte degli interrogativi sollevati. (100) Naturalmente, l’autrice è invisa ai tradizionalisti e agli integralisti. Se vogliamo, considerando anche l'ampio credito di cui gode, è una delle tante dimostrazioni viventi delle differenziazioni esistenti nel cosiddetto mondo musulmano.

I libri dell'autrice, che è marocchina, insegnano molto sul mondo islamico, ma quello di cui parlo qui rappresenta uno sforzo particolare teso a individuare la possibilità di esistenza di un altro islam e lo fa ricostruendo le radici storiche di correnti di pensiero musulmane che sono state sconfitte secoli fa, ma che sono riemerse continuamente nelle vicende storiche, preoccupando i dispotismi di volta in volta al potere. Si tratta di una tradizione più colta che comporta anche un diverso atteggiamento nei confronti delle donne.

Intanto, per l'islam "il modello democratico rappresenta una rottura con la miseranda storia di sempre, quella dei massacri e dei pogrom sia intestini sia tra stati rivali", ma nell'opinione pubblica più corrente del mondo arabo essa ha una certa connotazione negativa perché "richiama ciò che, nei secoli delle tenebre preislamiche, coniugava la violenza con la sua legittimazione”.

A me pare che tutto il libro confermi che il problema primario o uno dei problemi principali, nel confronto tra Occidente e mondo islamico, sia il conflitto tra individualismo, nel senso della responsabilità personale, e il comunitarismo tenace, tradizionalista e invasivo delle società arabe. "Le donne che camminano per strada senza hijab [il velo] sono percepite come fuori della norma, fuori delle frontiere" – scrive l'autrice. E questo perché hanno superato la frontiera dello haram, ossia dello spazio proibito e interdetto agli uomini, per sconfinare in territori non loro.

Quello spazio è, nello stesso tempo, una protezione e una segregazione e, nelle polemiche occidentali sul velo, viene messo l'accento – a seconda della tesi che si vuole sostenere – sull'una o sull'altra accezione. Ma quel che deve essere chiaro è che "circolare liberamente con il viso scoperto equivale a esibirsi allo sguardo dell'altro e in questo caso l'uomo è privo di difese contro simili tentazioni”. Non potrebbe essere messo meglio in evidenza il camuffamento religioso di un maschilismo retrogrado e umiliante. È la donna che tenta e che fa cadere nel peccato l'uomo, quindi: coprire, relegare, confinare... Ora, rimettere in questione il rapporto ineguale tra uomo e donna esistente nell'islam significa forse scompigliare il progetto divino? L'odore di Medioevo e di costumi tribali che emana dall'intera faccenda è facilmente percepibile, quali che siano gli argomenti che tentano di giustificare l'uso del hijab.

La Mernissi non sfugge al problema di fondo e attacca i vari regimi integralisti e semi integralisti del mondo islamico, per cui "identificare la democrazia con una malattia occidentale e rivestirla del chador dell'estraneità, è un'operazione strategica che vale milioni di petrodollari".

Cioè, aggiungo, sull'interpretazione restrittiva del Corano campano non solo la metà maschile della popolazione, ma anche regimi tirannici e oligarchici come l'Arabia Saudita, strettamente alleata dell'Occidente. Nonché il potere del clero, sul quale va però annotato che mentre nell'Islam sciita (minoritario) all'imam si deve obbedienza, nell'islam sunnita l'imam non è mai infallibile.

Eppure, nella storia dell'Islam non sono mancati gli esempi di pensatori e anche di movimenti che difendevano la libertà di pensiero. Accanto ai filosofi sufi e a quelli influenzati dall'ellenismo, i quali rigettavano l'idea della piena sottomissione dell'individuo e cercavano un posto adeguato per l'opinione personale e per la ragione, un altro filone (i Kharigiti) lottava contro l'autoritarismo e per gli stessi obbiettivi dedicandosi però ad "assassinare gli imam che non piacevano loro" (ma esiste anche un antico ramo che rifiuta la violenza, gli Ibaditi, oggi assolutamente minoritario). (101)

Tutte e due le tendenze, come altre similari che si manifestarono più volte nella storia dell'islam, furono ferocemente represse dai califfi, ma continuarono a riemergere sotto vari nomi lungo tutto il corso della storia musulmana. Ora, la cosa assurda, nota Mernissi, è che gli argomenti che erano al centro di quei conflitti storici, ossia quello dell'obbedienza al leader della comunità e quello della libertà individuale, "oggi ci vengono presentati come importati dall'Occidente". Un'osservazione che riprende per altri versi anche Amartya Sen.

