IL VALORE DELLA COSCIENZA

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IL VALORE DELLA COSCIENZA

Il cristianesimo ha notevolmente sviluppato il concetto di "persona", introducendo, per così dire, il valore della responsabilità personale, l'idea di libera scelta, il primato della coscienza...

Prima del cristianesimo era considerato "persona" solo l'individuo che disponeva di un certo potere o che ricopriva un qualche ruolo ufficialmente riconosciuto. Non si era "persona in sé", a prescindere da tutto, ma soltanto in rapporto a qualcosa di estrinseco. Il valore di una persona era dato da qualcosa di "esterno", che l'individuo doveva "possedere" per essere considerato qualcuno.
Nel mondo romano occorreva almeno lo status di cittadino libero: cosa che distingueva il romano dallo straniero, il libero dallo schiavo. Poi naturalmente vi erano i ruoli politici, sociali, culturali, religiosi.

Fra i cittadini liberi, l'uomo era più "persona" della donna, e il vecchio più del giovane.

Il cristianesimo invece, dando importanza al concetto di "persona in sé", ha avuto il coraggio di affermare che l'essere umano, in coscienza, può essere "libero" anche se fisicamente o giuridicamente è "schiavo".

Questo concetto fu rivoluzionario, poiché poteva impedire al potere costituito di servirsi del concetto di "ruolo" in maniera arbitraria.
E' vero che il cristianesimo sosteneva che alle autorità bisognava obbedire non solo per "dovere" (come sempre era stato), ma anche per "motivi di coscienza" (col che si può pensare che il cristianesimo abbia legittimato eticamente il servilismo dei cittadini nei confronti delle autorità costituite); ma è anche vero che, una volta introdotto il concetto di "coscienza", il cristianesimo veniva inevitabilmente a porsi in maniera concorrenziale col potere costituito, in quanto, se da un lato, il cristiano poteva predicare la subordinazione, dall'altro poteva anche predicare il contrario, a seconda delle circostanze contingenti, ovvero degli interessi in gioco.

In tal senso si può tranquillamente affermare che il cristianesimo, circoscrivendo il concetto di "coscienza" nell'angusto ambito della religione, ha fatto di questa uno strumento politico da poter usare anche in maniera eversiva (cosa che nell'ambito del paganesimo assai raramente avveniva: le religioni pagane che si opponevano al sistema, normalmente predicavano l'evasione dalla realtà).

La storia del cristianesimo ha dimostrato che ogniqualvolta le autorità cristiane chiedevano al credente di servirsi della propria coscienza per opporsi all'autoritarismo (vero o presunto) delle autorità laico-statali, lo scopo era anzitutto quello di aumentare i poteri politici della chiesa, cioè quello di servirsi dell'obiezione di coscienza per trasferire il totalitarismo da un potere istituzionale a un altro. Questo almeno è quanto è accaduto nell'ambito del cattolicesimo-romano.

Eccezioni se ne possono trovare nei primissimi secoli della nostra èra o in molti fenomeni ereticali, allorché i credenti si servivano della loro coscienza per opporsi anche al totalitarismo della chiesa.

Fintanto che il primato della coscienza sul ruolo è rimasto organico all'esperienza ecclesiale comunitaria, i vantaggi sul piano socio-culturale sono stati notevoli per la chiesa; e proprio in forza di questi vantaggi il cristianesimo ha potuto vincere la propria battaglia sul paganesimo.

I guai sono venuti quando il cristianesimo, nella forma storica del cattolicesimo-romano, ha rinunciato politicamente alla prassi comunitaria, trasformando il ruolo del pontefice in una monarchia teocratica assoluta. La conseguenza è stata la trasformazione del valore della persona in un concetto meramente astratto, oggetto di speculazione filosofica, cui appellarsi soprattutto quando la prassi individualistica comportava degli eccessi pericolosi. 

Nel momento stesso in cui la contraddizione fra politica autoritaria e collettivismo più o meno democratico è giunta al culmine della tollerabilità, è nato il protestantesimo, che ha legittimato l'individualismo anche sul piano sociale. Ed è stato così che è poi nato il capitalismo.

Il capitalismo poteva nascere solo in un ambito che "cattolico" era più sul piano teorico che pratico, più sul piano sociale che politico. A questo punto le alternative erano due: o il cattolicesimo si trasformava in protestantesimo, permettendo al capitalismo d'imporsi con relativa facilità; oppure il capitalismo in fieri veniva politicamente costretto a ridimensionarsi, onde permettere al feudalesimo di sopravvivere. In Italia la chiesa cattolica scelse, attraverso la Controriforma, questa seconda strada.
A questo punto ci si può chiedere: perché il protestantesimo non ha promosso lo schiavismo invece del capitalismo? Perché lo schiavismo avrebbe potuto promuoverlo solo in termini non-cristiani, cioè solo là dove non fosse esistita alcuna coscienza cristiana (sul valore della persona).

Il capitalismo non è che la maschera cristiana dello schiavismo, cioè è il modo cristiano individualistico (e quindi protestante) di vivere lo schiavismo in un ambito dominato ideologicamente dal cristianesimo. Infatti, il capitalismo, a differenza dello schiavismo, garantisce formalmente la libertà a tutti i cittadini e lavoratori.

Questa maschera non è stata necessaria nei paesi extra-europei, dove, anche se sul piano pratico l'esigenza comunitaria si manifestava con un certo vigore, non si era ancora arrivati, in mancanza della profondità del cristianesimo, a elaborare un'ideologia del valore assoluto della persona. L'individuo veniva semplicemente considerato come una parte del tutto e mai, in nessun caso, come un elemento che, in virtù della propria consapevolezza di sé, poteva porsi al di sopra dei limiti comunitari e naturali.

Il cristianesimo ha vinto sulle culture non cristiane perché ha imposto il dominio politico e ideologico della persona astratta sul collettivo concreto, che ancora non aveva sufficiente consapevolezza della propria forza. Il dominio di una persona che di umano non ha più nulla, se non la consapevolezza di poter usare la libertà per compiere le azioni più negative.

Naturalmente c'è un rovescio della medaglia che il cattolicesimo-romano non poteva prevedere: l'uso arbitrario del concetto di "persona" è possibile appunto perché questo concetto esiste. La sua esistenza può indurre gli esseri umani a considerare negativamente ogni forma di abuso e di arbitrio.

Le culture non cristiane, schiavizzate dal cattolicesimo-romano e dal protestantesimo, possono trovare nel cristianesimo originario la forza per emanciparsi, anche se la storia ha dimostrato, nel frattempo, che tale emancipazione può avvenire solo se i valori del cristianesimo vengono definitivamente laicizzati.

IDEE E VALORI

Non bisogna mai associare i valori alle idee ma solo ed esclusivamente ai bisogni.

Le idee sono fisse o comunque tendono a semplificare eccessivamente la realtà. In fondo tutta la filosofia borghese è stata il tentativo di dare un senso astratto a una realtà che aveva perduto il suo senso concreto, quello religioso. Questo senso religioso era diventato con la Scolastica tanto più astratto quanto meno si riferiva ai bisogni delle masse.

