SOCIALISMO E FETICISMO

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SOCIALISMO E FETICISMO

Critica dell'analisi di Godelier sul feticismo religioso ed economico

In un testo collettaneo intitolato Progresso e feticismo (ed. Mimesis, Milano 2002), in cui stranamente, in copertina, appare come autore il solo T. W. Adorno, è presente un vecchio articolo del 1970 di Maurice Godelier, Feticismo, religione e teoria generale dell'ideologia in Marx, che merita d'essere commentato.

Siccome l'argomento è quello del feticismo nell'analisi di Marx, è impossibile non parlare della merce. Con l'acutezza che gli era propria, Marx, ad un certo punto, notò - rileva Godelier - che il valore di una merce non sta tanto nel suo valore d'uso (che in un mercato capitalistico è molto relativo, essendo più che altro determinato dai bisogni indotti) e neppure nel suo valore di scambio, perché qui il prezzo che si forma è in rapporto ad altre merci. Il vero "valore" nasce infatti nel momento della produzione e non tanto in quello della vendita, e dipende da un rapporto di lavoro alienato, in cui il lavoratore non è proprietario dei mezzi produttivi, per cui tutto quanto produce non gli appartiene: cosa, questa, che non è immediatamente visibile acquistando una merce.

La compravendita di un oggetto di consumo sembra avvenire in una forma totalmente libera, ma proprio nel momento in cui lo si acquista, si contribuisce a perpetuare il rapporto di schiavitù salariata che l'ha prodotto, di cui si può anche non sapere nulla. Sul mercato si realizza un rapporto sociale che di "sociale" in realtà non ha proprio nulla, in quanto frutto di "alienazione". D'altronde lo stesso salario, che è l'altra faccia della medaglia della merce, mistifica la vera natura del plusvalore, cioè dello sfruttamento del lavoro, in quanto appare come frutto di una libera contrattazione.

Fin qui Godelier non dice nulla di nuovo: era sufficiente leggersi Marx per capirlo. Come spesso succede, nei teorici del marxismo i limiti delle loro analisi non si evidenziano quando prendono in esame gli aspetti "fenomenologici" dell'economia politica di Marx, ma solo quando esaminano quelli "storici". Essi infatti non s'accorgono che Marx, riducendo la storia a una "storia economica", o comunque lasciandosi condizionare, nella sua storia dell'economia, dall'analisi meramente fenomenologica del capitalismo, non è sempre in grado di dare una lettura esauriente degli eventi, soprattutto laddove avvengono delle transizioni da una formazione sociale all'altra, per le quali Marx, discepolo, in questo, di Hegel, predilige l'uso della categoria della "necessità".

E così, mentre la sua analisi fenomenologica del capitalismo è sostanzialmente indovinata, per quanto non approfondita nei suoi aspetti culturali, quella più propriamente storica, riguardante formazioni sociali pre-capitalistiche, lascia molto a desiderare, e se ci si limita a riprodurla telle quelle, non si riesce a fare alcun progresso ermeneutico.

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Godelier passa quindi a esaminare, sulla scia di Marx, tre casi storici di assenza di feticismo della merce. Il primo è quello delle società primitive, in cui l'associazione immediata dei produttori, a conduzione familiare, produce tutto ciò di cui ha bisogno, sicché non è dipendente da alcun mercato.

A quali "società primitive" fa riferimento Godelier? Stando a quanto dice subito dopo, a società precedenti il cosiddetto "modo di produzione asiatico", che costituisce infatti il secondo caso, dove invece le forme di cooperazione tra produttori vengono imposte dalle classi dirigenti e dallo Stato: è qui infatti che esiste la trasformazione del prodotto in merce. Tuttavia, siccome la produzione mercantile ha ancora un ruolo secondario, il feticismo della merce, nel suddetto modo di produzione, non può ancora costituire il tratto predominante dell'ideologia economica.

Ora però si faccia attenzione al ragionamento di Godelier. Poiché Marx non ha mai esaminato il modo di produzione della preistoria, essendo arrivato al massimo a quello "asiatico", cosa è costretto a dire Godelier quando parla di "società primitive"? Che esse non erano sostanzialmente diverse da quelle asiatiche. Lui stesso lo scrive, senza rendersi conto del limite di fondo, su questo punto, dell'analisi marxiana: "Le società menzionate da Marx sono le antiche forme di società divise in classi, asiatiche o europee... le società che appartengono al modo di produzione asiatico o a quello schiavistico" (p. 32).

Cosa c'è che non va in questa analisi? Anche tralasciando il fatto che lo schiavismo asiatico era di tipo collettivistico (come quello egizio), mentre lo schiavismo europeo è stato di tipo individualistico, quello che qui non si comprende è che nel modo di produzione "primitivo" o "preistorico" non vi era alcuna forma di schiavismo. Viceversa, nel modo di produzione asiatico vi era già la separazione del produttore dai suoi mezzi di lavoro (unico proprietario della terra era il despota o il faraone), e per giustificare la schiavitù diretta ci si serviva della religione.

