Le ambiguità di Fernand Braudel

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LE AMBIGUITA' DI BRAUDEL (1902-85)

Nella storiografia francese la svolta anti-positivistica si compì tra il XIX e il XX secolo, legata ai nomi di H. Berr, L. Febvre, M. Bloch e successivamente F. Braudel e quindi alla scuola delle "Annales", mettendo l'accento sull'importanza delle "connessioni totali", inesistenti nella descrittiva histoire événementielle. Il che era stato senza dubbio un merito dell'influenza del marxismo, così interessato ai sistemi socio-economici in cui le classi sociali e le masse popolari giocano un ruolo di rilievo: cosa di cui lo stesso strutturalismo, sempre alla ricerca di invarianti storiche, dovrà tener conto, se vorrà impedire che gli aspetti soggettivi finiscano col prevalere su quelli oggettivi.

In particolare Braudel amava i ritmi lenti, ai limiti dell'immobilità, le durate plurisecolari (longue durée), le strutture permanenti della storia, onde capire lo sviluppo delle civiltà e porre una netta distinzione non solo dalle fluttuazioni congiunturali, ma anche dalle rotture rivoluzionarie, tant'è che laddove ci sono, e non è possibile negarle, egli cerca di vedere una certa continuità tra il prima e il dopo, attenuando la loro portata eversiva o innovativa.

Nella sua Storiografia contemporanea (Ed. Riuniti, Roma 1981) Jerzy Topolski gli dedica le pagine 192-98, sostenendo che Braudel aveva accettato il metodo dei modelli proposto da Marx. "Il marxismo è un complesso di modelli" - diceva Braudel nel 1952, riconoscendo a Marx il primato d'aver costruito dei modelli sociali basati sulla lunga durata storica (in particolare essi sarebbero cinque: società primitive, schiavismo, feudalesimo, capitalismo e socialismo). Il che secondo lui costituiva un approccio che precorreva l'histoire globale.

I modelli infatti vengono intesi in senso realistico e non - come faceva Max Weber - in senso strumentale, come strumenti occasionali di ricerca, finita la quale risultano irrilevanti. Essi invece, pur essendo un'astrazione, partono dalla realtà e alla realtà ritornano. In tal senso Braudel non era solo un anti-positivista e un anti-fenomenologico, ma anche un avversario di quella visione ciclica della storia delle civiltà che si può ritrovare in A. Toynbee, Vico, Comte, Spencer, Hildebrand, Ratzel.

Topolski sapeva bene che a Braudel non era chiara la divisione in classi della società, in quanto preferiva parlare di civiltà o di umanità. Le sue categorie fondamentali erano quelle di struttura, modello e tempo lungo. La struttura si conserva nel tempo lungo e il modello, evidenziandola, mostra le connessioni tra tempo e storia, per cui la storia è soltanto quella delle strutture e dei loro insiemi. La struttura non è che l'equivalente del modello, al punto che possono anche sovrapporsi.

In tal caso però - ma questo Topolski non lo dice - non si riesce più a comprendere se davvero è il modello a dipendere dalla struttura o non piuttosto il contrario. Cioè nella storiografia di Braudel il rischio è sempre quello di usare modelli da applicare alla storia come forme di struttura. Il modello viene privato del tempo breve, ma così anche la struttura ne viene privata, e ciò sul piano storiografico è illecito, anche perché se si può trarre un modello dalla storia, cogliendo di questa una struttura di lunga durata, non si può fare della struttura una funzione del modello. Cioè bisogna saper cogliere nella struttura quegli elementi che evidenziano i limiti del modello (dei limiti che lo storico dovrebbe, peraltro, esplicitare preventivamente, proprio per dare maggiore rigorosità alla sua ricerca).

