AGOSTINO D'IPPONA (354-430): la città di Dio

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AGOSTINO D'IPPONA (354-430): la città di Dio

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Giuseppe Bailone

Il sacco di Roma del 410 è un evento epocale. E’ vero che la città non è più capitale dell’impero da molto tempo, ma la sua caduta in mano ai barbari dopo otto secoli di invulnerabilità ha un valore simbolico terribile: sembra il preludio della caduta definitiva di un mondo in sfacelo.

La cultura tradizionale accusa il cristianesimo di aver minato le energie spirituali della romanità. Il cristianesimo, da poco giunto al potere, teme che il crollo di questo potere possa travolgerlo.

A partire dal 412, Agostino scrive La città di Dio, una grande opera di teologia della storia. Lavora all’impresa fino al 426. Nel 430 muore, mentre la sua città è sotto l’assedio dei Vandali di Genserico.

Agostino scrive per respingere le accuse pagane e per rassicurare i cristiani.

Ripensa la passata storia romana alla luce delle verità cristiane e guarda gli eventi storici, anche i più terribili, come momenti di un unico processo di cui indica l’origine, il senso e l’esito finale.

Al tempo storico ripetitivo e ciclico della cultura classica, sostituisce il tempo storico lineare diretto ad un fine ultimo e governato dalla provvidenza divina.

Inaugura, in termini teologici, la filosofia della storia, nella quale anche i momenti più negativi assumono un aspetto positivo, progressivo.

Il racconto biblico del viaggio verso la terra promessa e il messaggio cristiano della salvezza offrono ai fatti storici il quadro per pensarli nel loro insieme e dotarli di senso progressivo di salvezza, anche nel momento in cui la parola salvezza sembra contraddetta da eventi catastrofici.

I gravissimi mali del presente, insegna Agostino, non sono la fine del mondo, ma solo di un certo mondo: la storia continua dando vita a nuovi mondi e mirando alla vittoria finale del bene. In questa vicenda il cristianesimo gioca un ruolo centrale, perché insegna a distinguere l’eterno dal temporale, lo spirituale dal materiale, a valutare i fatti contingenti alla luce del senso ultimo della storia umana, a collocarli nella linea progressiva che porta al trionfo finale del bene. Trionfo finale che Agostino vede prossimo.

Agostino sa di impegnarsi in “un’opera grande e difficile” in difesa della città di Dio, considerata “sia nel tempo, mentre, vivendo di fede, va pellegrinando tra gli empi, sia nella stabilità delle sua eterna dimora, che ora aspetta con pazienza, finché la giustizia non si converta in giudizio”.1

Non solo la religione cristiana non è la causa della caduta di Roma, ma nel sacco di Roma i barbari ebbero rispetto di Cristo e la loro furia si fermò davanti ai “sepolcri dei martiri e le basiliche degli Apostoli, che accolsero davanti alla devastazione di Roma cristiani e non cristiani”.2 Non era mai successo, in nessuna guerra, che i vincitori perdonassero per amore degli dei del popolo vinto. Agostino ricorda quindi da quanti mali gli dei romani non salvarono il popolo romano; ricorda che i nemici non ebbero rispetto dei loro templi. Tratta, poi, dei beni e dei mali comuni, in tutti i tempi, ai buoni e ai cattivi. Risponde alle insolenze di coloro che rinfacciano il pudore delle donne cristiane violato dagli aggressori, con l’argomento che la castità è una virtù dell’anima e non si perde per violenza subita. Apre una digressione sul peccato di chi si uccide per evitare di essere violentata: Lucrezia non doveva uccidersi, perché il suicidio è sempre un peccato; le virtuose donne cristiane violentate, se non hanno provato piacere e in qualche misura acconsentito alla violenza, non hanno colpa.

Nel secondo libro, Agostino parla dei mali che hanno desolato Roma prima della nascita di Cristo, quando ancora fioriva il culto degli dei, i quali non solo non seppero liberare i loro adoratori dai peggiori di tutti i mali dell’anima, ma anzi li favorirono. Nel terzo libro, narra dei molti mali sofferti dai romani senza che i loro dei dessero alcun aiuto. Nel quarto e nel quinto libro sostiene che la grandezza e la durata dell’impero romano non si deve attribuire a Giove né ad altre divinità, neppure alla fortuna o al caso, bensì al solo vero Dio.