I Mu'taziliti sollevarono la questione "se gli individui siano responsabili dei propri atti" irrobustendo la tradizione razionalista, che "propose di reintrodurre la ragione (‘aql) e l'opinione personale (ra'y) nel processo politico". (102) La tradizione razionalista dei Mu‘taziliti "trionfò e riuscì a seppellire una dinastia corrotta, gli Omayyadi". Il citato testo di Bernard Lewis getta una luce di maggiore comprensione sulle ragioni economiche e sociali che portarono non a un semplice cambio di regime, ma a una vera e propria rivoluzione. Fatema Mernissi, come tutti gli islamici illuminati, simpatizza per quelle prime scuole storiche, che propendevano per l'uso della ragione e per un'interpretazione allegorica delle Scritture, al fine di superare le loro evidenti contraddizioni e l'impossibilità di metterne in pratica alcune prescrizioni e credenze, ivi compresa quella di una concezione assai materialista dell'aldilà.

Ma ben presto la successiva dinastia degli Abbasidi divenne dispotica e i razionalisti vennero condannati e dispersi come succubi degli antichi filosofi greci e come atei. La feroce repressione di qualsiasi autonomia intellettuale e della possibilità di una ricerca libera da parte dei califfi, spense la fioritura scientifica e intellettuale del mondo musulmano, alla quale l'Europa deve molto, e lo fece rotolare "verso il precipizio della mediocrità, dove tuttora vegeta".

Accentuando anche quella che il medievista Franco Cardini giudica come "la tendenza tipica della cultura musulmana tradizionale, consistente nell'ignorare quelle diverse da lei”. Per inciso, è davvero assurdo che gli integralisti islamici usino l'argomento del debito culturale del Medioevo europeo nei confronti dell'islam, quando i loro predecessori distrussero, per l'appunto, la libertà di ricerca e l'autonomia della ragione, soffocando quel rinascimento culturale con le persecuzioni. Una fioritura preceduta dalle traduzioni in arabo delle opere dell'antichità, le quali gettarono le basi della medicina, della scienza e della filosofia arabe, alle quali attinse a piene mani un'Europa medievale dimentica del suo passato. Vero è – osserva Bernard Lewis – che "di solito i traduttori erano cristiani [soprattutto eretici nestoriani] ed ebrei, in maggioranza siriani". Ma anche persiani, egiziani e persiani. Dopodiché nacque una generazione di scrittori e di studiosi musulmani originali.

Dopo di allora, dopo le persecuzioni della seconda fase del califfato abbaside, che era diventato un'autocrazia, l'unico spazio di opposizione, aggiunge l'autrice, rimase soltanto "alla sfida religiosa che predica la violenza come linguaggio politico".

Lo stesso Lewis conferma la tesi di Fatema Mernissi, scrivendo che "l'accettazione dell'eredità greca da parte dell'islam diede vita a una lotta tra la tendenza scientifica razionalista del nuovo sapere da una parte, e la natura atomistica e intuitiva del pensiero religioso islamico dall'altra”. Vinse il punto di vista religioso e, nonostante il lungo periodo di ulteriore espansione islamica, la radice della successiva eclissi araba e del sorpasso operato dall'Occidente viene, a mio avviso, essenzialmente da quella vittoria dell’integralismo sulla ragione. Ma da lì, da quella tradizione secolare di resistenza a un potere dispotico, aggiunge la Mernissi, proviene anche il fenomeno del terrorismo attuale. È la tradizione dell'islam ribelle che reagisce all'invadenza e all'ingiustizia del potere uccidendo il leader senza porsi il problema del poi e del cambiamento strutturale degli assetti politici e sociali. Una specie di ribellismo anarcoide e senza speranza.

Osservo però che il terrorismo attuale sembra operare un rovesciamento totale della tradizione, perché si impadronisce del tema dell'obbedienza cieca e persegue la ricostituzione del califfato di tutto l'islam, con un progetto di potere totalitario. Comunque, fu la dinastia abbaside a far precipitare i musulmani nell'oscurantismo condannando gli intellettuali liberi e chiamando a collaborare con il califfato la scuola di pensiero "basata sulla ta‘a [l'obbedienza], che metteva al bando la riflessione. Questa tradizione è chiamata shari‘a, e ha dato luogo alla confusione che ancora oggi blocca il processo democratico, legando la nostra cieca obbedienza al leader con il nostro rispetto per la religione".