Forse si può dire che la Scolastica sia stata il tentativo religioso di venire incontro alle esigenze della borghesia e quando questa si era sufficientemente sviluppata a livello sociale, essa ha avvertito il bisogno di superare le astrattezze teologiche della Scolastica con quelle filosofiche del cartesianismo, che dà praticamente il via alla filosofia borghese moderna.

La rottura tra cartesianismo e Scolastica è quindi in realtà solo apparente, solo nominalistica: nella sostanza c'è stata una precisa linea di continuità a favore della borghesia. Qui sono le radici del moderno capitalismo.

Per tornare a fare teoria concreta, utile a tutto il popolo e non solo a una classe, occorre ripartire dai bisogni, perché questi danno il senso alla realtà. I bisogni mutano di continuo ponendo sempre nuove domande e ogni risposta che pretenda d'essere definitiva è un abuso.

Da una lettura realistica, circostanziata, dei bisogni devono emergere le idee giuste al fine di realizzare un mutamento significativo, che non sia solo di facciata. Questo è il modo migliore di vivere i valori. Ecco perché deve apparire del tutto normale che i grandi dell'umanità: Socrate, Cristo, Buddha... non abbiano voluto lasciare dei trattati teorici.

Esigere una coerenza di idee significa fare un torto alla libertà dell'uomo.

LA LIBERTA' DI COSCIENZA

Chiunque si rende facilmente conto che là dove viene considerata prevalente, tra i valori esistenziali, la libertà di coscienza, diventa del tutto irrilevante il bisogno di servirsi della scrittura per tutelare tale libertà.

Ha senso scrivere sulla libertà di coscienza fintantoché bisogna lottare per affermarla come valore prioritario della vita. Ma una volta conquistato politicamente o giuridicamente l'obiettivo, tutto il resto va vissuto praticamente, lasciando gli uomini liberi di scegliere le forme e i modi.

La politica è solo lo spazio in cui il valore può essere vissuto. La politica non ha realtà propria: essa pone solo delle condizioni.

Il marxismo sbagliava nel considerare la politica una sovrastruttura dell'economia, perché poi finì, da un lato, col considerare la politica d'importanza secondaria ai fini della transizione al socialismo (tant'è che il marxismo occidentale, a differenza del leninismo, non ha mai saputo elaborare una strategia politica rivoluzionaria, con cui superare l'idea che il capitalismo avrebbe dovuto esaurire tutte le proprie potenzialità, prima che si ponesse all'ordine del giorno il problema del suo superamento); e, dall'altro, il marxismo occidentale ha finito, in maniera arbitraria, per fare dell'economia la sfera principale del vivere sociale, tralasciando o sottovalutando il valore strategico di altri aspetti (come p.es. l'etica e la cultura) che, per la loro importanza, sono addirittura in grado di influenzare le stesse scelte economiche. In fondo il gramscismo è solo un'acquisizione recente del marxismo occidentale.

Oggi finalmente è diventato chiaro che oltre alla sfera economica e politica, che pur vanno vissute sino in fondo, vi sono altre sfere di pari importanza, come quella sociale, che implica la completezza dei rapporti interumani, e quella culturale, che indica i valori con cui tali rapporti dovrebbero essere vissuti, e infine quella della libertà di coscienza, che esprime, nell'insieme dei valori umani, quello che in sostanza dà valore a tutti gli altri.

Il compito di oggi è quello di stabilire le condizioni formali perché un essere umano possa esercitare liberamente la sua facoltà di scelta.

Ciò che si deve evitare è di elaborare una formula che spieghi come dovrebbe essere vissuta la libertà di coscienza.

COLPA, GIUDIZIO E COSCIENZA

Se dicessimo che sono esclusivamente le circostanze che determinano le azioni degli uomini, diremmo una sciocchezza non meno grande del contrario, e cioè che ogni uomo è libero di decidere il proprio destino.

La libertà non esiste se non entro certi limiti, e tuttavia all'interno di questi limiti nessuno ha il dovere di sentirsi un condannato. Rimane sempre sufficiente spazio per mettersi alla prova, per saggiare il proprio livello di responsabilità.

Quando si giudicano le azioni degli uomini bisognerebbe fare sempre delle ricerche preliminari sul contesto in cui sono maturate determinate scelte, ovvero bisognerebbe verificare fino a che punto una scelta può essere definita tale, fino a che punto una determinata azione è stata il frutto di una scelta consapevole, oppure di una scelta più o meno forzata.

E' difficilissimo poter stabilire, nell'esame di certe azioni, quanto sia frutto di circostanze e quanto invece frutto di scelte consapevoli.

Sono giudizi talmente difficili che si arriva a un punto in cui ci si sente indotti a sospendere ogni giudizio: è il punto in cui ci si scontra con un limite invalicabile, quello della coscienza.

E' un'assurdità pretendere di giudicare gli uomini quando sono in grado di far pesare le maggiori responsabilità più sulle circostanze che sulla loro coscienza, o quando, al contrario, si colpevolizzano al punto da non capire che anche determinate circostanze possono aver influenzato certe loro scelte.

Un affronto meramente giuridico della colpa porta soltanto a un vicolo cieco. La legge rende la giustizia schematica, superficiale... La legge rende cieca la giustizia. E' paradossale, ma la realtà dice così.

Giudicare una persona sulla base di definizioni generiche, astratte, è quanto di più assurdo si possa fare, poiché se c'è un elemento il cui contenuto sfugge a qualunque definizione e a qualunque analisi, questo è proprio la coscienza.

Se guardassimo le cose dal punto di vista della coscienza, noi dovremmo ammettere che molte azioni commesse da persone ritenute "colpevoli" (secondo i parametri giuridici dominanti), avrebbero potuto essere compiute, in circostanze analoghe, dalle stesse persone che emanano sentenze di condanna, se solo queste persone fossero state meno "fortunate" o meno disposte a fare compromessi con la propria "coscienza".

Chi nasce ricco ha meno motivi di compiere crimini, ovvero ha molte più possibilità di delinquere secondo modalità del tutto legali. Il rapporto tra Stato e mafia è tutto qui: due facce di una stessa medaglia.

Gli uomini non sono in grado di giudicare gli uomini: possono soltanto mettere sul piatto della bilancia tutte le possibili motivazioni che possono aver generato determinate azioni, e, fatto questo, debbono cercare di porre le basi perché quelle azioni non abbiano a ripetersi.

Queste basi non possono ovviamente essere coercitive, poiché ogni coercizione è una violazione della coscienza. E' solo l'esempio che può indurre al bene.

LA LIBERTA'

La cosa che più conta nella vita di un uomo è la libertà, perché è questa la caratteristica fondamentale della sua umanità. Là dove c'è giustizia, onestà, verità, c'è necessariamente anche libertà.

La libertà è il sale della terra, la luce del mondo: non è la verità che rende liberi, è il senso di libertà che ci porta a essere veri, onesti, giusti.

La cultura occidentale non ha alcuna conoscenza della vera libertà. Infatti ritiene che libertà voglia dire "poter fare" e, per poter fare, la cultura occidentale ritiene che il mezzo migliore sia quello di "possedere" qualcosa: schiavi, terre, capitali...

La libertà per noi è strettamente legata a qualcosa di materiale. La cultura occidentale non riesce neppure a concepire che la forma più negativa di esperienza della libertà è quella di chi possiede il potere soltanto in nome di un'idea.