E’ la città di Dio a dare senso alle città dell’uomo, che, senza la guida della Giustizia, si risolvono in esercizio di forza e di violenza:

“Bandita la giustizia, che altro sono i regni se non grandi associazioni di delinquenti? E le bande di delinquenti che altro sono se non piccoli regni? Si ha infatti un’associazione di uomini quando un capo comanda, è stato accettato un patto sociale, e la divisione del bottino è regolata da certe convenzioni. Se questa compagnia recluta nuovi malfattori, occupa un paese, stabilisce proprie sedi, si impadronisce di città e soggioga popoli, prende il nome di regno; titolo che le viene conferito non perché sia diminuita la sua cupidigia, ma perché a questa si aggiunge l’impunità”.3

Nei cinque libri successivi Agostino critica minutamente tutta la cultura religiosa pagana, sia quella popolare che quella colta, compresa quella dei neoplatonici.

Con l’undicesimo libro, inizia la seconda parte dell’opera, nella quale si tratta dell’origine delle due città, del corso della storia biblica, del giudizio divino finale, della resurrezione dei corpi, delle pene eterne dei dannati e della felicità eterna dei membri della città di Dio.

Tutto comincia con la separazione degli angeli buoni dai cattivi.

Gli angeli cattivi non sono tali per natura, ma per volontà.

Ogni creatura di Dio è buona: diventa cattiva, non per sua natura, ma per volontà: “Nessuna natura è per sé cattiva: il male non è che privazione del bene. Tra le cose terrene e celesti, visibili e invisibili vi è una gradazione per cui un essere è più perfetto dell’altro: e vi questa ineguaglianza perché vi siano tutte”.4

“La volontà diventa cattiva non perché si rivolga a cose cattive, ma perché si rivolge malamente ossia contro l’ordine della natura, da Colui che è l’essere sommo, ad un essere inferiore. Così l’avarizia non è un vizio dell’oro, ma dell’uomo che ama l’oro disordinatamente violando la giustizia, la quale deve essere preferita all’oro … Neppure la superbia è un vizio di chi conferisce il potere o del potere stesso, ma dell’anima, che ama disordinatamente la sua autorità, disprezzando quella più giusta del più potente”.5

Gli angeli buoni e gli angeli cattivi ebbero quindi la stessa natura ma li divise la volontà: “Gli uni, costantemente uniti al bene comune di tutti che è Dio stesso, permangono nella sua eternità, verità e carità; gli altri, compiacendosi del proprio potere, come se fossero essi stessi il proprio bene, declinarono dalle altezze del bene sommo, comune a tutti, verso il bene proprio e, preferendo la gloria dell’elevazione all’eccelsa eternità, l’astuzia della vanità alla certezza della verità, odiose particolarità alla mutua carità, divennero superbi, invidiosi e ingannatori. La causa, dunque, della beatitudine degli uni è la loro unione con Dio. La causa dell’infelicità degli altri è la loro separazione da Dio”.6

Dio ha creato la moltitudine degli angeli, ma ha creato un solo uomo.

Il genere umano, con natura intermedia tra gli angeli e gli animali, si è propagato da un solo uomo. “Dio creò l’uomo uno, singolo, non perché fosse lasciato senza l’umano consorzio, ma per meglio inculcargli l’unità della società e il vincolo della concordia, unendo gli uomini non soltanto per la somiglianza della natura, ma anche per l’affetto della parentela. Non volle neppure creare come l’uomo la donna che doveva essere a lui unita, ma la trasse dall’uomo, affinché tutto il genere umano si propagasse per mezzo di un solo uomo”.7

Il peccato originale ha reso l’uomo mortale e la sua carne indocile.