Ora, siccome è stato solo questo il modo di produzione "antico" esaminato da Marx (basta leggersi le Formen), è oggi imperdonabile ripetere il suo stesso errore d'inglobare in tale sistema produttivo anche quello pre-schiavistico. Infatti, quando Marx afferma, nelle Formen, che il modo di produzione primitivo poggiava "o sulla immaturità dell'uomo individuale, che ancora non si era distaccato dal cordone ombelicale del legame naturale di specie con altri uomini, oppure su rapporti immediati di signoria e di servitù", stava sovrapponendo due cose del tutto diverse, e nessuna delle due, per di più, in grado d'interpretare adeguatamente il periodo preistorico.

Parlare di "immaturità dell'uomo individuale", in rapporto al collettivismo libero della preistoria, non ha alcun senso, proprio perché si sta usando una categoria sociale fuori contesto. I "legami naturali di specie" non erano e continuano a non essere affatto da recidere, anche perché sono gli unici che possono costituire un ostacolo alla nascita del feticismo delle merci e della religione in generale. Al massimo si può parlare di "emancipazione individuale" rispetto a un contesto di schiavismo statale (asiatico) o individuale (europeo). Ma in tal caso si dovrebbe aggiungere che il feticismo delle merci, invece di diminuire, tende ad aumentare, seppur in forme laicizzate, come appunto è avvenuto in epoca borghese.

Non ha alcun senso storico sostenere che l'uomo primitivo è passato, in maniera spontanea, dall'autoconsumo alla società divisa in classi contrapposte perché non vedeva alcuna stridente contraddizione tra la dipendenza nei confronti della natura e quella nei confronti dello Stato (o verso il despota che lo rappresentava). Qui in realtà si è in presenza di una rottura traumatica, non di una transizione senza soluzione di continuità. Non si passa in maniera naturale da una disuguaglianza tra uomo e donna e tra le generazioni a una tra "opposte classi sociali", anche perché in un contesto di "collettivismo libero" - quale quello preistorico - la diversità naturale tra uomo e donna o tra giovani e anziani non aveva alcuna ripercussione sociale. Le disuguaglianze naturali venivano percepite come risorsa, non come problema.

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Il terzo esempio esaminato da Marx è il modo di produzione feudale. Qui Godelier fa capire che il feudalesimo riassume in sé tutti i modi di produzione pre-borghesi, in quanto i rapporti sociali tra le persone nei loro lavori appaiono come rapporti personali e non sono travestiti da rapporti sociali fra le cose prodotte dal lavoro.

Godelier non vede una differenza significativa tra il modello asiatico, in cui tutti dipendono, in maniera uguale, da un despota che si serve dello Stato e della religione per dominare, e il modello europeo feudale, in cui la dipendenza personale riguarda, reciprocamente, tutti gli individui. Cioè, mentre da un lato si è tutti uguali, nella propria sudditanza nei confronti del despota, che incarna il senso mistificato della collettività (1); dall'altro invece la dipendenza viene esercitata nei rapporti personali, per cui essa si pone a livelli differenti, e il rispetto nei confronti di un'autorità superiore non è assoluto, ma relativo, in quanto può anche essere messo in discussione (cosa che in Europa occidentale abbiamo visto per tutto il periodo feudale: dal Capitolare di Quierzy alla Constitutio de feudis, dalla lotta per le investiture a quella dei Comuni contro gli imperatore, sino all'uso politico della scomunica).

È comunque evidente che esiste mistificazione e quindi feticismo già nei rapporti di schiavitù o di servaggio, che però sono mediati dalla religione e non dal mercato in quanto tale. Il mercato diventa un feticcio laicizzato solo in epoca borghese (2). E per impedire questa mancanza di trasparenza - non lo dice solo Marx ma anche Godelier - occorre un'associazione libera dei produttori.

In che cosa si differenzi materialmente un'associazione del genere da quella "preistorica" ancora non è stato detto da Godelier: qui ci si deve accontentare del fatto che mentre quella primitiva era caratterizzata da un legame di specie o parentale, quella del futuro comunismo dovrà essere "libera". Come se un rapporto parentale o di specie non possa essere "libero" proprio a causa della sua "naturalezza"!

Tuttavia Godelier, che ha sbagliato sin dall'inizio a confondere il modo di produzione "preistorico" con quello "asiatico", sta per introdurre un argomento che confonderà ulteriormente le cose: quello del ruolo della religione.

Ciò che qui si vuole sostenere, in antitesi all'analisi di Godelier (il quale, tutto sommato, resta fedele allo svolgimento di Marx), è anzitutto il fatto che la religione non nasce necessariamente laddove i rapporti e i mezzi produttivi sono basati sull'autoconsumo.

Quando Marx prese a esaminare le società antiche (asiatiche), queste avevano già abbandonato il comunismo primitivo, e la prova inconfutabile di questa rottura è data appunto dalla presenza della religione (o comunque del racconto mitologico) (3).

Ora, sostenere che questa forma di mistificazione era strettamente correlata al fatto che il livello delle forze produttive era molto basso, significa fare un torto a quei due milioni di anni di storia dell'uomo primitivo, che conobbero solo un collettivismo libero, privo di forzature dispotiche o statali. Né si può pensare che ai primordi dell'umanità non sarebbe potuta nascere alcuna religione a motivo di un basso livello di astrazione intellettuale, poiché, in tal caso, il torto sarebbe anche maggiore. Non avendo più noi un rapporto equilibrato con la natura, non riusciamo neanche a immaginarci come si potesse essere "conformi a natura" e, nel contempo, privi di religiosità.