In occidente le idee vengono utilizzate per ottenere un potere che, in ultima istanza, è sempre di tipo materiale. Qui sta la grande diversità tra le dittature nazi-fasciste e quelle staliniste-maoiste.

La libertà occidentale è sempre una forma di arbitrio individuale strutturato in maniera gerarchica, in cui il concetto di obbedienza è determinato esclusivamente dai rapporti di forza.

In nome di questi rapporti il superiore può chiedere al subordinato qualunque cosa e quest'ultimo non si sente responsabile di ciò che compie.

Non esiste il concetto di "persona" nella cultura occidentale, ma solo il concetto di "ruolo" o di "funzione". Chi non crede nel valore della libertà, quella vera, non può credere nel concetto di persona.

La libertà non è cosa che possa essere descritta o regolamentata. La libertà può essere solo vissuta, cioè sentita, gustata, assaporata.

TRADITO E TRADITORE

Se la persona tradita non riesce a perdonare il traditore pentito è perché l'orgoglio personale è superiore all'amore.

Non si tollera il tradimento perché si pretende di essere amati; la stessa pretesa è spesso la conseguenza di un'autoimposizione, quella di dover amare qualcuno.

Si pretende di essere amati perché ci si impone di amare qualcuno. Là dove manca la spontaneità e soprattutto la reciprocità, non ci può essere perdono, ma solo punizione (o autopunizione).

Questo succede quando l'amore viene vissuto entro i confini della logica giuridica. Là dove c'è diritto c'è pure interesse. L'amore dovrebbe essere un'altra cosa. Anche perché il tradimento fa più male al traditore che al tradito.

La coscienza del tradito viene infatti turbata solo dall'esterno, ma la coscienza del traditore è sconvolta dall'interno.

LIBERTA' E PROPRIETA'

Se guardiamo il modo di funzionare della libertà, nella civiltà borghese, noteremo che una delle maggiori illusioni è quella di far credere che chiunque, volendo, può diventare un capitalista e godere quindi della massima libertà, in quanto la libertà viene fatta coincidere con la proprietà: quanta più proprietà tanta più libertà.

Nelle società borghesi si sostiene che si è liberi solo se si è liberi di possedere qualcosa, ma tutti sanno che in questa società chi possiede qualcosa raramente è disposto a cedere parte della propria proprietà perché altri possano essere liberi come lui.

La libertà diventa così una possibilità formale, che diventa reale solo in circostanze molto fortuite o casuali (p.es. una vincita al gioco o un'eredità).

La proprietà di pochi determina, di fatto, la schiavitù di molti. Questa conclusione si sarebbe potuta evitare se nella fase della partenza ci fossero stati condizioni uguali per tutti; tuttavia, non solo questo non è avvenuto, ma anche in seguito, chi è riuscito ad accaparrarsi qualcosa ha progressivamente impedito ad altri di fare altrettanto. Sicché è diventato inevitabile lo scontro generazionale, interno alle singole nazioni, fino agli scontri tra popoli, Stati, civiltà ecc.

La vera libertà, se vogliamo, dovrebbe provenire da una necessità: p.es. è necessario che la proprietà sia "sociale" perché gli uomini siano liberi.

Ovviamente è assurdo definire la libertà umana in base a parametri di tipo economico. Il socialismo reale, sotto questo aspetto, commise un errore analogo a quello del capitalismo; la differenza stava semplicemente nel fatto che là dove esisteva una proprietà privata si era imposta una proprietà statale.

Lo Stato è "di tutto il popolo" -si diceva-, per cui ciò che è statale assicura uguaglianza e libertà per tutti. In realtà non solo lo Stato non può coincidere col popolo, poiché là dove esiste socialismo democratico non può esserci "Stato", ma anche qualora esistesse detto socialismo, si potrebbe con sicurezza affermare che esiste anche la libertà?

La libertà umana non può essere equiparata a una pura e semplice socializzazione della proprietà. La democrazia economica, che pur in Europa occidentale non è mai esistita, se non nelle società pre-schiavistiche, non è che il primo passo della libertà, cioè non è che il presupposto materiale su cui occorre costruire un edificio che di materiale non ha nulla, essendo composto solo di elementi umani.

La vera libertà umana deve rimanere come possibilità di scelta anche quando è stata posta la giusta necessità materiale. Nel capitalismo tale possibilità è puramente formale, in quanto di fatto l'assenza di proprietà sociale rende schiavi i nullatenenti.

Ma anche la presenza di proprietà sociale non può obbligare nessuno a essere libero, poiché ogni costrizione nell'uso della libertà rende schiavo l'essere umano.

Inutile dire che l'occidente capitalistico non è in grado di porsi problemi del genere perché, dopo il crollo del comunismo da caserma, è sempre più convinto che non esista alternativa alla proprietà privata.

Il socialismo prossimo venturo non potrà più limitarsi a porre un'alternativa vera al capitalismo (un'alternativa "sociale" e non meramente "statale") solo sul piano economico, ma dovrà porla sotto ogni punto di vista, il primo dei quali dovrà essere quello "umano".

Il socialismo deve dimostrare di essere più vivibile del capitalismo appunto perché più "umano". E la principale caratteristica umana da far valere sarà quella di un rapporto equilibrato con la natura. L'uomo non può fregiarsi del titolo di "umano" se non rispetta le leggi, i ritmi, i tempi della natura.

Quindi accanto alle questioni di giustizia economica, andranno poste quelle di tutela ambientale.

Contemporaneamente si dovranno chiarire i rapporti tra i sessi, poiché non ha senso né la democrazia economica né la tutela ambientale, senza la parità dei sessi, senza il rispetto e la valorizzazione della diversità.

Ma non basta ancora per definire "umana" una società. Quand'anche gli uomini avessero ottenuto la proprietà sociale e quindi la gestione autonoma, consapevole dell'economia, quand'anche avessero capito che nessuna economia sana è possibile se non è sostenibile nei suoi rapporti con la natura, quand'anche infine si fosse capito che non può esistere nessuna vera forma di uguaglianza sociale o pubblica se contestualmente non si sviluppa quella fra uomo e donna - resterebbe ancora una cosa da fare: vivere per i più deboli.

La donna, ma soprattutto l'uomo devono imparare a capire che quando si favorisce la crescita di chi presenta maggiori difficoltà di riuscita o meno risorse degli altri, i vantaggi avranno una ricaduta su tutti, il primo dei quali sarà proprio quello di maturare la consapevolezza di una realizzazione personale.

L'IDENTITA' UMANA

Il problema principale dell'identità umana è quello di come vivere un'esistenza naturale, cioè non forzata da circostanze che inducono a fare scelte non umane. Tra umanità e naturalità la differenza dovrebbe essere minima.

Se gli esseri umani vivessero secondo natura, non sarebbero costretti a cercare nell'eccesso, nell'estremo o nel paradosso il significato della loro vita. Infatti la cosa più sintomatica di questa mancanza d'identità è proprio la ricercata diversità con cui si vuol vivere. L'ansia di protagonismo, cioè il voler essere disperatamente qualcuno, è indice di sicura alienazione.

Se gli sforzi che si fanno per affermare il proprio individualismo fossero indirizzati verso la preservazione dello stile di vita comunitario, probabilmente non esisterebbero contraddizioni antagonistiche, ma solo problemi da risolvere.

