LA DISPUTA SUGLI UNIVERSALI

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LA DISPUTA SUGLI UNIVERSALI

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Giuseppe Bailone

Anselmo d'AostaDuns ScotoTommaso d'Aquino

PREMESSA

ARRIVA ARISTOTELE, ACCOMPAGNATO DAGLI INFEDELI

Fino al XII secolo in Occidente si conosce poco di Platone e di Aristotele. Del primo si conosce il Timeo, in parte, del secondo gli scritti di logica. Gli elementi del loro pensiero presenti nelle altre opere arrivano filtrati dall’interpretazione neoplatonica cristiana. La filosofia greca, nel corso dell’Alto Medioevo, si presenta sempre già profondamente adattata alla teologia cristiana.

L’Oriente, invece, conserva nelle sue biblioteche tutte le opere di Platone e di Aristotele. Esse vengono tradotte e studiate, soprattutto quelle di Aristotele, in Siria con particolare interesse e cura. La conquista araba della Siria (635) le consegna all’interesse culturale del mondo islamico, che le traduce e le studia alla luce della rivelazione del Corano, offrendone diverse interpretazioni. Anche la cultura religiosa ebraica si misura con la filosofia greca. Dal mondo islamico queste nuove interpretazioni iniziano ad arrivare, attraverso la Sicilia e la Spagna, anche nell’Occidente cristiano a partire dal XII secolo, come segnala tempestivamente Abelardo, che nel suo Dialogo fra un filosofo, un giudeo e un cristiano affida ad un islamico il ruolo del filosofo pagano. Il sacco di Costantinopoli del 1204 apre un altro flusso di testi greci verso Occidente.

La nuova filosofia greca che arriva in Occidente ha soprattutto il volto di Aristotele. Di Platone vengono tradotti il Fedone e il Menone, ma l’attenzione alle sue opere s’impone solo nel Quattrocento.

A Parigi, l’Atene del Nord di Abelardo o la nuova Babilonia di Bernardo di Chiaravalle, l’arrivo Aristotele, accompagnato dai commenti di filosofi islamici ed ebrei, divide in profondità un mondo culturale già in fermento. Aristotele, infatti, urta soprattutto su due punti cruciali la mentalità cristiana: la creazione divina del mondo e l’immortalità dell’anima.

Accompagnato da Avicenna (980-1037), Aristotele ha tratti neoplatonici.

La concezione di Dio come unità assolutamente semplice, non composta di forma e materia come le cose del mondo, porta Avicenna a distinguere l’essere di Dio dall’essere degli altri enti: l’essenza delle cose del mondo può essere pensata distinta dalla loro esistenza, mentre in Dio questa distinzione non è possibile. Dio, cioè, va pensato come essere necessario, esistente in virtù della propria essenza, inseparabile dall’esistenza, mentre le cose vanno pensate come possibili: la loro esistenza, separabile dalla loro essenza, non ha in esse ma in Dio la sua causa. Avicenna pensa questa dipendenza delle cose da Dio in termini di emanazione neoplatonica, necessaria ed eterna, in contrasto con l’idea coranica e biblica della libera creazione divina.

Avicenna interpreta, invece, la teoria aristotelica dell’anima e dell’intelletto in termini compatibili con la tesi dell’immortalità dell’anima personale.

I commenti di Averroè (1126-1198), segnati da concetti sul mondo, sull’anima e sulla morale incompatibili con la teologia cristiana, accentuano l’estraneità di Aristotele al mondo cristiano.

La traduzione dal greco dei nuovi testi aristotelici non riduce le difficoltà dell’incontro. Il logos, la razionalità greca aristotelica, riapre in profondità il problema tradizionale del rapporto tra fede e ragione: alla razionalità del neoplatonismo cristiano che sembrava nata per integrarsi con la fede e alimentarsi di essa, subentra una razionalità autonoma, arrivata alla piena maturità prima e senza la fede cristiana, giunta con mezzi naturali e profani ad una coerente e sistematica visione del mondo e dell’uomo incompatibile con la fede. Il mondo sembra avere un proprio ordine conoscibile con l’osservazione empirica e con la ragione e l’uomo sembra naturalmente dotato della capacità di raggiungere la virtù e di realizzare il bene. Un mondo naturale che si regge su proprie leggi e l’autonomia razionale e morale umana sono un “dono” pagano e islamico sconvolgente.

Diversi divieti cercano di fermare l’ingresso nel mondo cristiano occidentale degli scritti aristotelici: nel 1210 c’è una prima interdizione del sinodo di Parigi; nel 1215 lo statuto dell’università di Parigi vieta gli scritti di metafisica e di fisica; anche il papa mette in allarme con una lettera del 1228 e con la bolla Parens scientiarum (“Madre delle scienze”) del 1231. Dopo il 1240 il fuoco di sbarramento cessa e Aristotele entra a Parigi con tutte le sue opere. Lo statuto del 1255 lascia cadere anche ufficialmente i divieti.