Il fatto di sentirsi "dominati" dalle forze della natura potrebbe costituire un problema solo nel caso in cui l'esistenza umana fosse a rischio. Ma in tal caso dovremmo chiederci se questa nostra concezione di "natura matrigna" non sia condizionata da qualche forma di conflittualità che viviamo a livello sociale. Quando parliamo della religione come forma proiettiva di alienazioni sociali, non dovremmo dimenticare che anche la scienza in generale o anche l'interpretazione "scientifica" della storia può essere soggetta al medesimo condizionamento. Non è certo la conoscenza in sé che ci impedisce d'avere concezioni distorte della realtà. Se fosse così semplice, non avremmo più bisogno, dopo mezzo millennio di sviluppo borghese della scienza, di un suo ulteriore sviluppo. Gli uomini primitivi erano in grado di tramandarsi conoscenze fondamentali alla loro sopravvivenza sicuramente molto meglio di noi: non avevano continuamente bisogno di chiamare il tecnico specializzato per risolvere qualche loro problema quotidiano!

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Diciamolo in altra maniera. In astratto può essere vero che il riflesso religioso del mondo reale è in grado di scomparire soltanto quando i rapporti della vita pratica presentano relazioni chiaramente razionali tra loro e con la natura. Nel concreto invece occorre spiegare cosa s'intende con la parola "razionalità", altrimenti ci s'impantana ancor più negli equivoci.

Non dobbiamo infatti dimenticare che noi facciamo dipendere il concetto di "razionalità" dalla scienza moderna, sperimentale, nata nel Seicento e proseguita sino ad oggi in forma sempre più specialistica e sofisticata. È curioso che i marxisti contestino il capitalismo sul piano economico, senza mai mettere in discussione i cosiddetti "progressi scientifici e tecnologici" della cultura borghese. E pensare che per farlo basterebbe mettere in relazione lo sviluppo tecnico-scientifico con la devastazione ambientale (cosa che però negli anni Settanta non era facile a farsi).

La storia ha già abbondantemente dimostrato che la razionalità non è affatto dovuta a un affronto "scientifico" della realtà, e che un rapporto con la realtà non è tanto più "scientifico" quanto più è sviluppato il progresso tecnologico. Il rapporto tra scienza, tecnologia e razionalità non è mai così scontato. Nella fase della preistoria la razionalità e quindi la conoscenza "scientifica" della realtà erano date dalla "naturalità" dei rapporti umani, in cui la natura veniva considerata parte organica dell'essere umano, e non - come oggi - un semplice oggetto da consumare, un bene meramente strumentale.

Gli uomini primitivi conoscevano adeguatamente la natura in rapporto alle loro esigenze riproduttive, le quali, a loro volta, per dirsi "razionali", non potevano contrastare in maniera irreparabile quelle della stessa natura. La tecnologia non era invasiva, cioè era eco-compatibile. E potevano verificarlo immediatamente, proprio perché il collettivo doveva sopravvivere in un contesto locale, dove le risorse potevano essere considerate illimitate solo a condizione che non si violasse l'integrità della natura o comunque la sua autonoma capacità riproduttiva.

La fonte del valore, per l'uomo primitivo, era offerta dalla stessa natura, considerata alla stregua di un organismo vivente, paritetico all'uomo. Per scoprire che la natura è "vivente" non c'è bisogno del microscopio.

Se si ritiene che l'uomo preistorico fosse religioso solo perché, cronologicamente, il sistema produttivo più prossimo al suo era quello "asiatico", non si dà certo prova di grande "scientificità" nell'analisi storica. Non si possono condannare all'alienazione religiosa milioni di uomini preistorici solo perché non disponevano di mezzi tecnici e scientifici analoghi ai nostri. Anzi, dovremmo dire che la nostra scienza, con la sua pretesa di dominare la natura, di tenersi separata dall'etica e di perfezionare incessantemente la tecnologia, non ha nulla di "razionale". Una scienza del genere ricorda da vicino, seppur in forma laicizzata, il misticismo invasato, il fanatismo religioso o, quanto meno, talune forme di magia.

È dal Seicento che gli scienziati s'illudono d'aver superato con la matematica e la tecnologia quelle che vengono definite le tre pseudo-scienze del periodo umanistico-rinascimentale: magia, alchimia e astrologia. Come se una scienza, in sé e per sé, possa subissarne un'altra! Come se nell'evoluzione del pensiero gli aspetti materiali dell'esistenza, gli interessi in gioco abbiano una parte del tutto secondaria! Come se il fanatismo fosse una prerogativa della fede e non anche della ragione!

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Ma c'è di più. Pur di non derogare al primato della scienza e della tecnica, il marxismo non solo attribuiva la nascita delle religioni al basso grado di sviluppo delle forze produttive e non solo alla ristrettezza localistica dei rapporti sociali e all'ignoranza dei meccanismi della natura e della storia, ma anche - e qui si raggiunge il paradosso - all'assenza di una complessa divisione del lavoro, cioè a una cosa che, più delle altre, va considerata come un sintomo inequivocabile della divisione in classi opposte.