La tragedia dell'uomo civilizzato è quella di non riuscire a essere se stesso, è quella di cercare continuamente un modo per affermare la propria individualità contro l'individualità degli altri. Il risultato è che ognuno si trova a vivere un ruolo che le circostanze gli impongono. Per poter emergere si finisce con l'assumere dei comportamenti innaturali, eterodiretti, troppo eccessivi per essere veri.

Gli uomini non hanno ancora risolto il problema di come superare questa alienazione tipica delle civiltà antagonistiche. Probabilmente perché non hanno risolto alla radice problemi come il dominio della proprietà privata, lo sfruttamento del lavoro altrui, il saccheggio delle popolazioni tecnologicamente e soprattutto militarmente più deboli, l'esigenza di scatenare guerre senza fine quando l'affermazione di sé viene messa in forse.

L'uomo deve imparare a sentirsi libero di fronte alle cose e soprattutto deve imparare a lottare per salvaguardare il senso di umanità che è in lui e il contesto naturale che è al di fuori di lui. Qualunque opera di ricostruzione dell'identità umana che non tenga conto delle esigenze della natura, è destinata sicuramente a fallire. L'uomo è parte della natura, è un soggetto di natura e tutto ciò che viola le leggi della natura mina la stabilità del consorzio umano.

Quando usiamo il concetto di "storia" in riferimento alla sola "storia delle civiltà", considerando la "preistoria" con distaccata superiorità, non ci rendiamo conto che la storia è solo la storia di vari tentativi in cui i fallimenti sono infinitamente superiori ai successi, mentre la preistoria è la storia di una realtà.

Bisognerebbe convincersi che il problema dell'identità umana può avere solo due vie percorribili: o esiste un'unica storia dell'uomo in cui risulta chiaro che i modelli di vita sono sempre stati basati su due uniche alternative: proprietà collettiva o proprietà privata, condivisione o separazione dei beni ecc., con conseguenze ovviamente diverse, per cui, nella consapevolezza di ciò, gli uomini sono tenuti ad assumersi determinate responsabilità; oppure è meglio precisare subito che la storia di cui si parla è soltanto quella di una determinata civiltà, basata sull'antagonismo e sulla sperequazione dei beni, ovviamente secondo forme e modi differenti, e che il concetto di "preistoria" è stato elaborato da queste civiltà per indicare uno stile di vita rozzo e primitivo.

Se si ponessero dei paletti del genere forse comincerebbe ad avere un senso la storia come "scienza dell'uomo". Studiare la storia infatti dovrebbe voler dire analizzare le condizioni in cui l'uomo può essere se stesso e cercare di capire le motivazioni per cui spesso preferisce non esserlo o non gli riesce di esserlo (cioè a prescindere dalla consapevolezza che può avere del problema).

Lo studio della storia dovrebbe partire da un'esigenza morale e politica, strettamente legata al presente, in quanto qualunque studio della storia che non aiuta a capire e a migliorare il presente, non serve a nulla. Il passato va visto in funzione del presente, anche se il presente non può pretendere, solo perché presente, di essere migliore del passato o di poterlo giudicare. Oggi anzi siamo assolutamente convinti che il presente debba recuperare qualcosa che si trova nel passato e che i nostri ritardi rendono sempre più lontana.

L'uomo deve ritrovare, nella consapevolezza del male che lo caratterizza, la cosiddetta innocenza perduta. Questo compito, di una complessità eccezionale, può essere affrontato e risolto solo con la sforzo congiunto di tutti gli uomini.

Forse qualcuno può obiettare che non c'è bisogno di studiare il passato per risolvere i problemi del presente. Certo, il passato, di per sé, non può (e non deve) offrire la soluzione dei problemi del presente, tuttavia gli uomini non possono fare a meno della memoria storica (tradizione, senso comune, valori...), che si trasmette attraverso le generazioni. Pensare di poter fare a meno di questa linfa vitale, significa condannarsi a ripetere sempre gli stessi errori.

ETICA

Si accondiscende alle richieste altrui anche quando si teme che le promesse non verranno mantenute. Lo si fa non solo per dare fiducia oltre lo stretto necessario, ma anche perché si pensa che gli uomini possano imparare dai loro stessi errori.

LE POSSIBILITA' DEL BENE

L'unica cosa che davvero conta nella vita è essere se stessi, cioè essere come si dovrebbe umanamente essere. Solo che quando mancano i parametri, i modelli di confronto, quando manca la possibilità di imitare ciò che è umano, quando la memoria, l'esperienza, la stessa vita non ci sono di molto aiuto, quando il senso di umanità è più che altro un'esigenza, un'aspirazione, un sogno, quando, in una parola, manca l'essenziale, è praticamente impossibile essere se stessi: si è troppo condizionati dalla negatività della vita.

E che questa negatività sia determinata più da un aspetto che da un altro o da tutti insieme, non fa molta differenza. Oggi indubbiamente prevale il condizionamento del profitto capitalistico e della rendita finanziaria, ieri dominava quello della rendita basata sulla terra, sugli immobili; nel mondo antico dominava l'esigenza di possedere schiavi.

Si è passati, nel corso dei secoli, da forme dirette, violente, senza mediazioni, di dominio, a forme sempre più indirette, sofisticate, mascherate, apparentemente legittime.

Questo perché nel corso dei secoli vi sono state gigantesche trasformazioni sociali, che hanno indotto gli uomini a rivedere usi e costumi e soprattutto valori umani e civili su cui poggiare le varie forme del vivere sociale.

Gli uomini che si sono opposti alle varie forme d'ingiustizia e di sfruttamento, hanno prodotto nuove forme di civiltà, in cui, ad un certo punto, per debolezza, per mancata coerenza ideale, per opportunismo, si sono formate nuove espressioni di ingiustizia e di sfruttamento, più subdole delle precedenti, più difficili da individuare e debellare.

Gli uomini che lottano contro le ingiustizie possono, ad un certo punto, porre le condizioni perché se ne creino altre, in forme inedite. Questo avviene anche contro la loro volontà oppure a loro insaputa. Mentre si pensa fare il bene, si finisce col porre le condizioni perché si sviluppi una nuova forma di male.

Questo non per dire che l'uomo è votato alla morte o che è un fastello di contraddizioni insolubili, ma semplicemente per dire che la realizzazione del bene è cosa molto complessa, non automatica e comunque sempre soggetta alle oscillazioni della libertà umana.

Nessuno può dire a priori ciò che è bene e ciò che è male. Una definizione astratta di bene o di male è sicuramente qualcosa di inutile, se non di negativo.

Una persona matura sa andare al di là delle apparenze ed è in grado di scorgere, fra l'immondizia in cui quotidianamente si vive, ciò che merita d'essere valorizzato.

Come i barboni, che razzolano tra i rifiuti, cercando qualcosa di utile se non addirittura di commestibile, così è l'uomo maturo, a contatto con una civiltà, quella capitalistica, che è come una mummia piena di orpelli.

RAPPRESENTAZIONE E VOLONTA'

Quando la rappresentazione della realtà non è in grado di permettere l'esperienza della medesima realtà o quando tale rappresentazione presume di includere in se stessa tutta l'esperienza che dovrebbe corrisponderle, la dipendenza del soggetto dalla rappresentazione risulta direttamente proporzionale al livello di contenuto intellettuale contenuto nella medesima rappresentazione, nel senso che quanto più è alto tale livello tanto maggiore è la dipendenza.