Un modello ha valore solo se limitato da considerazioni storico-temporali, ambientali, socio-economiche. È proprio il limite che gli dà valore euristico, interpretativo. Questi limiti andrebbero precisati subito, proprio per evitare il rischio di cadere in forme inopportune di idealismo. Bisogna riservare alla storia, con le sue strutture, che possono anche contraddirsi a vicenda, un certo margine di autonomia, in virtù del quale essa possa evidenziare i limiti euristici dei modelli storiografici. Un modello non può mai essere valido in ogni tempo storico. Il ricercatore deve sapere che, a distanza di tempo, il suo modello può essere considerato superato, anche se il nuovo modello che lo contesterà si sarà servito proprio delle sue principali acquisizioni. È impensabile usare la lunga durata mirando a far credere che il proprio modello ha maggiori possibilità di resistere nel tempo.

Topolski nega che lo strutturalismo di Braudel abbia qualcosa in comune con quello di Lévi-Strauss, ed è convinto ch'egli svolga la storiografia in senso dialettico, accentuando l'importanza dell'azione umana (non è solo la storia a fare gli uomini ma anche il contrario), facendo collaborare tutte le branche delle scienze sociali, respingendo la sociologia del progresso e dell'ordine, ovvero l'idea di una struttura sociale definitiva o di un moto sociale ininterrotto che trascina tutto verso un unico ideale.

Senonché questi sperticati elogi a favore di Braudel vengono spesso smentiti dalla sua pratica storiografica. Certo egli rifiuta la predestinazione o la provvidenza, ma non pare ch'egli abbia individuato bene gli strumenti idonei per superare queste concezioni obsolete della storia. Non basta servirsi di geografia, sociologia, economia, statistica, psicologia... per dimostrare che, non essendoci confini rigorosi tra le scienze umanistiche, anche nella storia tutto può essere interpretato in maniera dialettica. Non è l'enciclopedismo delle conoscenze che garantisce alla storiografia un approccio dialettico e neppure olistico. L'obiettività interpretativa non può certo dipendere dal fatto che si è in grado di parlare, con cognizione di causa, di qualunque cosa, dalle più banali alle più importanti, usando qualsivoglia scienza, come appunto pretendeva di fare l'histoire nouvelle. Non sono le dichiarazioni a favore del marxismo, che lo stesso Braudel fece, a rendere marxista un ricercatore, anche perché oggi dobbiamo saper andare oltre la storiografia laicistica e materialistica per scoprirne i limiti che impediscono a tale storiografia di porsi a favore dei cambiamenti rivoluzionari della storia umana.

Braudel disse che, poiché lo storico risponde sempre a nuove domande del suo tempo, la storia va continuamente riscritta. Questo può anche essere vero, ma è anche vero che esistono domande ineludibili, su cui non è possibile tergiversare e nei cui confronti non è possibile dare qualsivoglia risposta. E in ogni caso, se davvero fosse come dice Braudel, non si capisce perché, nella sua concezione della storia, il passato persiste sempre nel presente. Il fatto che le strutture cambino molto lentamente sembra porre un'ipoteca sul successo delle rivoluzioni epocali, ovvero un dubbio metodico sulla loro legittimità.

Questo modo stoicamente distaccato di guardare le cose non è molto diverso dalla storiografia ciclica che pur Braudel criticava. Sarebbe ingenuo pensare che per evitare d'essere fatalisti sia sufficiente criticare la predestinazione o la provvidenza. Per non esserlo, occorre schierarsi apertamente a favore delle rivoluzioni epocali che hanno fatto progredire effettivamente l'umanità, e su questo Braudel palesa tutte le proprie ambiguità. Infatti è sempre stato diffidente verso l'impegno politico: p.es. non ha mai preso pubblicamente posizione sul problema della decolonizzazione, eppure a 21 anni "scoprì" l'Algeria, dove andò a insegnare e poi, negli anni '30, "scoprì" il Brasile, ma questo non lo indusse a scrivere testi contro il colonialismo.