“Appena i primi uomini ebbero trasgredito il comandamento di Dio, la grazia li abbandonò ed essi restarono confusi nella nudità dei loro corpi … Sentirono come un movimento nuovo nella loro carne disobbediente, quasi pena inflitta alla loro disobbedienza. E poiché l’anima, abusando della propria libertà verso il male, aveva ricusato di servire a Dio, venne privata dell’antico suo dominio sul corpo. Aveva abbandonato di proprio arbitrio Iddio, suo superiore, e non riusciva più a tenere sottomesso il suo servo inferiore; la carne non gli era più soggetta come sarebbe invece stata se egli fosse rimasto fedele a Dio. Allora la carne cominciò ad avere desideri contrari allo spirito. Noi siamo nati in questa lotta, traendo in noi l’origine della morte, portando nelle nostre membra e nella natura corrotta la contesa di lei, ossia la vittoria della prima prevaricazione”.8

L’umanità eredita da Adamo ed Eva la mortalità e l’insubordinazione della carne allo spirito.

“Iddio, creatore della natura e non dei vizi, aveva creato l’uomo retto, ma egli corrottosi volontariamente, giustamente condannato, generò figlioli depravati e condannati. Questo perché tutti noi fummo in lui, quando tutti fummo corrotti da quell’uno che cadde nella colpa per opera della donna formata da lui. Non era ancora stata creata né distribuita la forma particolare di ciascuno, cioè nessuno di noi era stato fatto nella propria persona, ma esisteva già la natura generatrice, la quale ci avrebbe propagati: natura corrotta dal peccato, destinata a morire, giustamente condannata, la quale non poteva generare alcun uomo in condizioni migliori. Così, dal cattivo uso del libero arbitrio, sorse la serie dei dolori, che, dall’origine depravata, come da una corrotta radice, per una connessione di miserie, conduce il genere umano fino alla rovina della seconda morte9, la quale non ha fine, tranne per coloro che ne sono liberati dalla grazia di Dio”.10

Senza il peccato originale gli uomini sarebbero stati immortali e in “perpetua giovinezza”.11

“I santi, nella risurrezione, avranno quei medesimi corpi nei quali faticarono qui sulla terra e li avranno tali che la loro carne non proverà corruzione o gravezza alcuna”.12

“Ai corpi resuscitati sarà tolta la necessità, non la possibilità, di mangiare e di bere. Essi saranno spirituali non perché cesseranno d’essere corpi, ma perché vivranno per lo spirito purificante”.13

Nel libro XIV, trattando della “vergognosa libidine” come conseguenza della disobbedienza originale, scrive che senza il peccato, nel paradiso terrestre, gli uomini si sarebbero generati sessualmente, ma avendo gli organi genitali sotto pieno controllo della volontà: “Così l’uomo avrebbe potuto avere anche il dominio della concupiscenza, perduto con la disobbedienza. Certo non sarebbe stato difficile a Dio creare l’uomo in modo che nel suo corpo non si muovesse che per volontà quanto ora non si muove che per libidine … Che cosa ci impedisce di credere che le membra umane, prima del peccato della disobbedienza e della pena della corruttibilità, avrebbero potuto servire alla volontà, per generare la prole, senza libidine alcuna? … L’uomo fu abbandonato a se stesso, perché lasciò Dio per piacere a sé. Ma, disubbidendo a Dio, non poté più obbedire neppure a se stesso”.14

Ma perché Dio ha lasciato che si compisse il primo peccato degli angeli e dell’uomo?

Senza la miseria del male, allo splendore del bene manca qualcosa?

Il bene non basta a se stesso?

Il dualismo manicheo, adottato in giovinezza e poi combattuto, sopravvive, anche se in forma attenuata, nell’ultimo Agostino. Infatti, scrive che Dio avrebbe potuto impedire il peccato degli angeli e dell’uomo e la nascita del male, ma ha lasciato che il peccato fosse compiuto, perché risultasse la vacua superbia dei peccatori e la sua onnipotente misericordia: senza peccato niente misericordia divina e niente meriti dei santi redenti dalla grazia.

“Chi mai, infatti, oserebbe credere ed affermare che Dio non potesse trattenere dal peccato l’angelo o l’uomo? Ma egli preferì lasciare loro questo potere per dimostrare quanto male potesse la loro superbia e quanto bene la sua grazia”.15

Senza il peccato non ci sarebbe la storia, lotta del bene e del male.

Il peccato fonda la città terrena, ma rende possibile anche la città celeste.