Questa legge spiega l'evoluzione di qualunque idealismo filosofico o religioso. Quanto più è astratta la rappresentazione della realtà, tanto meno l'uomo è disposto a rinunciarvi.

E' molto più forte questa dipendenza di quella creata attraverso la stimolazione artificiosa dei sensi, come p.es. nella cinematografia, nella pubblicità, nella pornografia, nei videogiochi ecc.

In generale si può dire che l'isolamento o l'estraniazione del soggetto dalla realtà è tanto più forte quanto più forti sono le tendenze a estremizzare, nella rappresentazione della realtà, determinati comportamenti (si pensi ad es. ai fenomeni paranormali o religiosi o agli atteggiamenti individualistici di chi è soggetto alle dipendenze psichiche o psico-fisiche).

Ma questo è oltremodo più vero nei casi in cui l'estremismo della rappresentazione coincide con la sua elevata astrazione, la quale, a certi livelli, tende a infondere l'idea che sia possibile un controllo relativamente sicuro delle antinomie della vita reale o comunque delle contraddizioni apparentemente ingestibili sul piano pratico.

L'ideale sarebbe che la volontà potesse servirsi della rappresentazione per realizzare ciò che desidera. Ma nella realtà l'uomo non possiede mai un potere mentale che coincide strettamente con quello volitivo. C'è sempre uno scarto rilevante tra ciò che si progetta e ciò che si realizza.

L'uomo infatti si scontra con vari tipi di condizionamento:

  1. il tempo di realizzazione dell'oggetto del desiderio è spesso più lungo del previsto, al punto che il desiderio può anche attenuarsi o la rappresentazione modificarsi, e, pur di realizzare l'idea, si è disposti a fare varie concessioni;
  2. esiste sempre il rischio che l'oggetto del desiderio, una volta materializzato, venga usato in maniera non prevista o addirittura opposta a quella preventivata, specie se i suoi tempi di realizzazione sono stati molto lunghi;
  3. è sempre molto difficile stabilire se le modifiche progressive alla rappresentazione debbano essere considerate legittime o inevitabili, proprio perché il protrarsi dei tempi di realizzo toglie purezza, inevitabilmente, all'idea originaria.

Si badi, con questo non si vuol dire che i condizionamenti storici debbano essere ridotti al minimo; anzi, è vero il contrario: se si vuole che una determinata rappresentazione dell'oggetto del desiderio venga condivisa dalla maggioranza delle persone, occorre che i condizionamenti siano il più possibile estesi. Il problema semmai è quello di trovare il modo di non farli scendere troppo in profondità, al fine di salvaguardare la purezza dell'intenzione originaria.

Attualmente una delle maggiori fonti di astrazione, che induce a credere nell'assoluta identità di conoscenza e azione, è costituita dalla rete informativa Internet.

E' la prima volta, nella storia del pensiero umano, che gli esseri umani si trovano a gestire una conoscenza di così enormi proporzioni ed è la prima volta che l'illusione di poter realizzare qualunque progetto si va diffondendo in maniera così veloce e planetaria.

Il web tende a estraniare il soggetto dalla realtà, assorbendo tutte le sue energie mentali e spegnendo la creatività nella soluzione dei problemi quotidiani.

Paradossalmente la mole d'informazione che si riceve è inversamente proporzionale all'uso che se ne può fare. Di fatto non si ha né il tempo né la forza per gestirla, al punto che tantissima o scarsissima informazione risultano equivalenti ai fini dell'affronto della realtà concreta.

Il web non può aumentare il senso di responsabilità se questo senso non viene aumentato nella reale vita quotidiana. Anche perché il tempo che si dedica alla rete è di fatto tempo sottratto alla soluzione dei problemi inerenti alla propria attività lavorativa e sociale.

La rete può diventare uno degli strumenti della vita reale se non la si trasforma in un'occasione per evadere da questa realtà.

IL SIGNIFICATO DELLA VITA

Non esiste alcun significato della vita se la propria vita non serve alla vita altrui.

Il significato della propria vita non può essere cercato che nella relazione ch'essa è in grado di stabilire con la vita altrui.

Ecco perché è giusto sostenere che il significato della vita di una persona sta nei rapporti sociali ch'essa è in grado di realizzare.

La vita ha un'identità nella misura in cui si rapporta alla diversità. Cioè nel rapporto con la diversità l'identità può esprimere se stessa.

Detto questo, tutto il problema si risolve nel modo di vivere la relazione sociale.

Ora, quando non esistono più le condizioni per essere se stessi, che è quello che si dovrebbe essere, secondo natura, e che non si riesce ad essere proprio perché si è smarrito il concetto stesso di natura, o comunque questa altro non è che un mero concetto astratto, la fine non è solo inevitabile ma necessaria, perché il protrarsi di un'esistenza del genere impedisce o comunque ostacola gravemente il sorgere o lo sviluppo di relazioni o di esistenze sociali che risultano più conformi alle leggi di natura.

La natura si riprende sempre ciò che le appartiene. Essa riconosce solo ciò che la rispetta. Vivere secondo natura è per l'uomo la conditio sine qua non per porre le basi della propria umanità.

IL RISPETTO

E' indubbiamente un segno d'immaturità il non saper rispettare la diversità. Da un lato si è ciecamente convinti della verità di sé, dall'altro si teme la sconfitta, e nel mezzo di questo atteggiamento ambivalente si compiono tragedie di ogni tipo,

Quanto più si lotta per affermare ad ogni costo la verità di sé, tanto più ci si accorge che questa verità è debolissima, per il semplice motivo che una verità che ha bisogno della forza per affermarsi, non vale nulla, non ha futuro, e se anche sembra averlo non è certo per la sua forza morale ma solo per la stupidità degli uomini, per il loro basso livello di consapevolezza critica e di determinazione politica.

Chi crede che l'uso della forza sia indispensabile, in attesa che gli uomini arrivino a credere per convinzione, in realtà perde il suo tempo, poiché là dove c'è la forza, lì c'è anche l'inganno. E se gli uomini sostengono di credere spontaneamente in questa forma di verità, è solo per fare un favore a chi li comanda, è solo per ricevere in cambio un altro favore. E' una fiducia strumentale.

L'uso della forza porta gli uomini a mentirsi, inevitabilmente. Ecco perché in situazioni del genere gli uomini che subiscono non possono rispettare i tiranni. Il rispetto dell'altro non può spingersi fino al punto in cui si confermano inalterati i rapporti di soggezione o di sudditanza.

Gli uomini possono rispettarsi solo nella reciproca libertà. Non si può rispettare una persona il cui comportamento minaccia la libertà altrui. Si può riconoscerne la forza, quando la propria è insufficiente per contrastarla, ma il vero rispetto è dovuto solo alla persona che non minaccia la sicurezza o la sopravvivenza altrui. In caso contrario qualunque rispetto è viziato in partenza, è sospetto, ai limiti della compiacenza o della collusione.