Questa caratteristica del marxismo, di sostenere il valore di cose "borghesi" pur di dimostrare che la dissoluzione del comunismo primitivo era inevitabile, salvo poi aggiungere che dal capitalismo si deve passare al socialismo, poiché solo in questa maniera si può gestire nel migliore dei modi la scienza e la tecnica, è forse uno dei limiti più grandi di questa corrente di pensiero (un limite, come facilmente si può notare, di derivazione evoluzionistica e positivistica).

Peraltro, anche ammettendo che l'uomo preistorico avesse una qualche fede religiosa, sarebbe del tutto assurdo ritenere frutto di alienazione credenze come quelle animistiche o totemiche. Credere in una natura vivente, dominata da uno "spirito regolatore", è soltanto una forma d'ingenuità non di alienazione. Là dove sono esistite credenze del genere, non si sono formate caste privilegiate, rapporti basati sulla rendita o sul profitto.

E poi è quanto meno limitativo sostenere che l'uomo preistorico non avesse una conoscenza "scientifica" dei processi naturali. La conoscenza empirica di cui poteva vantarsi era assolutamente ancestrale, frutto di una sapienza maturata nei millenni, secondo una metodologia per "prove ed errori".

Non c'erano "false" concezioni della natura, ma, semmai, "parziali", e in ogni caso era un limite rapportato a esigenze di sopravvivenza. Non serve a nulla sapere ciò che non serve. Semmai è oggi che abbiamo una concezione "falsa" della natura, quando ce la immaginiamo al nostro completo servizio o, peggio ancora, quando siamo convinti ch'essa potrà risolvere da sola i guasti che le procuriamo, o quando ci illudiamo che le sue risorse siano illimitate, a prescindere dall'uso che ne facciamo. E che dire quando le attribuiamo la causa di quelle nostre disgrazie che ci appaiono (spesso per comodità) assolutamente imprevedibili, imponderabili, eccezionali?

Non ha alcun senso negare una superiorità alla natura soltanto perché temiamo che, in caso contrario, si finisca col fare un favore alla religione. Non è solo l'uomo a essere una vera alternativa a dio: lo è anche la natura, che dell'uomo è partner privilegiata. Pensiamo soltanto al fatto che non solo l'uomo dipende dalla natura, ma anche questa, a sua volta, vive un rapporto di dipendenza: quello nei confronti del sistema solare. Il che a noi, abituati a usare fonti di energia non rinnovabile e padroni dei segreti dell'atomo, pare quasi del tutto insignificante.

L'uomo non è altro che la consapevolezza dell'intelligenza della natura (una consapevolezza che, ovviamente, va oltre il mero istinto). Nei confronti di questa intelligenza si deve provare anche un sentimento di umiltà, di gratitudine, di riconoscenza... Non abbiamo bisogno di aspettare di conoscere tutte le leggi della natura prima d'iniziare a capire che dobbiamo rispettarla.

L'uomo è un ente di natura, e quando usa l'intelligenza per modificare i processi naturali, dovrebbe prima di tutto chiedersi quali saranno le conseguenze su di sé. L'uomo non può pensare di modificare l'ambiente senza modificare se stesso.

Il fatto che la natura, dopo le scoperte geografiche iniziate con Colombo, ci sia apparsa sconfinata, ci ha portato a pensare che potevamo usarla come ci pareva, ma è stato un errore colossale, di cui abbiamo pagato e stiamo ancora pagando le conseguenze. E se non rivediamo i criteri del nostro modello di sviluppo, è difficile pensare che il genere umano avrà delle sicurezze nel futuro, poiché la la natura non può tollerare ciò che le impedisce di esistere. Nel peggiore dei casi si creano dei deserti in cui la vita, per noi umani, è impossibile. Cosa che stiamo costantemente verificando non solo col taglio indiscriminato delle foreste e con le mutazioni artificiali del clima, ma anche con l'uso civile e militare del nucleare.

Rendersi la vita impossibile, nell'unico pianeta abitabile, a nostra conoscenza, è da folli. Andando avanti di questo passo, noi rischiamo di diventare una mina vagante per l'intero universo, visto e considerato che tra le nostre aspettative vi è anche quella di popolarlo (o meglio - come più ci piace dire - di "colonizzarlo").

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Tutto ciò per dire che Godelier non ha afferrato il concetto di "uomo preistorico" e l'ha continuamente confuso con quello di "uomo civilizzato", quello uscito dal comunismo primitivo. E in questo non ha fatto che riprodurre i limiti dell'analisi marxiana, che però erano di un secolo prima, quando ancora gli studi etno e antropologici risultavano quantitativamente piuttosto scarsi (4).

Questo suo limite è ben visibile là dove dice che "l'uomo primitivo pensa alla natura per analogia... al mondo umano" (p. 36). Cioè il primitivo trasferiva nella natura la debolezza, la precarietà della sua esistenza sociale e si raffigurava delle entità onnipotenti, sovratemporali, disposte ad aiutarlo in cambio di sacrifici e riti di vario genere: proprio per questo esse suscitavano timore e rispetto.