Entrando nell’università di Parigi, Aristotele divide i teologi: i francescani, con Bonaventura da Bagnoregio, guidano la reazione, riorganizzando il pensiero agostiniano; i domenicani, invece, con Alberto Magno e con Tommaso d’Aquino, aprono ad Aristotele, ma lo sottopongono ad un radicale processo di adattamento alla teologia cristiana. La distinzione di Avicenna dei due significati dell’essere viene ripresa e sviluppata da Tommaso al fine di rendere la metafisica di Aristotele compatibile con la fede nella creazione.

C’è anche chi, come Sigieri di Brabante (1235-1282), segue Averroè e rifiuta ogni tentativo di conciliazione con la teologia ecclesiastica. Egli avvia l’averroismo latino, caratterizzato dalle tesi della netta separazione tra fede e ragione, dell’eternità e necessità del mondo contraria al dogma della creazione, della separazione dell’intelletto attivo e passivo dall’anima umana e la loro attribuzione a Dio. Naturalmente questo indirizzo subisce diverse condanne ecclesiastiche.

A metà del Trecento Aristotele ha ormai vinto tutte le resistenze.

Nel 1346 il papa Clemente VI, nella sua campagna contro le idee di Occam, il cui insegnamento a Parigi è proibito dal 1339, invita allo studio di Aristotele in versione tomista. Nel 1366 il papa Urbano V impone che nei nuovi statuti dell’università di Parigi ci sia l’obbligo di conoscere i testi aristotelici di metafisica, di fisica e di morale per ottenere la licenza nella Facoltà delle Arti.

* * *

Tra la fine del secolo XI e l’inizio del XII, la questione degli universali, che il medioevo eredita da Porfirio e da Severino Boezio, diventa un campo di battaglie filosofiche particolarmente accese ed appassionate. Le posizioni si radicalizzano ed entra in campo un combattente eccezionale per rigore razionale e per forza polemica, Abelardo.

Le ragioni di tanta polemica possono trovarsi nel fatto che viene investita la Trinità, il cuore del cristianesimo. Anselmo d’Aosta, infatti, accusa Roscellino di trasformare, col suo nominalismo estremo, la Trinità in triteismo, di negare cioè l’unità sostanziale delle tre persone divine facendone tre divinità distinte.

Tutto comincia quando Anselmo d’Aosta viene informato da un monaco che Roscellino sostiene che gli universali, cioè i nomi dei generi e delle specie, non hanno nella realtà un corrispondente universale, esistendo solo gli individui, e sono quindi solo un suono, un movimento di voce (flatus vocis) col quale si indicano una pluralità d’individui. Anselmo capisce subito che questa tesi, apparentemente di natura solo logica, può mettere in crisi il concetto cardine del cristianesimo, quello del carattere uno e trino di Dio. Se Roscellino afferma che esistono solo i singoli uomini e non la loro sostanza umana universale, anche le tre persone della divinità possono venir pensate come entità distinte, non unite da una comune sostanza. Il dogma della Trinità va in pezzi. Per questo, Anselmo apre il fuoco. Sotto la sua guida si forma uno schieramento teologico e filosofico che porta alla condanna delle posizioni di Roscellino e alla distruzione delle sue opere. Noi, oggi, conosciamo le tesi di Roscellino solo da quel che ne scrivono i suoi avversari, Anselmo e Abelardo. La stessa espressione “flatus vocis”, a lui attribuita, è di Anselmo.

Contro la tesi di Roscellino, Anselmo, in base al suo platonismo agostiniano, sostiene che gli universali corrispondono alle idee nella mente di Dio ed esistono pertanto ante rem, cioè prima delle cose, come modelli universali della creazione divina. Anche i platonici della scuola di Chartres sostengono posizioni realistiche. Ma è Guglielmo di Champeaux il campione del realismo più radicale. Egli arriva a sostenere che le differenze individuali si riducono agli aspetti accidentali delle cose, essendo gli universali presenti nelle cose e costituendone la sostanza. Anche lui, quindi, mette in crisi il dogma della trinità, ma, sul versante opposto di Roscellino. Pressato dalle critiche di Abelardo, egli attenua il suo realismo.

Abelardo, che è stato allievo sia di Roscellino che di Guglielmo di Champeaux, li critica aspramente entrambi ed elabora una sua posizione originale, detta concettualismo.