Questi discorsi ovviamente restano astratti finché non si scende sul terreno degli antagonismi sociali. Anche il capitalista potrebbe dire la stessa cosa nei confronti dei lavoratori, per quanto esista una certa differenza tra il rispetto dovuto a una persona isolata e che per di più sfrutta il lavoro altrui per vivere, e il rispetto dovuto a molte persone soggette a tale sfruttamento.

Il rispetto rivendicato dal capitalista non è che la richiesta di conservare i propri privilegi e sostanzialmente la libertà di vivere sulla base della proprietà che già possiede, che è poi quella che permette appunto lo sfruttamento economico.

Quando i possidenti parlano di rispetto, di conciliazione, di intese pacifiche..., lo fanno perché temono le masse e sperano sempre di poter continuare a ingannarle. Sono talmente abituati a sfruttare e a vivere di rendita che non riescono neppure a immaginare una situazione diversa, in cui il privilegio non esista.

Sono così abituati a ingannare il prossimo che preferirebbero qualunque azione estrema pur di non doversi ricredere.

Questi atteggiamenti sono infantili, perché dettati dallo spirito individualistico. Il capitalista vuole contrapporsi alla collettività, la disprezza proprio in quanto collettività, e la giudica come un qualcosa di costrittivo o di spersonalizzante, qualcosa da raggirare. Il capitalista rifiuta l'idea che si possa essere liberi solo entro determinati limiti stabiliti da una collettività.

Quando le masse sfruttate si ribelleranno, occorrerà precisare che il capitalista va disprezzato non come persona ma per il ruolo che ricopre. La collettività deve dimostrare che l'unica cosa che davvero conta nel vivere civile è la coscienza di sentirsi liberi.

Non la coscienza dell'idealista, che s'illude d'essere libero pur vivendo un'esistenza da opportunista, ma la coscienza dell'uomo maturo, che non vede il concetto di libertà contrapposto a quello di giustizia e di uguaglianza sociale. E' comodo sentirsi liberi in un mondo di schiavi e quando uno schiavo, in un mondo come questo, dice d'accontentarsi di sentirsi libero "dentro", bisogna considerarlo come uno sprovveduto, anzi come un "infiltrato".

LA FRUSTRAZIONE

La stragrande maggioranza delle alienazioni sociali o delle malattie mentali è causata dal denaro o dalla sua mancanza, che è avvertita come un insopportabile peso, o dal suo eccesso, quando è vissuto come occasione per fare ciò che si vuole.

Sono pochi quelli che pensano che la frustrazione sia la molla per mettersi alla prova. I più fanno di tutto per non averne.

L'illusione è appunto quella di credere che la libertà stia nell'assenza di frustrazioni, quando, al contrario, è proprio misurandosi in esse che si determina la libertà.

Essere liberi non significa essere sazi, ma essere affamati e lottare per sfamarsi e scoprire di aver di nuovo fame.

Il cibo di cui bisogna nutrirsi è quello che permette all'uomo di essere umano. Non può quindi essere un cibo che viene tolto dalla bocca di altri.

Forse in futuro non sarà più il denaro la causa delle alienazioni sociali o delle malattie mentali.

Ciò che fa ancora più paura è infatti l'idea di umanità vissuta nell'ambizione del potere. Il crasso materialismo della civiltà borghese è destinato ad essere sostituito dal falso spiritualismo della civiltà post-borghese.

L'OTTIMISMO DELLA FRUSTRAZIONE

Probabilmente la maturità dell'uomo sta anche nel vedere in maniera positiva i propri limiti.

Se i difetti angosciano soltanto, non può esserci progresso, e un'esistenza senza difetti non ha senso, non sarebbe umana e sicuramente sarebbe noiosa.

Anche la psicologia sa bene che la frustrazione può portare a grandi risultati, se si è capaci di volgerla nella direzione giusta.

Il limite è un peso oggettivo, ma bisogna saperlo relativizzare, anzi, soggettivamente, bisogna saperlo sfruttare per un fine positivo.

E' difficile comunque sapere se tale limite è frutto di una intelligenza particolare della natura, la cui profondità ci sfugge, o se non sia invece una caratteristica specifica della natura che si riflette inevitabilmente sull'essere umano, che della natura è parte.

In altre parole: la natura è così intelligente da assegnare ad ogni individuo il limite di cui ha bisogno, oppure il fatto che un individuo sia caratterizzato da un limite piuttosto che da un altro va considerato come frutto di puro casualità?

Cioè l'intelligenza dell'uomo (che deve essere usata per superare il peso del limite) deve incontrarsi con quella della natura (che gli ha assegnato quel determinato limite), oppure l'uomo ha un'intelligenza tale che è in grado d'interagire con qualunque limite lo caratterizzi individualmente?

Se il limite fa parte della natura e quindi dell'essere umano, avere uno specifico limite o un altro non fa molta differenza. L'importante è esserne consapevoli e sforzarsi di adattare i propri comportamenti in una direzione pedagogica, che aiuti a crescere.

Questo senza considerare che ogni individuo è sempre caratterizzato da una molteplicità di limiti, ovviamente di peso diverso.

REGOLE E RAPPORTI SOCIALI

Fissare delle regole non serve a nulla se non mutano i rapporti sociali.

E' possibile che delle regole stabilite di comune accordo possano mutare i rapporti sociali? Le regole, di per sé, non possono mutare alcunché.

Il fatto stesso di porle indica due cose:

  1. che i rapporti sociali tradizionali non sono più "sociali";
  2. che si avverte l'esigenza di costruire nuovi rapporti sociali.

Le regole possono aiutare, sono uno strumento che può contribuire a realizzare nuovi rapporti sociali, ma, in definitiva, i rapporti sociali si costruiscono da soli, cioè in maniera sociale.

L'unico modo per costruire dei rapporti sociali autentici è quello di considerare il bisogno delle persone, condividendolo. Non c'è altro modo.

Ecco perché il criterio di democraticità di un rapporto sociale non può essere stabilito dalle regole che per iscritto ci si è dati.

Qui è verissimo il detto popolare: "Fatta la legge, trovato l'inganno".

ESSERE, NULLA E DIVENIRE

L'essere è ciò che è e che può essere relativamente negato dal proprio nulla, che è condizione dell'essere, in quanto non c'è nulla prima dell'essere, ed essendo il nulla soltanto non-essere, sua funzione positiva è quella di aiutare l'essere a essere se stesso con una consapevolezza accresciuta. L'essere infatti è libertà e questa ha bisogno di misurarsi, di mettersi alla prova.

L'essere ha dunque in sé il proprio divenire, che è frutto di molteplici negazioni progressivamente superate: divenire significa crescere nella dialettica di essere e non-essere. Questo il senso della libertà, che non è solo essere (libertà positiva) ma anche poter non essere o poter essere diversamente (facoltà dell'arbitrio) e quindi volontà di reagire al nulla relativo, al vuoto temporaneo, all'esigenza di una infinita diversificazione.

La ricerca dell'identità di sé è lo scopo del divenire, che è fatto di forza e di debolezza. Infatti il significato della vita sta nel riuscire a rimanere se stessi pur nella molteplicità di espressioni dell'essere o anche reagendo all'esperienza negativa del nulla, quindi in sostanza vivere progressivamente il proprio essere in maniera autoconsapevole.