Godelier è così certo di questo che non riesce neppure a spiegare se da questo atteggiamento istintivo è nata la religione o se è stata la religione (come prodotto imposto dall'esterno) a indurre l'uomo primitivo ad avere un comportamento del genere. Non gli interessa fare questa distinzione perché, secondo lui, "primitivismo economico" e religione coincidono, per cui ciò che in realtà gli interessa è soltanto di mostrare l'analogia tra il feticismo economico della merce e quello religioso di tutti i tempi.

Così facendo però non si rende conto che nell'uomo preistorico il processo analogico era, in un certo senso, capovolto: l'uomo non proiettava affatto sulla natura l'esigenza di risolvere le proprie frustrazioni, ma cercava piuttosto di ricavare dalla natura le soluzioni ai propri problemi. La natura era considerata una risorsa "materiale" per l'esistenza quotidiana e non un rifugio artificiale per affrontare alienazioni psicologiche e sociali.

Il rapporto alienato con la natura è subentrato subito dopo che l'uomo ha sperimentato un rapporto alienato con se stesso e coi propri simili. Il fatto stesso che si siano volute costruire le prime civiltà schiavistiche nei luoghi più impervi del pianeta, lo dimostra eloquentemente, anche se noi lo interpretiamo come un evento di grande "progresso".

Dovremmo piuttosto ragionare al contrario. Siamo noi che, nonostante tutta la nostra scienza e tecnologia, con cui ci piace fare della natura ciò che vogliamo, abbiamo con essa, ancora oggi, un rapporto di mera evasione nei nostri momenti liberi dall'alienazione del lavoro quotidiano. Siamo noi che riproduciamo, in forme diverse, la stessa alienazione che viviamo nel mondo urbanizzato. Siamo noi che c'illudiamo di superare le nostre alienazioni estraniandoci dalla realtà, magari anche solo per un tempo circoscritto.

Davvero pensiamo di superare questa forma di frustrazione sociale limitandoci a socializzare la proprietà privata dei principali mezzi produttivi? Davvero pensiamo che l'alienazione religiosa sia una caratteristica delle società divise in classi contrapposte e che essa non si ripresenti, in forma laicizzata, anche in quelle strutture di socialismo in cui lo Stato gioca il ruolo di un "padre e padrone"? Non è forse il caso di ripensare in toto il modello di sviluppo, chiedendoci se le forme della tecnologia di cui ci serviamo sono davvero compatibili con le necessità riproduttive della natura?

Oggi non è più sufficiente parlare di "proprietà comune" e di "organizzazione pianificata" delle risposte da dare ai bisogni umani. Le devastazioni ambientali compiute nella Russia socialista sono state spaventose. Non ha alcun senso pensare che gli stessi strumenti prodotti dalla società alienata possano essere utilizzati da una società democratica o socialista, "a misura d'uomo".

Lo sviluppo della scienza e della tecnologia non è un processo neutro, indipendente dall'alienazione sociale. Non è affatto vero che un oggetto di per sé non è né "buono" né "cattivo", e che tutto dipende dall'uso che se ne fa. Un ragionamento così semplicistico non l'avrebbe mai fatto un uomo primitivo. Di ogni oggetto, infatti, bisogna sempre chiedersi se sia "conforme a natura", e il criterio per capirlo è la natura stessa che l'offre, non siamo certo noi.

Se infatti pensiamo di poter stabilire autonomamente, cioè indipendentemente dalle esigenze della natura, il criterio di usabilità degli oggetti che ci diamo, possiamo star sicuri d'essere già sulla strada sbagliata. Paradossalmente un criterio del genere non potremmo deciderlo neppure se vivessimo isolati a diretto contatto con la natura. Questa infatti non può essere vissuta in maniera individualistica: è una risorsa troppo impegnativa.

Certo, l'uomo può essere così creativo da poter utilizzare gli oggetti secondo scopi del tutto diversi da quelli per i quali erano stati costruiti. Ma è anche vero che esiste un punto di non ritorno, per il quale determinati oggetti sarebbero del tutto inutili: sono quegli stessi oggetti che abbandoniamo nelle nostre immense discariche o che, a titolo puramente simbolico, collezioniamo nei nostri musei. Questa mancanza di rispetto nei confronti della natura la stiamo sperimentando anche nei confronti del cosmo, già pieno di tecnologia spaziale in disuso, abbandonata a se stessa.

Quando i costi del riciclaggio ci paiono troppo onerosi, non ci sfiora neanche per l'anticamera del cervello l'idea che nel nostro stile di vita ci sia qualcosa di assolutamente perverso. Pur con tutta la nostra consapevolezza "scientifica" delle cose, pensiamo sempre che qualcuno o qualcosa, prima o poi, risolverà i nostri problemi. Noi che abbiamo voluto creare un sistema sociale il più possibile indipendente dalla natura, ci troviamo a vivere una dipendenza così forte dai mercati e dagli Stati che i problemi più gravi per i destini dell'umanità li affrontiamo soltanto con incoscienza e rassegnazione.