Criticando il realismo, Abelardo, parte dalle nozioni aristoteliche di cosa (res) e di universale, sostiene l’impossibilità d’intendere l’universale come una res. Questa infatti è la sostanza prima di Aristotele, è un’entità individuale, è dotata di esistenza autonoma, è sempre soggetto e non può diventare predicato. L’universale, invece, come insegna Aristotele, è ciò che può essere predicato di molte cose (es. cavallo si può dire di tutti i cavalli). Ma, se l’universale non è una res, non è neppure solo un nome, perché il nome “cavallo”, ad esempio, indica un concetto; è quindi una parola dotata di significato, che si ricava dall’osservazione di ciò che le res, gli individui, hanno in comune, e che consente il suo uso come segno di molte cose.

Perché una questione apparentemente astrusa come quella degli universali assume tanta importanza in pieno medioevo?

Basta rispondere che essa implica problemi sulla natura della conoscenza e del linguaggio e questioni teologiche fondamentali, come quella della Trinità? Sarebbe già una buona ragione, ma c’è anche dell’altro: c’è in incubazione l’idea di individuo, che, poi, matura in età moderna, e c’è un nuovo interesse al mondo naturale, alle cose nella loro concretezza.

La rinascita delle città, dell’attività economica e dei traffici, rompe vecchi ordini sociali e promuove la germinazione dell’autonomia individuale. Non solo le due massime istituzioni medievali a vocazione universale, il papato e l’impero, sono in lotta fra di loro ed hanno crisi al loro interno, ma l’aria di città che rende liberi mette in crisi i mondi tradizionali in cui gli uomini vivevano chiusi e, in un certo senso, confusi e identificati. Gli ordini sociali si aprono e liberano i movimenti degli uomini che li abitano. La nuova mobilità sociale valorizza gli individui e alleggerisce la consistenza dei vecchi ordini sociali, dei vecchi universi umani. Il nominalismo e il concettualismo esprimono questa novità rovesciando insieme al realismo il peso degli universi in cui gli uomini sono organizzati e chiusi, libera gli individui riconoscendone l’autonomia ontologica.

La battaglia sugli universali e sulle sue implicazioni teologiche, quindi, esprime movimenti profondi nella società medievale. Del resto, il termine persona, che nella lingua latina significava “maschera teatrale”, acquista il significato odierno proprio grazie ai mutamenti di significato che comporta l’uso teologico del termine per articolare l’unica sostanza divina in tre persone. Per la somiglianza tra l’uomo e Dio, elaborando il concetto di persona divina, la teologia prepara il concetto di persona umana.

Le tesi antirealistiche della questione degli universali sono una specie di legittimazione metafisica dell’individualismo: demoliscono il fondamento metafisico del primato dell’ordine, dell’universo sociale, sugli individui; rendono liberi, proprio come l’aria di città.

Non è un caso che Abelardo, il campione dell’antirealismo, sia anche il primo medievale a scrivere un’autobiografia, e che il nominalismo conosca una forte ripresa con Guglielmo di Occam, al tramonto del Medioevo e all’alba dell’età moderna, quando l’universo medievale va definitivamente in pezzi.

Nel Duecento, Tommaso D’Aquino, il filosofo mediatore, riesce ancora a trovare un’articolata soluzione di compromesso alla questione degli universali. Sostiene, infatti, componendo in armonia elementi delle diverse soluzioni, che gli universali sono

  • ante rem, hanno cioè una realtà che precede le cose individuali, in quanto esistono ab aeterno nella mente di Dio, prima delle cose create:
  • in re, cioè costituiscono l'essenza delle cose introdotta da Dio nell'atto della loro creazione;
  • post rem, poiché la mente dell'uomo nell'elaborazione della realtà è in grado di estrarli dalle cose mediante l’astrazione e trasformarli in immagini mentali, in concetti e alla fine in parole e in segni convenzionali.

Nel Trecento, però, quella bella armonia non regge più.

Un altro aspetto delle lotte antirealistiche sulla questione degli universali è la legittimazione dello studio del mondo naturale basato sull’osservazione diretta delle cose, sull’importanza dei dati, dei fatti,dell’esperienza. Insomma, la battaglia sugli universali accompagna ed esprime in termini logici e metafisici la gestazione del mondo moderno nei secoli medievali.


Fonte: ANNO ACCADEMICO 2010-11 - UNIVERSITA’ POPOLARE DI TORINO

Torino 19 aprile 2010

Giuseppe Bailone ha pubblicato Il Facchiotami, CRT Pistoia 1999.

Nel 2006 ha pubblicato Viaggio nella filosofia europea, ed. Alpina, Torino.

Nel 2009 ha pubblicato, nei Quaderni della Fondazione Università Popolare di Torino, Viaggio nella filosofia, La Filosofia greca.

Due dialoghi. I panni di Dio – Socrate e il filosofo della caverna (pdf)

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Foto di Paolo Mulazzani


Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Teoria
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Aggiornamento: 14/12/2018