La sistemazione di questo indirizzo venne formulata nel XII secolo dall'iraniano Abd al-Karîm al-Shahrastânî, il quale fece coincidere l'obbedienza con la rivelazione, per cui tutta la civiltà islamica era riassumibile con il solo sapere rivelato in lingua araba. (103) L'autrice trascrive un passo centrale dell'opera di Shahrastani, secondo cui: "Un musulmano è colui che crede e obbedisce. La religione è obbedienza. Un musulmano che obbedisce è uomo di religione. Colui che dà la priorità alla propria opinione è un innovatore modernizzante e un creatore". Le parole chiave che segnano il conflitto interno nelle società islamiche attuale sono, per l'autrice, tutte già contenute nell'opera di Shahrastani: nel polo dell'obbedienza al leader ci sono la fedeltà a Dio, la religione, il credo e l'obbedienza; nel polo razionale ci sono l'opinione personale, l'innovazione, la creazione. Attualmente, le tre parole chiave del polo razionale vengono presentate nelle prediche degli imam tradizionalisti come straniere.

Il problema di fondo, per l'autrice, risiede nel fatto che "la rottura con lo stato medievale, che usava il sacro per legittimare e mascherare un governo arbitrario, non ha mai avuto luogo nel mondo arabo”. In sostanza, nel mondo islamico non c'è mai stata quella separazione tra la qualità di cittadino e quella di credente che è avvenuta in Occidente, per cui lo Stato non ha assunto una funzione di garanzia per il rispetto delle opinioni individuali e per una cultura che sopportasse l'esercizio della critica, salvo brevi periodi dovuti all'autonoma decisione di califfi o di regnanti illuminati, in India come nel Vicino oriente. Oltre tutto, l’epoca del colonialismo occidentale è stata altrettanto brutale e miope, per cui l'esperienza della modernità che la gente fa nel mondo arabo è priva di uno schema mentale di base. (104) Perciò non ne comprenderebbe i fondamenti, i concetti essenziali. La libertà di pensiero, per esempio, viene spesso identificata – anche grazie alla propaganda che gli stati arabi fanno nelle scuole – con il terrorismo kharigita e con il disordine.

In effetti, i movimenti nazionalisti che portarono all'indipendenza degli stati musulmani, per radicarsi tra il popolo, adottarono una specie di approccio nazional-popolare, ricuperando le tradizioni più durature e consolidate, e innestando su queste i concetti della democrazia moderna, come il parlamento, la costituzione e il suffragio popolare. Ma saltarono completamente alcuni passaggi essenziali, come "la sovranità dell'individuo e la libertà di opinione, che costituiscono la base filosofica di queste istituzioni e concetti". Ora, durante la fase della decolonizzazione, i riformatori (e i militari che presero il potere), dialogando con i religiosi ma escludendo le espressioni del pensiero razionale e indipendente, "cercarono di legare il concetto di costituzione statale alla shari‘a, la legge di origine divina".

Sarebbe come se in Occidente la formazione degli stati moderni si fosse ispirata e avesse chiamato esplicitamente in causa i Vangeli e le prescrizioni religiose, invece eh la loro separazione, che è peraltro una prospettiva accarezzata da molti ambienti tradizionalisti cristiani. E che, in modo più mediato ma non meno insidioso, fa anche il Vaticano con la sua insistenza per inserire nella costituzione europea le radici cristiane. Ne riparlerò; intanto è bene ricordare che in Italia un tentativo di collegare la religione all’autonomia del cittadino vide la luce con i cattolici liberali alla Gioberti, duramente sconfitti dalla strada imboccata dal Vaticano e dalla condanna senza appello del liberalismo proclamata nel 1832 da Gregorio XVI con l’enciclica Mirari vos, con la quale vennero condannati tutti i principi del liberalismo, religioso e politico. (105)

Comunque, nel mondo arabo, coloro che chiedevano di tenere distinto il concetto di costituzione da quello di legge divina "furono condannati come infedeli, blasfemi, alleati dei colonizzatori, agenti del nemico”.

L'autrice non si sottrae all'inquietante interrogativo di come mai il fondamentalismo islamico possa reclutare tanti adepti nei dipartimenti scientifici e negli istituti tecnologici, cioè proprio là dove l'idea di un pensiero libero è improntato a un metodo naturalistico. La risposta che non si possono formare degli scienziati "in società che rigettano la libertà di pensiero come contraria all'identità islamica", è convincente ma non esauriente. Qui c'è qualcosa di più profondo, che da un lato riguarda forse un sentimento fortemente interiorizzato di storica emarginazione a cui qualunque musulmano reagirebbe in qualche modo e, dall'altro, c'è l'inprinting che in tutte le scuole e nelle famiglie viene fissato nel cervello dei bambini, proprio sulla questione della non autonomia della persona e sul rapporto tra umano e divino. Il premio è la pace interiore, purché si sacrifichi il desiderio: "rinunciare alla libertà di pensiero e sottomettersi al gruppo è il patto che condurrà alla pace”. E, probabilmente, c'è anche il retaggio di quel modo di pensare atomistico di cui parlava Bernard Lewis.