Il suo interesse prevalente era, come per L. Febvre, il Cinquecento, secolo della genesi della modernità. Stranamente, pur essendo francese (era nato in Lorena ma cresciuto a Parigi), nutrì sempre interessi molto scarsi per la rivoluzione francese. In lui dominava l'idea che le rivoluzioni non distruggono mai tutto il passato, ma solo una parte e che le vere rivoluzioni avvengono in profondità, nei tempi lunghi.

Ciò ebbe conseguenze negative sulla sua storiografia. Egli infatti dilata eccessivamente la categoria del capitalismo, come p.es. Sombart o Weber: questo perché più che la produzione economica gli interessa il commercio a lunga distanza, gli scambi internazionali, il trasporto marittimo, la demografia, le indagini sui consumi e, solo alla fine degli anni '60, sulla produzione agricola. Nega validità al concetto di classe (per lui era sufficiente sostenere che la base sociale cerca sempre di lottare contro i vertici) e non parla mai di "tradimenti della borghesia". Non riusciva a vedere nella lotta di classe un motore della storia: la vedeva semplicemente in connessione con le gerarchie sociali, e quindi la riteneva un fenomeno del tutto naturale e certamente non in grado di eliminare le sopravvivenza del passato, anche perché se è vero che gli uomini fanno la storia, la fanno senza saperlo. La storia è mossa - diceva - da tanti motori e una società egualitaria non è mai esistita. Se e quando il capitalismo verrà superato, saranno le sopravvivenze del passato a farlo: infatti la capacità di resistenza è un modo di sopravvivere alle catastrofi.

A lui interessavano le persistenze o le sopravvivenze, proprio perché voleva realizzare una sorta di modello universalmente valido nello spazio e nel tempo: ecco perché tendeva a sottovalutare la forza distruttiva del capitalismo. In tutte le sue opere fa coincidere mercato con capitalismo, senza rendersi conto che è la produzione a decidere la circolazione. Il capitalismo, nella sua storiografia piccolo-borghese o neo-smithiana, diventa distruttivo e quindi trionfante soltanto quando s'identifica, alla fine dell'Ottocento, con lo Stato e diventa planetario: il capitalismo industriale non è che una variante impazzita di una circolazione delle merci sostanzialmente sana, efficiente, a misura d'uomo, in cui l'area geografica preposta agli scambi non costituisce una minaccia per nessuno.

Verso gli anni 1974-77, sotto la pressione degli avvenimenti politici della contestazione operaio-studentesca, cominciò a opporre l'idea di economia di scambio, che rispetta le regole del gioco ed è trasparente, a un capitalismo che non le rispetta: questo è ben visibile nell'edizione definitiva della Civiltà materiale, economia e capitalismo (1979), un'opera per la quale spese oltre vent'anni della sua vita. In essa appare chiaro che il capitalismo è soltanto una "sovrastruttura" che ha la pretesa di controllare una struttura economica molto più antica, basata sullo scambio; questa pretesa è stato in grado di realizzarla solo in tempi relativamente recenti, grazie appunto alla rivoluzione industriale, con la quale però viene messa in crisi l'idea stessa di "progresso", in quanto la conflittualità s'impone sulle compatibilità o convergenze di interessi.

Braudel in sostanza restava favorevole a un capitalismo della borghesia nascente, pre-industriale, dove il ruolo dei contadini non veniva messo in discussione, anche perché secondo lui erano proprio loro ad avere maggiori capacità di resistenza agli attacchi dell'industrializzazione. Era nostalgico di un passato molto particolare, ch'egli avrebbe voluto vedere cristallizzato per l'eternità, quello immediatamente successivo al feudalesimo, quello in cui si rinuncia alle storture di una civiltà basata sul privilegio e dove si ipotizza qualcosa di più democratico e naturale. Egli s'immagina che questo capitalismo meramente commerciale, poggiando, al "piano terra", su una civiltà materiale di lunga durata (città, monete, consumi, fonti energetiche, tecnologie...), non si sarebbe lasciato controllare dal capitalismo industriale, basato sul profitto stricto sensu. Aveva fiducia nelle potenzialità dell'economia sommersa.