Non c'è necessità nel passaggio dall'essere al non-essere ma soltanto consapevolezza di una inevitabilità, che in sé non rappresenta una minaccia all'identità dell'essere, ma semplicemente una forma di esercizio della libertà. Se c'è necessità, questa va vissuta in libertà, altrimenti il divenire non è che cieco fatalismo.

Questo ovviamente non significa che l'uomo non possa vivere il passaggio dall'essere al non-essere in maniera contraria ai principi dell'essere, come frutto di una libertà negativa. Quando ciò avviene non avviene per necessità di qualcosa di estrinseco all'essere umano e il recupero dell'identità umana fa sempre parte dei compiti specifici dell'uomo.

Il senso del divenire spesso ha delle componenti drammatiche, che sfuggono a una mera analisi di tipo logico-razionale. Là dove si vanno a cercare nessi rigidamente causali spesso si trovano scelte dettate da meccanismi di libertà interiore, di cui è molto difficile stabilire i livelli di consapevolezza, sia in chi ha determinato quelle scelte, sia in chi le ha semplicemente subite.

Noi vediamo anzi sentiamo l'essere in maniera ambigua, quel tanto che basta per sapere che c'è, e sappiamo che esiste il suo opposto, che lo nega in maniera relativa. Nostro compito è quello di ridurre l'opacità della percezione, diradare la nebbia, avvicinarsi progressivamente alla verità delle cose, che è verità vissuta in libertà, una libertà che si sente emotivamente, come pathos interiore, e che si estrinseca nella realtà, storica e naturale.

All'origine dell'essere c'è un fuoco inestinguibile che brucia di passione, con gradi diversi di intensità, e nel crogiolo del fuoco ci si purifica.

Questo essere non è un nulla fintantoché non si estrinseca e non accetta la logica del divenire. L'essere umano è un prodotto dell'essere, quindi l'essere gli si pone di fronte come realtà autonoma, indipendente dalla percezione o dalla consapevolezza che l'uomo ne può avere.

L'uomo non può sapere se l'essere acquista consapevolezza di sé nel proprio divenire, però sa con certezza ch'egli può acquisire la conoscenza dell'essere in virtù del divenire dell'essere.

Questo significa che quando si parla di "essere" bisogna distinguere l'essere in sé, visibile come natura, come universo, di cui la Terra è parte, e l'essere per l'uomo, cioè l'esser-ci, che è il divenire della natura che ha prodotto l'essere umano, l'ente che ha consapevolezza dei meccanismi della libertà.

Nell'essere umano sono racchiusi tutti i segreti della natura, eccetto l'origine di quest'ultima, che è nell'essere in sé, e questo limite impedisce all'uomo di qualificare l'essere con attributi, poiché inevitabilmente questi risulterebbero privi di fondamento, ovvero le prove dell'esistenza di qualcosa di metafisico sarebbero sempre tautologiche.

* * *

La libertà deve necessariamente contenere un elemento di debolezza per poter essere esercitata. La perfezione non sta nell'evitare la debolezza, poiché questo può portare a eccessi o schematismi, ma sta nel riuscire a essere se stessi (noi diciamo "umani") pur in presenza di qualche debolezza. Ci si concede a qualcosa (estetica), ma fino a un certo punto (etica).

Poiché libertà vuol dire non sentirsi schiavi di alcunché (almeno non contro la propria volontà), in qualunque momento ci si vuol sentire liberi di non accondiscendere alla propria debolezza. Si gioca con la propria debolezza, ma restando vigili, nel timore ch'essa possa ad un certo punto prevaricare. L'esercizio della libertà è un gioco in cui ogni volta piace sperimentarla. Non può essere gustata una cosa che si possiede senza alcuna fatica. Se questa cosa è vera, deve esserlo sempre.

Chi s'immagina dei paradisi in cui pensa che la libertà equivalga a fare quel che si vuole o, al contrario, a non fare quel che non si può, non ha capito ancora nulla della libertà. La libertà è un movimento incessante, i cui limiti di oscillazione solo la propria coscienza li può percepire. Tant'è che la libertà più grande che si possa vivere è appunto quella della coscienza. Gli esseri umani sono "liberi" appunto perché hanno una coscienza con cui poter esercitare la propria libertà.

UNIVERSALE E PARTICOLARE

La persona che si rapporta in modo assoluto all'universale, che cioè concepisce il proprio rapporto coll'universale infinitamente più appagante di quello col particolare, non può dedicarsi in maniera esclusiva all'amore di una singola persona: l'amore totale è per il genere umano, è per l'essere umano globalmente inteso.

Chi osserva la realtà dal punto di vista dell'universale, sa cogliere in ogni persona quell'aspetto positivo al quale non può dedicare totalmente la propria attenzione senza fare un torto ad altre persone. L'esclusività o la totalità, nel particolare, ha senso solo in via temporanea.

L'ideale sarebbe di poter valorizzare al massimo l'aspetto più positivo della persona portando questa stessa persona alla percezione dell'universale. Ma la persona che si sente valorizzata nelle sue migliori qualità, inevitabilmente tende ad appropriarsi in maniera esclusiva di chi la valorizza. La psicanalisi conosce bene questa difficoltà.

Pochi si rendono conto che la capacità di valorizzare i singoli aspetti della personalità umana, dipende proprio dalla volontà di non assolutizzare un singolo rapporto umano. Dobbiamo sentirci parte di un destino universale, che coinvolge l'intero genere umano. Questo destino è la felicità dell'individuo, la sua realizzazione personale.

L'amore per la singola persona deve poter rientrare nella percezione di questa vastità e infinità che ci sovrasta. Ecco, in questo senso la migliore riproduzione di sé sta nell'identificazione col genere umano. Ma è difficile realizzare questo obiettivo e, più ancora, quello di restarvi fedele.

INDETERMINATEZZA E LIBERTA'

L'indeterminatezza è una forma di garanzia della libertà, affinché questa possa essere esercitata con relativa sicurezza, anche quando sembra più difficile.

Per essere tale, la libertà ha bisogno di limiti: ecco perché l'indeterminatezza produce regolarità.

Quando questa regolarità è soltanto una forma d'apparenza della libertà, ecco che l'indeterminatezza pone le condizioni per un superamento della regolarità, in un processo illimitato, poiché le apparenze prive di sostanza, cioè il fatto ch'esistano contenitori privi di contenuto adeguato, diventano stimolo all'esercizio della libertà.

La regolarità produrrebbe solo negatività se restasse costante: il suo progressivo svuotamento è come un sussulto, un impulso a cercare nuove soluzioni.

L'uomo produce macchine per far loro compiere azioni ripetitive, per guadagnare qualcosa sul tempo o sull'impiego di risorse energetiche, ma le macchine tendono a diventare obsolete, sono soggette a una legge del tempo che le sovrasta oggettivamente, e vanno continuamente sostituite, e più sono sofisticate più costosa diventa la loro sostituzione, senza poi considerare che il processo dall'indeterminato al determinato può essere vissuto indipendentemente da qualunque condizione materiale. Quindi la civiltà delle macchine non è di per sé più libera, non offre più opportunità di una qualunque altra civiltà senza macchine.

Non c'è nulla che possa garantire una continuità: una regolarità sempre uguale sarebbe la morte della libertà. L'inevitabilità del declino, che può essere rappresentata da una parabola involutiva, che, raggiunto un determinato apice, inizia a percorrere una linea in discesa, è occasione di esercizio della libertà per nuove condizioni di esistenza.