“Due diversi amori generarono le due città: l’amore di sé, portato fino al disprezzo di Dio, generò la città terrena; l’amore di Dio, portato fino al disprezzo di sé, generò la città celeste. Quella si gloria in se stessa, questa in Dio”.16

Il peccato crea la massa umana eternamente dannata, la grazia di Dio divide l’umanità e la storia “in due parti: quella di coloro che vivono secondo l’uomo e quella di coloro che vivono secondo Dio. In senso mistico, chiamiamo tali parti «le due città», cioè le due società degli uomini delle quali una è quella destinata a regnare in eterno con Dio, l’altra dovrà subire l’eterno supplizio col diavolo”.17

Fondatore della città terrena fu il fratricida Caino, imitato poi da Romolo. C’è però una differenza: la città di Caino nasce dalla lotta del male contro il bene; quella di Romolo è invece la città terrena che si divide in se stessa aprendo la lotta tra due cattivi. I buoni infatti non si combattono tra loro, i cattivi sì.

L’amore di Dio unisce, l’amore di sé divide.

“Il possesso della bontà non diminuisce per l’unione o la presenza di un socio, diventa anzi tanto più vasto perché è più concorde la carità individuale dei soci. Ma non avrà questo dominio, chi non lo vorrà avere in comune. Lo possiederà invece tanto più esteso, chi avrà maggiormente amato il compagno. Quello che accadde tra Romolo e Remo, dimostra come la città terrena si divida in se stessa; quello che accadde tra Caino e Abele, dimostra l’inimicizia che esiste tra le due città: quella di Dio e quella degli uomini. Combattono tra loro i cattivi, e similmente combattono tra loro i buoni e i cattivi. Ma i buoni, se sono perfetti, non possono combattere tra di loro. I principianti invece, che non sono ancora perfetti, possono combattere contro se stessi”.18 Abele non insidiava il potere di Caino. Caino era mosso “da quell’invidia diabolica per cui i cattivi invidiano i buoni per il solo motivo che questi sono buoni ed essi cattivi”.19

C’è il male perfetto che ha in Caino il suo campione, e il bene perfetto di Abele e dei santi. In mezzo gli uomini in lotta tra il bene e il male.

Nessun segno esteriore distingue la due città, mescolate nel corso della storia fino alla fine, quando il giudizio di Dio dividerà nettamente le due città.

Solo interrogando se stesso nella propria interiorità, il singolo può riconoscersi membro dell’una o dell’altra città.

La storia si apre col peccato e il male, la misericordia di Dio accende negli eletti le nostalgia del bene perduto e la tensione per il suo recupero finale, dando alla storia il suo carattere di lotta tra le due città.

Questo messaggio agostiniano è lontano dal nostro mondo secolarizzato, ma si può provare a darne un’interpretazione attuale.

Il disastro ambientale verso il quale ci porta il progresso umano può restituire, oggi, al discorso agostiniano sulla storia una nuova possibilità di lettura e nuova attualità: l’homo faber ha costruito la sua città, aprendosi un varco nel mondo naturale, ma il suo successo minaccia di trasformare quel varco in un baratro; la nostalgia dell’armonia primitiva con la natura, diventando ideale di equilibrio ambientale, può salvare dal male totale.

Dalla primitiva convivenza fruitiva, ma precaria, con l’ambiente si è staccato l’uomo capace di realizzare i mezzi per un’esistenza sempre più sicura. Col lavoro, fidando cioè sulle sue forze, l’uomo ha imparato a produrre l’utile, ma ha riposto troppa fiducia nelle cose utili; si è, in un certo senso consegnato alle sue cose utili, alla propria capacità di produrre cose utili, alla tecnologia. E’ caduto nell’utilitarismo tecnicistico. Ha, così, riempito la storia di mali, fino ad affacciarsi sul baratro del disastro ambientale.

Se questa può essere un’interpretazione aggiornata del peccato originale, possiamo provare ad aggiornare anche la prospettiva di salvezza agostiniana, interpretandola come l’idealismo che solo può liberarci dai mali da noi stessi creati.

La storia, anche recente, ci insegna, però, che gli idealismi realizzati sono stati spesso peggiori dei mali che volevano correggere. Come insegna, infatti, il termine greco che indica la medicina, farmaco, che significa sia medicina che veleno, c’è nel rimedio medico sempre anche il rischio venefico.