Una visione, questa, molto ingenua della storia, che in Italia si ritrova in economisti di area cattolica, come Toniolo e Fanfani, e dove, non a caso, la sua storiografia ha avuto maggiore successo. Cosa, d'altra parte, inevitabile, quando si afferma che il cristianesimo, la latinità, intrecciata con la cultura greca sono fenomeni di lunga durata, facenti parte di una medesima civiltà, che andavano valorizzati in opposizione a quelli veloci e superficiali del capitalismo industriale.

Braudel non riuscì mai a capire che il capitalismo (non solo quello commerciale, ma anche quello industriale) è stato un prodotto del mercantilismo greco-romano, mediato dal cristianesimo, prima cattolico poi protestante. Egli parteggiava per un concetto astratto di "civiltà", senza rendersi conto che per superare il capitalismo occorre superare il concetto stesso di "civiltà". Sia nella forma commerciale o mercantile che in quella industriale il capitalismo tende a distruggere i fenomeni di lunga durata per poter affermare un concetto di civiltà in cui le cose si consumano con molta fretta, in cui la memoria non esiste, i rapporti sono precari e la sicurezza è data soltanto dal cinismo con cui si affronta la vita, senza riguardo per nessuno.

È quindi un'illusione pensare di potersi affidare alle sopravvivenze del passato come àncora di salvezza contro le degenerazioni del capitalismo. Non è detto che l'istinto di autoconservazione finisca sempre col prevalere sulle tendenze distruttive del capitale. Soprattutto non è detto che non esista un punto di non ritorno, cioè quel momento irreversibile oltre il quale la situazione non potrà più essere come prima. Un semplice incidente nucleare, prodotto in assenza di guerra, nel mentre si faceva un test di routine, ha reso Chernobyl una città fantasma. In quel caso la desertificazione è stata prodotta da un disastro potentissimo nella sua intensità. Ma le desertificazioni possono essere prodotte anche da disastri ambientali lenti, persistenti nel tempo, che si sono lasciati incancrenire nella generale convinzione che la natura avrebbe potuto risolverli da sola o che una scienza sofisticata avrebbe saputo rimediare agli errori del business.

Braudel insomma esprimeva una storiografia nostalgica e illusoria di un idilliaco passato mercantilistico, che sarebbe dovuto rimanere tale in forza di una tenace resistenza da parte del mondo rurale contro i tentativi del capitale di trasformarsi in un processo egemonico mondiale di tipo industriale. In realtà l'economia mercantile può non trasformarsi in un'economia capitalistica solo a condizione ch'esista uno Stato autoritario, intenzionato a controllare gli aspetti produttivi salienti di una società civile. Il che però comporta l'assenza di libertà giuridiche fondamentali, estese a tutta la popolazione, la prima delle quali è la libertà di disporre della propria persona.

In Braudel è illusoria soprattutto l'idea di poter utilizzare i processi di lunga durata, evitando di mettere all'ordine del giorno la necessità di ostacolare in maniera attiva (politica) i processi alienanti e degenerativi dello sviluppo industriale del capitalismo. Il mercantilismo non è una forma di capitalismo dal volto umano. Se il mercantilismo non si trasforma in capitalismo, vuol dire che la popolazione vive una condizione schiavile (come p.es. nel mondo greco-romano) o semi-schiavile (come p.es. nel mondo egizio o nel modo di produzione asiatico). Laddove invece si vogliono garanzie giuridiche per una libertà personale formale, la transizione dal mercantilismo al capitalismo diventa inevitabile. E una qualunque opposizione anti-capitalistica, che voglia anche trasformare il diritto da formale a sostanziale, non potrà non rimettere in discussione anche il mercantilismo.

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Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Teorici
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Aggiornamento: 26-04-2015