Siamo assolutamente convinti che tutto quello che facciamo, nel nostro piccolo, non serva proprio a nulla, cioè non possa avere un'efficacia significativa per un mutamento di rotta. E in effetti è così. Non possiamo darci torto. Sarebbe ingenuo pensare di poter superare i grandi condizionamenti sociali limitandoci a compiere azioni di "buona volontà" nel nostro privato. Non basta compiere una "rotazione" su di sé, occorre anche una "rivoluzione" che rimetta le cose a posto. Ma per poterla fare, bisogna essere convinti che il prezzo che andremo a pagare sarà inferiore a quello che pagheremmo non facendola.

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Resta inoltre singolare che Godelier si serva degli studi dell'antropologo Claude Lévy-Strauss per confermare quelli di Marx. Chiunque infatti si rende conto che non ha alcun senso contattare delle popolazioni primitive in qualità di esponenti di una società che ha cercato di colonizzarle. Il rapporto è falsato in partenza. Quelle sono popolazioni che da secoli vivono sulla difensiva, avendo terrore dell'uomo "civilizzato", e che, per questa ragione, han dovuto modificare in peggio il loro stile di vita.

Il fatto stesso che non si riesca a comprendere come il rapporto con la natura avesse per il primitivo una caratteristica ambivalente, di rispetto e di sfida, una caratteristica che non avrebbe avuto alcun senso superarla aumentando il livello delle forze produttive, la dice lunga. Per noi la natura è soltanto qualcosa da sottomettere: siamo troppo competitivi per metterci al suo stesso livello. Non riusciamo a concepire che la lotta debba essere condotta ad armi pari. Noi non riusciamo neppure ad accettare l'idea che debba essere la natura ad avere una parte assolutamente preponderante nello stabilire il significato della nostra vita.

Siamo talmente presi dalle nostre manie tecnologiche che quando pensiamo di colonizzare altri pianeti, l'unica natura che ci viene in mente è quella che noi stessi riusciremo a riprodurre artificialmente (soprattutto con l'uso delle serre). Già oggi, su questa Terra, non ci facciamo scrupoli nel modificare geneticamente tutti i prodotti della nostra alimentazione e ci appare del tutto naturale ch'essi debbano maturare a prescindere dai cicli delle stagioni. Nel migliore dei casi viviamo la natura come un aspetto decorativo, come quando mettiamo delle piantine nei nostri uffici polverosi.

Il secondo aspetto che di Lévy-Strauss Godelier prende in esame è quello dell'analogia. Abituati come siamo al metodo induttivo, alla scienza sperimentale, alla logica sillogistica e ad altri "miti" del genere, l'analogia ci appare come una forma di pensiero del tutto primitiva, foriera di inevitabili svolgimenti mistico-irrazionali. Eppure l'analogia viene usata, ancora oggi, tanto nei paesi di religione islamica quanto in quelli anglo-americani. Dove? Nella giurisprudenza! Laddove si è capito che non ha senso pensare di prevedere tutti i casi possibili d'infrazione della legge, anticipandoli astrattamente, ci si affida ai casi concreti già affrontati, con tanto di sentenza finale. Dobbiamo quindi per forza pensare che laddove si usa l'analogia la giustizia è meno fondata? o è meno razionale? L'analogia è un obbrobrio soltanto quando la si usa per giustificare abusi commessi in precedenza. Ma è ridicolo pensare di potersi sottrarre a questo rischio scrivendo intere enciclopedie su tutti i possibili reati che virtualmente si potrebbero compiere.

L'analogia fa parte del pensiero umano naturale. Al massimo si dovrebbe affermare che là dove i rapporti sociali sono alienati, l'analogia tende a giustificarli. L'analogia è soltanto una forma di semplificazione, la cui efficacia nei confronti della giustizia, positiva o negativa che sia, non può certo dipendere da se stessa, ma solo dei rapporti sociali dominanti. Questo per dire che se anche, sulla base del pensiero analogico, il primitivo si creasse dei miti di tipo "religioso", con cui spiegare taluni fenomeni naturali, ciò non dovrebbe affatto essere considerato negativamente, cioè come sintomo di una propria debolezza materiale nel rapporto con la natura. Nel primitivo l'analogia non veniva usata per confermare l'eccezione ma la regola; non voleva essere eversiva ma rassicurante. Siamo noi che oggi usiamo l'analogia come metodo, anzi come pretesto per giustificare l'iniquità del nostro stile di vita.

Il fatto stesso che il primitivo s'immaginasse il cosiddetto "aldilà" in maniera analoga all'esistenza terrena, non va considerato, di per sé, un segno di immaturità, di alienazione sociale, di ingenuo primitivismo. Nella vita tutto è sempre molto relativo. Anche gli egizi pensavano che i faraoni dovessero continuare a regnare dopo morti: di qui le imbalsamazioni, le piramidi e quant'altro. Ma la loro era una società basata sulle differenze di ceto e di classe: l'analogia era una forma di discriminazione.

Abituati come siamo all'antagonismo sociale, non c'immaginiamo forse chi è diverso da noi (noi come "occidentali" o di "razza bianca") come un soggetto da evitare o da tenere sotto controllo? Persino quando trattiamo, nei film di fantascienza, l'argomento degli extraterrestri, non riusciamo mai a credere ch'essi non siano fondamentalmente dei nemici del genere umano: e il fatto che possano avere un'intelligenza superiore alla nostra non ci rassicura per niente, anzi ci mette in allarme.