Più avanti, Fatema Mernissi descrive i metodi di insegnamento in uso nella scuola coranica di massa dove si impara a leggere e a scrivere a partire dai tre anni, mandando a memoria i versetti del libro sacro in una lingua in genere non più parlata. Una specie di lavaggio del cervello, più o meno come in una vecchia scuola catechistica a tempo pieno, dove un'identità preformata viene scolpita nella mente dei fanciulli. "Tutte [le scuole coraniche] – aggiunge l'autrice – assomigliano molto alle descrizioni delle scuole medievali". Ma la differenza, rispetto al passato, è che oggi i bambini più ricchi frequentano scuole di impronta occidentale. La scuola coranica di quartiere, d'altra parte, quella che ha un'affluenza di massa, assicura la sorveglianza di un bambino per l'intera giornata e non costa più di tre dollari al mese. Per cui, alla fine, e senza voler con questo generalizzare, la massa della popolazione è formata nelle scuole coraniche, mentre le élites ricevono un’educazione più moderna, con quali effetti dal punto di vista culturale e politico è facile immaginare.

C'è, infatti, una radicalizzazione imposta dall'aumentata distanza tra ricchi e poveri, che coinvolge idealmente anche gli intellettuali benestanti (o una parte di loro), un malessere sociale diffuso, "radicato nella frustrazione economica e nelle impari opportunità" che "usa il linguaggio della religione sia come linguaggio di protesta e di rivolta che di dissimulazione e manipolazione". In queste condizioni, con il tramonto di ideologie politiche alternative di speranza e con lo strapotere occidentale nei mercati e nelle ragioni di scambio, la religione appare come l'unica via di uscita, dotata di una sufficiente potenza emotiva per sperare in un mondo migliore. D'altra parte, aggiunge con amarezza l'autrice, gli uomini di affari e i governi arabi temono la democrazia e la richiesta di rispettare i diritti dei cittadini, così come "i principi del petrolio, sarebbero pronti a investire in tutte le religioni del mondo se ciò potesse bloccare l'invasione della democrazia".

Un capitolo del libro è dedicato al conflitto tra la Carta delle Nazioni Unite e il Corano. (106) Che è, a mio avviso, il punto politico (e culturale) di fondo che nelle accese discussioni a cui si assiste viene raramente citato. La Carta è un documento fondamentale di cui, per inciso, non possono essere depositari i soli occidentali, perché dovrebbe rappresentare un patrimonio comune dell'umanità e che ha radici – come sostiene Amartya Sen – non solo nella tradizione della rivoluzione francese o di quella americana, ma anche nella storia di altri paesi.

Ma l'esistenza della Carta, scrive l'autrice, è un segreto ben custodito nelle valigette dei diplomatici arabi, del tutto ignoto alla grande massa delle popolazioni arabe. Certamente la storia sarebbe cambiata se l'Arabia Saudita (uno degli stati firmatari originari della Carta) "avesse mobilitato il suo enorme apparato educativo e di propaganda e la sua rete di banche per spiegare che lo stato secolare sancito dall'Articolo 18 [l'articolo che riconosce il diritto alla libertà di pensiero, di coscienza, di religione] non è tanto uno stato composto da funzionari atei, quando uno stato che proibisce ai suoi agenti di sperperare fondi pubblici per imporre la propria interpretazione della religione”. Invece, le leggi interne della maggior parte di questi stati contrasta con la Dichiarazione universale dei diritti umani da essi sottoscritta, anche negli Stati che hanno ufficialmente adottato un regime laico. Ma lo Stato che è più fuori dal rispetto della Dichiarazione è l'Arabia Saudita, la quale, come si sa, è la sorgente principale del finanziamento delle scuole coraniche che, in tutto il mondo, predicano il credo wahhabita, ossia una versione integralista dell'islam e una interpretazione letterale del Corano. (107)

Nei pochi Stati arabi in cui la modernizzazione è stata proposta al posto della tradizione, l'ossatura della modernità, che coincide in larga parte con la libertà di parola, di pensiero e di associazione, è stata paradossalmente negata. I presidenti lo sono stati praticamente a vita e i cittadini non hanno avuto alcuna voce in capitolo su come spendere i soldi che lo Stato ricavava da loro. Comunque, "le libertà pubbliche di cui parla la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani suonano in modo strano in una società che teme l'individualità, perché la considera la fonte di ogni squilibrio”. A me pare, come ho ripetutamente detto, che sia qui il centro del problema e del confronto culturale da sviluppare.