Ma, non per questo si rinuncia alla medicina.

Senza spiragli ideali la storia va verso la sua fine.

Bisogna non idealizzare l’utile, farne un valore assoluto, divino. Non si deve cadere nell’utilitarismo, cioè, in quel perverso idealismo che trasforma l’utile, il mezzo, in fine, in ideale. Non bisogna proiettare in cielo i prodotti umani e ammirare come città di Dio quella che è la città terrena, dell’uomo tecnologico.

Non si può continuare ciecamente sulla strada aperta dal peccato originale, né guardare ciecamente in cielo, vedendoci solo cose terrene.

La città di Dio di Agostino ha ancora qualcosa da dire anche a noi: senza alzare gli occhi al cielo rendiamo la terra invivibile. E’ però importante che la città celeste resti celeste e in cielo, che non si abbia l’arroganza di portare in cielo la città terrena o di credere di averla realizzata in terra, che non la si identifichi con nessuna istituzione.

C’è nell’opera agostiniana un antidoto contro il male della teocrazia (anche di quella secolarizzata: l’idealismo realizzato), che spesso ha voluto vedere in lui la propria fonte d’ispirazione. La salvezza è l’idealismo, purché resti idealismo e non diventi giustificazione del reale, mascherandolo di idealità: il male più pericoloso è quello che si crede bene assoluto!

Soprattutto nella lotta contro il donatismo Agostino ha insegnato a non confondere la città di Dio con una realtà storica, con un’istituzione, neppure con la Chiesa, in cui coesistono membri dell’una e dell’altra città, fino al giudizio divino finale che separerà definitivamente i salvati dai dannati.

E’ possibile vedere nel pensiero di Agostino un riflesso dell’antica saggezza greca: l’uomo non deve credersi dio e dare l’assalto all’Olimpo, al cielo, né appropriarsi del divino, tirandolo giù dal cielo in terra. La divinità va, invece, imitata, presa a modello, ammirata come ideale, con la coscienza dei limiti umani.

Note

1 La città di Dio, prefazione, fine e contenuto dell’opera.

2 La città di Dio, I,1.

3 La città di Dio, 4, 4.

4 La città di Dio, XI, 22.

5 La città di Dio, XII, 8.

6 La città di Dio, XII, 1.

7 La città di Dio, XII, 21.

8 La città di Dio, XIII, 13. Altrove (XIV, 20) scrive che, “per la disobbedienza del primo uomo, le membra genitali furono abbandonate ai propri movimenti e sottratte al potere della volontà”. Poco prima, nel cap. 16, aveva scritto: “Talvolta quel movimento sorge importuno, contro ogni volere, mentre talaltra, desiderato, non sorge e il corpo rimane insensibile mentre la concupiscenza ferve nell’animo. Così la libidine, in modo meraviglioso, non solo non obbedisce alla volontà di generare, ma neanche al piacere del senso. E benché talvolta resista totalmente al freno della ragione, talvolta si divide in se stessa commovendo l’animo senza commuovere il corpo”.

9 La seconda morte è la dannazione eterna.

10 La città di Dio, XIII, 14.

11 La città di Dio, XIII, 23

12 La città di Dio, XIII, 19.

13 La città di Dio, XIII, 22.

14 La città di Dio, XIV, 24

15 La città di Dio, XIV, 27.

16 La città di Dio, XIV, 28.

17 La città di Dio, XV, 1.

18 La città di Dio, XV, 5

19 La città di Dio, XV, 5.


Fonte: ANNO ACCADEMICO 2009-10 - UNIVERSITA’ POPOLARE DI TORINO

Torino 20 marzo 2010

Giuseppe Bailone ha pubblicato Il Facchiotami, CRT Pistoia 1999.

Nel 2006 ha pubblicato Viaggio nella filosofia europea, ed. Alpina, Torino.

Nel 2009 ha pubblicato, nei Quaderni della Fondazione Università Popolare di Torino, Viaggio nella filosofia, La Filosofia greca.

Due dialoghi. I panni di Dio – Socrate e il filosofo della caverna (pdf)

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Aggiornamento: 26-04-2015