L'analogia ci determina costantemente, ma perché essa non si trasformi in un qualcosa di "ideologico", dobbiamo essere disposti a non dare mai nulla per scontato: cosa però difficilissima là dove esistono forti pressioni da parte dei poteri dominanti e dove non esistono forti resistenze a questi poteri. Dobbiamo smetterla di pensare che l'unico modo di pensare sia il nostro. Che una cultura umanistica e naturalistica possa passare anche attraverso metafore e metonimie (le due principali forme di analogia), dovremmo considerarlo come un segno di grande intelligenza e sensibilità.

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Vediamo ora i rapporti parentali. Godelier ci ricorda che nei Mitologica Lèvy-Strauss sostiene che "i rapporti di parentela costituiscono lo schema sociologico organizzativo del mondo mitico" (p. 42), anche perché tali rapporti sono "oggettivamente la struttura dominante dei rapporti sociali" (ib.). (5)

Ora per quale motivo riteniamo che l'importanza di questi rapporti parentali sia del tutto irrilevante ai fini della costruzione della società? Il motivo lo conosciamo tutti: la nostra è una società che, permettendoci un alto sviluppo delle forze produttive, favorisce uno spiccato individualismo. Noi viviamo in società fortemente urbanizzate, dove la socializzazione è soltanto la sommatoria di tanti individui isolati, che casualmente si trovano a vivere in un medesimo ambiente, essendo privi di radici comuni, dove le famiglie sono di tipo "nucleare", dove gli aspetti pubblici dedicati al lavoro sono del tutto separati da quelli privati e dove nel privato ci si aggrega per occupare del tempo libero, per coltivare interessi che non necessariamente vanno a intersecarsi con la propria vita pubblica.

La crescente urbanizzazione mondiale è il frutto di un rapporto egemonico che l'industria ha voluto imporre all'agricoltura. Un numero infinito di persone è stato sradicato dalla propria terra e quindi dalle proprie tradizioni, dalle proprie radici culturali e linguistiche, dei propri valori per poter vivere cose imposte dall'alto. L'urbanizzazione è il luogo per eccellenza della spersonalizzazione, dell'anonimato, della reciproca strumentalizzazione, in quanto le persone vengono considerate solo per il ruolo o per la funzione che svolgono e non per se stesse.

La città non è che la figlia legittima di mercati nati dal dominio del capitale su tutto il resto. Cosa c'è di "naturale" in tutto questo? Davvero i rapporti parentali, clanici o tribali dovevano essere necessariamente superati? E potevano esserlo solo in questa maniera individualistica? Le città sono un cantiere sempre aperto, richiedono una costante e costosissima manutenzione, sono, in maniera diretta o indiretta, la principale fonte di inquinamento del pianeta, sono un'incredibile fucina di reati e di delitti d'ogni genere, costituiscono il principale luogo dell'alienazione sociale, la causa scatenante di tutti i conflitti bellici (locali, regionali, nazionali e mondiali). Sono 6000 anni che le città sfornano le concezioni religiose, filosofiche e scientifiche della vita più maschiliste, scioviniste e razziste che mai si siano avute.

Non c'è città che sappia cosa voglia dire la parola "pace" o la parola "sicurezza", per non parlare di parole come "uguaglianza", "giustizia", "libertà"... Se queste cose esistono sono solo per pochi privilegiati, oppure, se per molti, è perché nelle aree coloniali di queste metropoli milioni di persone ne stanno pagando il prezzo. Infatti, un'altra caratteristica fondamentale delle città industrializzate è quella di suddividersi il mondo in aree d'influenza, dove possono sfruttare come meglio credono le materie prime, la manodopera e i mercati. Le città sono la principale causa dello sfruttamento del pianeta, della sua desertificazione e della forzata emigrazione di milioni di persone da un luogo all'altro, in cerca di fortuna. È impossibile pensare alla realizzazione di un socialismo democratico senza la scomparsa di questa città artificiali, che di umano non hanno assolutamente nulla.

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Godelier è uno di quei marxisti ingenui che pensano sia sufficiente sostituire la religione con la filosofia e la scienza per assicurare all'umanità il miglior progresso nello sviluppo del pensiero. Il parziale ateismo della filosofia e il totale ateismo della scienza avrebbero - secondo lui - liberato l'umanità dal feticismo espresso nelle idee religiose. Sostituire gli dèi falsi e bugiardi coi mercati e con gli Stati, e soprattutto con la tecnologia più avanzata, ci avrebbe fatto diventare "padroni in casa nostra", cioè non più dipendenti da forze estranee, naturali o divine che siano.

In un certo senso il socialismo - secondo Godelier - non farebbe che ereditare questa lunga battaglia contro il feticismo, sempre condotta dalla filosofia e dalla sua figlia legittima, la scienza. La differenza che il socialismo pone, tra se stesso e il capitalismo, non riguarderebbe tanto i contenuti della filosofia e della scienza, quanto piuttosto l'obiettivo finale, che - come noto - per il socialismo è rappresentato dalla socializzazione della proprietà dei mezzi produttivi, che è la cosa fondamentale che permette di "pianificare" la propria attività lavorativa e di eliminare ogni forma di alienazione.