In quale misura il comunitarismo tradizionale di quelle aree del mondo blocca la conquista di una più ampia libertà civile e politica, oltre alla creatività e all'innovazione, in quanto pericolose per la compattezza del gruppo? È possibile una separazione tra sfera politica e sfera religiosa, che attenui, se non elimini, il controllo totale che la religione pretende di avere sulla mente delle persone? E come mai anche nei rari casi in cui lo Stato arabo si dichiara laico le libertà democratiche sono limitate se non inesistenti?

Se la scelta fatta alla Mecca nell'anno 8 dell'Egira, di vincere l'anarchia e le lotte fratricide del tempo assoggettando l'individuo a un collettivo più vasto del clan tradizionale, in nome di una divinità totalizzante, per avere la pace era giusta allora, si deve osservare con l’autrice che "se la stessa scelta ci si presenta oggi, la risposta non ha gli stessi parametri e le stesse dinamiche, non richiede le stesse soluzioni”. Mi sembra che sia qui il punto della divergenza centrale tra quanto sostiene l’autrice e il tradizionalismo imperante nelle società islamiche, fino all'integralismo wahhabita e alle altre correnti estremiste. La tradizione deve essere reinterpretata alla luce dell'evoluzione della storia e ciò che manca nella cultura araba diffusa è quello storicismo (o il relativismo, così vituperato delle gerarchie cattoliche) che da noi può considerarsi superato solo perché è diventato patrimonio culturale acquisito e genericamente diffuso: è un meme, direbbe Dawkins. Non a caso, nel proseguire la sua analisi, l'autrice si dedica alla ricostruzione storica della predicazione del Profeta e alle ragioni del suo successo.

Certo, aggiunge Mernissi, non aiuta la diffusione di una cultura della modernità il fatto che tutti gli interventi militari siano stati praticamente presentati dai presidenti americani in nome del dio cristiano. A partire dalla dichiarazione diffusa in tutto il mondo da Bush senior nel 1991 nella quale si concludeva: "Questa sera, mentre le nostre forze armate combattono, loro e le loro famiglie sono nelle nostre preghiere. Dio benedica ognuno di loro e le forze di coalizione al nostro fianco nel Golfo”. La gente araba si chiese: "Ma di quale Dio sta parlando?". E il fatto che Bush junior mischiasse di continuo ragioni politiche e menzogne sull'esistenza di armi di sterminio di massa in Iraq con gli appelli e con un linguaggio intrisi di religione, ha semplificato il compito della propaganda integralista islamica di presentare ciò che avveniva come un'aggressione cristiana. Quelli frullavano insieme Dio e democrazia, questi percepivano di conseguenza le azioni militari come se fossero gli "attacchi mercenari delle orde preislamiche del Settimo secolo e delle successive crociate cristiane".

La reazione delle masse arabe all'iniziativa occidentale, che ha attraversato in modo pressoché omogeneo tutti gli stati islamici e che ha sorpreso gli occidentali, poggia sul concetto fondamentale della umma che trae origine da un versetto del Corano. La umma come "comunità formata da uguali, e quella della umma la cui solidarietà attraversa i confini e include le culture, dando ai musulmani il confortante senso di appartenenza, di comunione universale che colpisce così tanto quando si viaggia all'estero". Un universalismo, debbo notare, che mentre include popoli e storie assai diversi, esclude nello stesso tempo tutti quelli che non hanno la stessa fede.

Un universalismo non dissimile, come abbiamo già visto, dall'universalismo di altri monoteismi. Un universalismo che afferma l'uguaglianza solo tra chi crede nello stesso Dio, e che non è il frutto di una convenzione tra le genti ma discende da un ordinamento presunto divino.

Un universalismo di grado inferiore a quello laico, insomma. Eppure, osserva l'autrice, non si potrebbe spiegare l'enorme espansione storica e anche attuale dell'islam "solo con lo spirito combattivo degli arabi pieni di fervore religioso", senza tenere nel debito conto un fattore molto importante: "l'insistenza del Corano sull'uguaglianza di tutti, a prescindere dalla razza o dall'estrazione sociale". Osservo però che ci sarebbe molto discutere sulla realizzazione storica di questi principi (ancora una volta il mio riferimento è a Bernard Lewis e alla sua storia del mondo arabo) e sulla sua pratica attuale.