Quindi la stessa linea discendente è nello stesso tempo fine di un processo e inizio di uno nuovo. Il processo nuovo inizierà tanto prima quanto più si sarà presa consapevolezza della sua necessità, quanto più quindi si avrà consapevolezza del processo complessivo e quanto più si sarà determinati nel superarlo.

ESSERE QUEL CHE SI E'

Nessuno può mai diventare altro da sé: ogni tentativo di farlo è una forma di alienazione, poiché essere altro da sé significa "non essere". Essere quel che si è: questo l'obiettivo assoluto dell'umanesimo.

Il compito è di scoprire l'essenza dell'essere, cioè che cos'è l'essere e come poterlo vivere, e anche se sappiamo che l'essere è l'umano, resta sempre da definire il concetto di "umano", che per definizione è indefinibile.

Su qualunque caratteristica dell'umano le interpretazioni sono sempre opposte, contraddittorie, ambivalenti, ambigue, soprattutto da quando ne abbiamo infranta l'unità originaria, resa opaca la primitiva trasparenza.

Noi sappiamo soltanto che ci troviamo in una fase storica in cui l'acquisizione dell'essere è frutto del divenire, è un percorso da fare, in cui si sa vagamente quel che si è perduto, quel che si vorrebbe ottenere e molto vagamente si conoscono e soprattutto si sanno usare i mezzi e i modi per riottenerlo.

Noi, pur con tutta la nostra scienza, brancoliamo nel buio, ancora oggi milioni di persone si affidano alle stelle, ai miti, alle leggende, alle favole, alla religione... espressi anche in forma scientifica e tecnologica, politica e culturale, civile e militare. Vien quasi da fidarsi di più del proprio istinto, di quel poco istinto naturale che ancora ci è rimasto.

Come diceva Pascal, che pur da grande scienziato era diventato giansenista, perdendosi nelle riflessioni religiose, c'è abbastanza per credere e abbastanza per non credere, cioè c'è abbastanza per credere che non ci sono solo le ragioni della mente ma anche quelle del cuore. E la prima ragione del cuore è lottare perché ogni essere umano sia libero. Se non si raggiunge questo obiettivo, se anche la persona più infima della terra non è libera di decidere il proprio destino, nelle condizioni in cui è posta, la libertà non esiste, cioè la sua piena affermazione resta un problema da risolvere.

Non è la verità che rende liberi: queste sono illusioni mistiche di tradizione ebraico-cristiana. E' solo la libertà che rende liberi. Finché anche solo un essere umano sarà in schiavitù, la libertà non sarà piena. Non ci rende liberi sapere, conoscere le cause della schiavitù.

Sotto questo aspetto è da escludere a priori che un progresso in direzione dell'affermazione piena della libertà possa dipendere da una nuova rivoluzione tecno-scientifica.

Bisognerebbe anzi porre dei principi fondamentali per la ricerca scientifica, al di là dei quali essa andrebbe considerata come un pericolo per l'umanità:

  1. nessuna produzione tecno-scientifica può intralciare la riproduzione della natura;
  2. le scorie di una qualunque produzione tecnologica non possono essere smaltite da una generazione diversa da quella che ha fruito dei risultati di quella stessa produzione;
  3. una qualunque produzione tecnologica deve essere sottoposta all'approvazione di tutta la popolazione direttamente interessata alla sua fruizione, al fine di sapere quali ne saranno i costi in termini di ricaduta ambientale;
  4. andrebbe vietata a priori, a livello internazionale, qualunque applicazione delle scoperte scientifiche alla fabbricazione di armi;
  5. le nazioni che per prime dovrebbero iniziare il disarmo, partendo dallo smantellamento delle armi più pericolose, sono quelle che più ne dispongono.

DI CHE COSA SIAMO FATTI?

Noi non potremo mai prescindere dalla fisicità, dalla dimensione corporea del nostro essere. Siamo fatti di carne e di sangue e soprattutto di acqua. Forse l'elemento che più ci caratterizza è la fluidità dell'acqua, anche se dentro di noi sentiamo un fuoco sempre acceso, che a volte brucia di più e altre di meno. E che dire dell'impalpabilità dell'aria? della sua leggerezza?

Acqua Fuoco Terra Aria - forse sono questi gli elementi primordiali dell'essere umano che lo qualificano sul piano materiale. Siamo una sintesi della materialità dell'universo, che va dall'elemento più pesante a quello più leggero, da quello più statico a quello più dinamico, da quello più caldo a quello più freddo. Tutto l'universo è una sintesi sublime di elementi opposti, che convivono in perfetto equilibrio.

Oltre a questi elementi ne abbiamo un altro, che ci rende unici tra tutti gli esseri viventi: la coscienza, il più immateriale di tutti gli elementi naturali. Ma anche quello che produce gli effetti più sconvolgenti, più devastanti.

La coscienza ha un'energia che neppure il fuoco conosce, neppure gli astri che brillano nel cosmo. La nostra coscienza è un fuoco perenne che brucia d'amore. E' un fuoco che vuole essere tenuto accesso, e per poterlo fare, per poterlo garantire, occorre agire su qualcosa di vitale, che venga percepito come essenziale, un qualcosa che desti curiosità, interesse, motivazione all'agire.

Che cos'è che può accendere il fuoco della coscienza se non qualcosa che la stimoli a percepire la libertà di sé? Se la coscienza non è aiutata a sentirsi libera, cioè ad avere la percezione che, nonostante l'errore compiuto, è possibile porvi rimedio, rischia di restare chiusa in se stessa, incatenata a delle rappresentazioni falsate di sé, che non le permettono di credere in un cambiamento sostanziale della propria condizione.

Ci vuole qualcosa o qualcuno che dia fiducia alla nostra coscienza malata. Qualcuno che ci obblighi a non poter far leva sulla superiorità della nostra intelligenza, qualcuno che possa sempre metterci di fronte ai nostri fallimenti, che possa concretamente dimostrare i disastri compiuti dalla nostra pretesa superiorità.

LE QUATTRO ALIENAZIONI

Nell’ambito del pensiero occidentale la prima forma di alienazione è stata rappresentata dalla religione (pensiero egiziano, orfismo, Esiodo, Omero ecc.), che è basata sull’istintività, sulla sensazione, sulla percezione immediata: tutti elementi che, in un contesto sociale diviso in classi, producono concezioni sbagliate della vita, del mondo, della natura, dell’uomo..., anche se, non essendo coadiuvati dal macchinismo, non producono situazioni sociali esasperate, altamente conflittuali.

La seconda forma di alienazione, postasi per rispondere a nuove esigenze sociali e in polemica con la precedente, è rappresentata dalla filosofia, basata sull’intelletto raziocinante di individui benestanti, non sempre legati agli interessi della collettività, non sempre organizzati come classe sociale, non sempre interessati a trasformare le loro speculazioni in “cultura pubblica”, di massa, di una determinata città.

La terza e quarta forma di alienazione sono nate nell’epoca moderna: la scienza separata dall’etica e la politica finalizzata unicamente al potere.


Web Homolaicus

Foto di Paolo Mulazzani


Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Teoria
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Aggiornamento: 14/12/2018