Qui tuttavia bisogna parlare fuori dai denti e ci rendiamo perfettamente conto che Godelier, a quel tempo, non poteva farlo. Bisogna esser grati alla Russia d'aver fatto fallire quest'idea di "socialismo statale", non meno "feticistica" di tutte quelle precedenti, in virtù della quale si era pensato di poter risolvere "magicamente" qualunque forma di antagonismo sociale. Delle tre componenti del cosiddetto "progresso umano": mercato, Stato e tecnologia, il socialismo amministrato aveva preso solo le ultime due, convinto di poter fare a meno della prima.

Certo, senza un mercato, dove la competizione è incessante, la tecnologia non poteva essere molto sviluppata. Però in compenso lo era quella degli strumenti coercitivi dello Stato, vero deus ex machina per tutti i problemi della società. Anzi, proprio lo Stato assicurava lo sviluppo di quella tecnologia necessaria per difendersi dagli eventuali attacchi degli Stati avversari: di qui l'abnorme sviluppo dell'apparato bellico e poliziesco.

Peccato che ci si sia accorti troppo tardi che il nemico usava come armi d'attacco non solo quelle della superiorità tecnologica, ma anche quelle dei mercati economici e della propaganda ideologica e politica: armi invisibili come le antiche divinità del feticismo religioso. E improvvisamente si scoprì che "socializzare" la proprietà dei mezzi produttivi non poteva voler dire "statalizzarla", e che una qualunque accentuazione del ruolo dello Stato, pur in assenza del mercato, non faceva che aumentare l'alienazione sociale, trasformando gli dèi di un tempo e gli imprenditori privati in burocrati amministrativi e dirigenti politici, tutti preoccupati a veder realizzati gli obiettivi decisi dai famosi "piani quinquennali".

Dobbiamo esser grati al "socialismo reale" per aver capito che anche sotto il socialismo, o meglio, sotto una sua caricatura, si può riprodurre quel feticismo alienante che ancora oggi si continua a vivere in nome di dio o del capitale. Ma non si può colpevolizzare Godelier di questa ingenuità, visto che ha scritto il suo saggio nel 1970, anche se non si può escludere che non vi sia stata una grandissima ingenuità, analoga alla sua, all'origine della costruzione di quell'socialismo.

Note

(1) Il che ovviamente non impedisce che si formino caste privilegiate come quelle dei funzionari statali e religiosi.

(2) Qui ovviamente non è il caso di esaminare la differenza tra il feudalesimo dell'Europa occidentale e quello dell'Europa orientale, che non era irrilevante, essendo l'Europa bizantina e slava più vicina al modo di produzione asiatico.

(3) Forse si dovrebbe fare una distinzione tra religione e mito. In generale si può dire che la dove esiste la religione, anche la mitologia esprime una alienazione sociale. Non è però detto che, in assenza di religione, il mito ne costituisca l'equivalente. Non tutti i miti sono frutto di alienazione sociale. È vero che sotto il "socialismo reale" sono stati costruiti dei miti che erano una forma di demagogie a o di populismo, ma a quel tempo la laicità o l'ateismo era una forma mascherata di religiosità. Di sicuro in una società collettivizzate come quella preistorica, i miti dovevano essere qualcosa di assolutamente innocuo, privo di finalità recondite, con le quali giustificare abusi e ingiustizie. Nella mitologia greca non vi è neppure un racconto che non giustifichi i rapporti di potere dominanti. Si può quindi presumere che i miti pre-schiavistici servissero soltanto per dare un senso ulteriore, di tipo simbolico, a un'identità vissuta già in maniera significativa. In assenza di antagonismi sociali, il fatto di considerare "sacra" la natura e quindi il proprio rapporto con essa dovrebbe essere ritenuto un atteggiamento del tutto normale, in quanto il sacro è fonte di rispetto.

(4) Sia Marx che Engels conoscevano le opere di Hanssen, Meitzen, Maurer e Morgan.

(5) Si noti, en passant, che quando scoprì, nelle Strutture elementari della parentela, che la proibizione dell'incesto imponeva nei primitivi l’esogamia, e che questa è un sistema simbolico come il linguaggio, sembrava avesse scoperto chissà cosa. Come quando disse, nel Totemismo oggi, che le specie naturali usate nei totem non venivano scelte perché “buone da mangiare”, ma perché “buone da pensare”. Aveva scoperto che i primitivi erano in grado di pensare! E che dire quando scoprì che i cibi cotti indicavano il passaggio dalla natura alla cultura? L'uomo primitivo non era una bestia! È vero che arrivò a dire che tra pensiero primitivo e pensiero scientifico non vi è una frattura radicale, in quanto il mito, ancora oggi, ci caratterizza più di quanto pensiamo, ma è anche vero che si limitò a fare questa semplice constatazione, con la quale arrivò a sostenere che tra uno scienziato e un mago non esisteva una differenza qualitativa. Troppo poco per capire davvero la differenza tra pensiero primitivo e pensiero civilizzato.


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Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Teoria
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Aggiornamento: 14/12/2018