L'analisi e la reinterpretazione dell'islam da parte di Mernissi prosegue addentrandosi in una ricostruzione della sua storia iniziale, quando gli arabi avrebbero osato fare due cose che nessun'altra civiltà avrebbe tentato di fare: "rinnegare il passato, un passato oscuro [quello preislamico], e nascondere il femminile". Dubito che nascondere il femminile sia una prerogativa del solo islam. Ma è vero che, per quanto riguarda il passato, in Europa, dopo un periodo di sistematica cancellazione della civiltà classica e pagana (la celebrata funzione di trascrizione e di salvataggio dei manoscritti antichi da parte dei monaci non può nascondere il fatto che centinaia di altri testi furono distrutti o non riprodotti per motivi religiosi), c'è stato un Rinascimento che ha ricuperato le radici della propria storia, sia pure reinterpretandola. Nulla di tutto ciò sarebbe avvenuto nel mondo islamico. D'altra parte, sarebbe un po' azzardato sostenere che le società preislamiche potessero essere una fonte di civilizzazione e di ispirazione per le età successive. Anzi, ho l'impressione che il loro tribalismo, traghettato intatto nel nuovo contesto religioso, sia stato e sia tuttora uno dei problemi di fondo del mondo islamico.

Le divinità preislamiche della jahiliyya che è stato abbondantemente usato durante le recenti guerre da parte delle televisioni arabe - sono state, dunque, del tutto cancellate e associate all'oscurità, alla violenza, al demonio. (108) Ora, gran parte di quelle divinità erano femminili e ciò avrebbe comportato l'affermazione di una cultura antifemminile. "Al pari dell'era moderna – afferma Mernissi – l'età dell'oscurità era caratterizzato da un circolo di povertà, violenza e disordine. L'islam spezzò questo circolo e insegnò agli arabi ad appropriarsi delle stelle e del tempo per fabbricarsi un presente. Ma per poter fare questo, prima di tutto bisogna distruggere al-‘Uzza [la venere araba preislamica] fisicamente, ma anche cancellarla dalla memoria: il femminile non avrebbe più dovuto comparire dove si esercita il potere. L'epoca del femminile doveva essere l'epoca morta, il tempo zero". Il veto islamico nei confronti del femminile sembrerebbe collegato alla soppressione del culto sanguinario delle dee di quel tempo.

Le tesi dell'autrice, accompagnate da una minuziosa ricostruzione del passaggio dal mondo preislamico al trionfo dell'islam e da metafore affascinanti, sono suggestive e rappresentano una delle chiavi più interessanti per avvicinarsi alla comprensione del mondo musulmano.

Tuttavia, ci si riferisce sempre al periodo meccano dell'islam. Ma l'islam –osservo - si è esteso anche su altre terre, di ben più antica e avanzata civiltà e di altre tradizioni. Come osserva Bernard Lewis, la civiltà islamica non "fu portata bella e pronta dagli invasori arabi fuori dal deserto, ma fu creata dopo le conquiste grazie alla collaborazione di molti popoli, arabi, persiani, egiziani e altri", come anche dalla collaborazione di coloro che musulmani non erano e che vivevano nelle terre di cui spesso avevano favorito la conquista, in odio al rapace fiscalismo e all’arroganza dei bizantini. Ma, se il ragionamento antropologico-culturale, anche degli islamici moderati come Mernissi, continua a ruotare, quasi ipnotizzato, intorno alle usanze, alle culture e ai luoghi di quanto accadde e venne detto nella città della Mecca, ciò non fa che confermare il fatto che la religione costituisce il dominus, non so davvero quanto superabile, di una mentalità che non riesce a porsi davvero il problema del futuro. Tuttavia, il tentativo dell'autrice di storicizzare la tradizione, fin dal momento della sua nascita e, anzi, di andare più in profondità rivisitando il periodo preislamico costituisce, se non mi sbaglio, un tentativo di superare questa difficoltà.

Il libro si conclude con un canto di speranza e di libertà che parte proprio dalla donna, perché la sua umiltà "è il perno dell'intero sistema politico. Interi capitoli nella collezione degli hadith (detti e azioni del Profeta) ci impongono come legare i nostri capelli, come abbassare gli occhi, come indossare il pudore al modo di una sottoveste”. Tanto che i codici civili dei paesi musulmani, salvo che in Turchia e in Tunisia – ma anche qui con minacce concrete di regresso – riproducono "la figura di una famiglia a immagine del palazzo califfale, nel quale è richiesta la ta‘a [l'obbedienza] e la volontà del leader domina su quella di tutti gli altri". L'integralismo islamico colpisce anche quel tanto di processo di liberazione che ha attraversato l'islam, dove l'hijab [il velo] è una manna dal cielo per i politici che affrontano una crisi. Non è un semplice pezzetto di vestito, è una divisione del lavoro. Rimanda le donne in cucina”. È anche, secondo me, il simbolo di una insuperata ineguaglianza civile e culturale tra donne e uomini, dove l'aspetto religioso o identitario non lo giustificano affatto.

In conclusione, mi sembra che una delle tesi dell'autrice sia che le guerre scatenate dai fondamentalisti occidentali, magari in nome della democrazia, non fanno altro che favorire i fondamentalisti islamici, bloccando qualsiasi processo di liberazione delle donne, per non parlare di tutti gli altri aspetti della vita sociale, politica e culturale.

Per l'autrice, gli scenari aperti sono due. Il primo vede un Occidente che realmente si sforza di esportare la democrazia e di aiutare la liberazione delle donne, ma che dovrà farlo contro i suoi interessi di breve periodo e rinegoziando i rapporti economici e politici. Il secondo è la strada della smilitarizzazione. Le spese per gli armamenti divorano gran parte delle risorse dei paesi islamici (21,8% del PIL l'Arabia Saudita, 17% la Siria, 16% la Giordania, tanto per fare qualche esempio). Certamente la strada della pace e dell'universalizzazione dei diritti umani non passa attraverso l'alimentazione forsennata degli armamenti nei paesi dell'area musulmana, investendo "nelle industrie belliche occidentali”. Tanto più che - aveva in precedenza osservato l'autrice – "è certo che se il destino delle donne è già precario in una società araba che vive in pace, diventa vacillante in presenza di guerre e di invasioni da parte di forze straniere”.

Nonostante tutto, l'autrice si dichiara una inguaribile ottimista e lancia un appello da condividere: lasciateci avere meno armi e più istruzione.

Una richiesta che va confrontata anche con un’altra realtà come quella dell’islam indiano, in genere poco conosciuto, anche perché sovrastato dai rumori dell’islam pakistano. Negli atti di una Giornata di studio dedicata appunto a L’Islam indiano possiamo acquisire qualche attendibile informazione, anche se si tratta di un testo di vent’anni fa, quando ancora l’India non aveva conosciuto l’esplosione economica e tecnologica dell’ultimo decennio. (109) Stiamo parlando di una minoranza religiosa, naturalmente, ma che rappresenta il 13% della popolazione, con 130 milioni di credenti, la quale è in una condizione socioeconomica e politica tremenda. Tanto che il recente rapporto di una commissione governativa indiana “dice che i musulmani vivono spesso addirittura peggio dei senza casta - i dalit – e che sono in genere sotto rappresentati. Paria dunque due volte”. (110)

Pur scontando, come scrive Alberto Ventura nel suo intervento sulla Religione islamica in India, che nella sua lunga storia sul suolo indiano “l’Islam ha assunto una propria particolare fisionomia, si è per così dire colorito a contatto dell’ambiente circostante, formandosi in tal modo un carattere ed un’identità del tutto singolari”, qualche accenno a quest’altro islam, senza ovviamente avere alcuna pretesa di esaurire nemmeno minimamente la questione, è forse interessante farlo. Non che nella sua storia più recente l’islam indiano sia andato esente dalle dinamiche comuni anche a altri paesi musulmani, tuttavia, storicamente, anche nel periodo del suo antico predominio politico e militare nel subcontinente indiano, l’islam è rimasto sempre una minoranza sociale e non è riuscito, come in altri casi, a sostituire la religione dominante.

In estrema sintesi, la sua civiltà sembra aver oscillato tra i due poli della simbiosi, del tentativo di integrazione, e quello del rifiuto di ogni contaminazione. È da questo secondo polo che è scaturita, dopo un lungo e contraddittorio processo storico, la drammatica e sanguinosa separazione tra India e Pakistan all’indomani dell’indipendenza del 1947. Un polo alimentato dalla dominazione inglese che, per necessità di governo coloniale, aveva fin dal XIX secolo incoraggiato “i musulmani – o almeno le loro classi istruite – a organizzarsi come gruppo di pressione confessionale allo scopo di ottenere dal governo sempre maggiori confessioni” – scrive Daniela Bredi nell’intervento sulla Storia dell’India musulmana. Mentre il polo dell’assimilazione, o meglio, del sincretismo religioso aveva avuto la sua massima espressione proprio sotto la dominazione moghul, con il terzo imperatore Akbar (1556-1605), che tentò di promuoverla dall’alto. Non si trattò affatto, come è stato spesso percepito dagli occidentali, di un tentativo illuministico precoce, visto che l’imperatore pretese di essere considerato il Vicario di Dio. Comunque il tentativo non gli sopravvisse.

Nonostante la compresenza nell’ultimo secolo di diversi indirizzi tra filoccidentali e tradizionalisti, come in altri paesi, la storia del separatismo musulmano è nutrita da un sentimento di avversione alla dominazione inglese, condivisa con gli indù, assieme alla rivendicazione di una specificità dei costumi e delle leggi a forte connotazione religiosa, che avrebbe potuto accettare la convivenza solo in termini di federazione minima di comunità religiose. (111) Il tipico comunitarismo islamico sfociava in certe tendenze in una vera e propria teodemocrazia. Dopo la separazione del 1947 la storia dell’islam indiano e di quello pakistano (e del Bangladesh) hanno seguito ovviamente strade diverse. Sta di fatto che quella indiana, con tutte le sue contraddizioni e carenze, rimane la più grande democrazia esistente, mentre il Pakistan non è finora riuscito a mantenere un assetto democratico. Ma anche nel campo dei musulmani rimasti in India – secondo Daniela Bredi – “nonostante l’apprezzabile sforzo sia concettuale che pratico non si riuscì ad andare oltre il punto di vista della tradizione islamica, per cui lo Stato laico [la costituzione indiana in tale modo lo Stato] e la costituzione hanno continuato a essere considerati un compromesso politico accettabile, senza riuscire a nobilitarsi come espressione dei più alti valori umani”.

Fin qui abbiamo ascoltato una delle voci islamiche riformatrici che vivono in un paese arabo e inserito nell’orizzonte della riflessione un tipo di islam diverso da quelli a cui siamo abituati a pensare, costretti dalle comunicazioni dei media e dalle vicende del terrorismo. Ma che cosa ne pensano dei problemi sollevati i musulmani che vivono ormai stabilmente in Europa?


100) F. Mernissi, Islam e democrazia. La paura della modernità, Firenze, Giunti, 2002. La Mernissi è fortemente impegnata nella società civile per promuovere l'uguaglianza delle donne e una democrazia reale, ma è anche una studiosa del Corano che gode di un certo seguito e rispetto.
101) Vedi la relativa voce in Wikipedia,
102) È stata la prima scuola teologica islamica. Intorno alla metà del IX secolo provò a fare una sintesi tra l’insegnamento islamico e le culture dei territori conquistati, per incardinare meglio l’islam tra popolazioni di antica civiltà. Tra le tecniche interpretative dei testi, i Mu'taziliti introdussero una lettura allegorica del Corano. Emarginata per secoli, per aver tentato di inquadrare l’islam in una logica umana, ha trovato nuovo credito tra i riformisti islamici moderni.
103) Per l’importanza di questo personaggio nella cultura islamica vedi la voce in Wikipedia. La voce, in francese, è stata recentemente revisionata e ora è attendibile.
104) Qui il discorso da fare sugli effetti del colonialismo sarebbe molto lungo, difficilmente risolvibile in poche battute. Per una rassegna eccellente del problema, vedi il libro di Robert Fisk, Cronache mediorientali. Il grande inviato di guerra inglese racconta cent'anni di invasioni, tragedie e tradimenti, Milano, Il Saggiatore, 2006. Una mia recensione del libro è in steppa.net.
105) Il testo italiano dell’enciclica è leggibile su Magistero Pontificio.
106) Il testo della Carta è consultabile in italiano sul sito dell’ONU.
107) Sui caratteri e la storia del wahhbismo, vedi la nota in Wikipedia.
108) Jahiliyya è una parola che indica il periodo precedente il Profeta.
109) L’Islam indiano, Giornata di studio (Roma, 5 dicembre 1988), Roma, Accademia dei Lincei, 1990. Per un aggiornamento generale della situazione attuale dell’India è ottimo il recente libro di Federico Rampini, L'Impero di Cindia. Cina, India e dintorni: la superpotenza asiatica da tre miliardi e mezzo di persone, Milano, Mondadori, 2007.
110) Lettera22, Musulmani in India: paria due volte, 6 febbraio 2007.
111) Ancora oggi, le norme consentirebbero ai musulmani indiani di divorziare dicendo semplicemente per tre volte alla moglie la parola talaq/divorzio, senza che l’interessata possa opporsi, seppure questa pratica è oggi scoraggiata dalle stesse autorità religiose a seguito di una sentenza del 1978 della Corte suprema, con la quale si ingiungeva al marito di assicurare il mantenimento della moglie ripudiata.


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Autore di questo testo PierLuigi Albini

Foto di Paolo Mulazzani


Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Teoria
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Aggiornamento: 06/09/2013