GIORDANO BRUNO IL ROGO E LA CICUTA

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GIORDANO BRUNO IL ROGO E LA CICUTA

Giordano Bruno al rogo

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Giuseppe Bailone

In ginocchio ascoltò il Bruno la sentenza, ma a lettura finita, levatosi in piedi e con viso minaccioso, rivolto ai giudici esclamò la frase celebre (non più leggendaria oggi che s’è visto qual fedele cronista si fosse lo Scioppio): “Forse con maggior timore pronunciate contro di me la sentenza, di quanto ne provi io nel riceverla”. Otto giorni ebbe ancora di vita nel carcere di Tor di Nona, sempre restando “obstinatissimo” malgrado le visite quotidiane di teologi e confortatori; poi su l’alba del giovedì 17 di febbraio la lugubre processione della Compagnia di S. Giovanni Decollato rilevò il prigioniero dal carcere, dopo che sette padri di quattro ordini diversi ebbero cercato “con ogni affetto e con molta dottrina”, ma sempre invano, di rimuovergli dall’intelletto quei “mille errori e vanità”. Condotto così in Campo di Fiori, “quivi spogliato nudo e legato a un palo”, sempre “con la lingua in giova, per le bruttissime parole che diceva”, già tra le fiamme del rogo con viso torvo e sprezzante distolse lo sguardo dall’immagine del Crocefisso che gli era mostrata e finì “bruciato vivo”, conscio di morire “martire e volentieri, e che se sarebbe la sua anima ascesa con quel fumo” a ricongiungersi all’anima dell’universo.[1]

Così Luigi Firpo ha ricostruito la fine di Giordano Bruno

Molto diversa la scena dell’esecuzione della condanna a morte di Socrate.

Ne parla Platone nelle pagine finali del Fedone.

La scena si svolge in carcere, alla presenza di amici, e non in piazza.

Socrate muore assistito dagli amici, in privato, non esposto al pubblico ludibrio a fare da terrificante monito per tutti i presenti.

Dopo una giornata passata a parlare con gli amici di filosofia, Socrate si lava, riceve e saluta i figli (due ancora piccoli e uno grandicello) e le donne di casa.

“Ritornato dal bagno, si mise a sedere e dopo d’allora non si disse quasi più niente. Ed ecco venne il messo degli Undici, il quale, fermatosi davanti a lui, disse: «O Socrate, io non avrò certo a lagnarmi di te come ho da lagnarmi di altri che si adirano con me e mi maledicono, quando io vengo ad annunciare loro, per ordine degli arconti, che devono bere il veleno. Ma te, in tutto questo tempo, ho avuto modo di conoscere che sei il più gentile e il più mite e il più buono di quanti mai capitarono qui; e ora specialmente so bene che non ti adiri con me, perché li conosci coloro che ne hanno colpa, e con quelli ti adiri. Ora dunque, tu lo sai quello che sono venuto ad annunciarti, addio, e vedi di sopportare meglio che puoi il tuo destino». E così dicendo scoppiò a piangere, voltò le spalle e se ne andò.

E Socrate, levato un po’ il capo a guardarlo, disse: «E anche a te addio». E rivolto a noi disse: «Che gentile persona. Per tutto il tempo egli veniva spesso a trovarmi; e talvolta s’indugiava a conversare con me, ed era uomo eccellente; e vedete ora come sinceramente mi piange. Su via, Critone, diamogli retta e qualcuno porti il veleno, se è pestato; se no, l’uomo lo pesti».

E Critone disse: «Ma il sole, o Socrate, è ancora, credo, sui monti, non è ancora tramontato. E io so che altri assai più tardi bevono dopo che ne hanno avuto l’annunzio; e dopo aver mangiato e bevuto a loro volontà, e taluni perfino dopo essere stati insieme a loro piacere con chi vogliono. Tu dunque, se non altro, non avere fretta, perché c’è tempo ancora».

E Socrate disse: «E’ naturale, o Critone, che costoro, quelli che tu dici, facciano così, perché credono di avere qualche cosa da guadagnare facendo così; ed è naturale che non faccia così io, perché credo di non avere altro da guadagnare, bevendo un poco più tardi, se non di rendermi ridicolo ai miei stessi occhi, attaccandomi alla vita e facendone risparmio quando non c’è più niente da risparmiare. Via, disse, dà retta e non fare altrimenti».

E Critone, udito ciò, fece cenno a un suo servo ch’era in piedi vicino a lui; e il servo uscì, rimase fuori un po’ di tempo, e tornò menando seco l’uomo che doveva dare il farmaco, che lo portava pestato in una tazza. E Socrate, veduto lui, disse: «Bene, brav’uomo, tu che di queste cose te ne intendi, che si deve fare?»

«Nient’altro, rispose, che, dopo aver bevuto, andare un po’ attorno per la stanza finché tu non senta peso alle gambe; dopo rimanere sdraiato; e il farmaco opererà da sé».

Così dicendo porse la tazza a Socrate. Ed egli la prese, oh, con vera letizia, o Echècrate; e non ebbe un tremito e non mutò colore e non torse una linea del volto; ma così, come soleva, guardando all’uomo da sotto in su con quei suoi occhi da toro, disse: «Che dici, di questa bevanda, se ne può libare a qualche dio, o no?»

«O Socrate, rispose, noi ne pestiamo solo quel tanto che crediamo sufficiente a bere».

«Capisco, disse Socrate. Ma insomma, far preghiera agli dei che il trapasso di qui al mondo di là avvenga felicemente, questo si potrà, credo, e anzi sarà bene. E questa appunto è la preghiera; e così sia».

Così dicendo, tutto di un fiato, senza dar segno di disgusto, piacevolmente, vuotò la tazza fino in fondo. E i più di noi fino a quel momento erano pur riusciti alla meglio a trattenersi dal piangere; ma quando lo vedemmo bere, e che aveva bevuto, allora non più; e anche a me, contro ogni mio sforzo, le lacrime caddero giù a fiotti; e mi coprii il capo e piansi me stesso: ché certo non lui io piangevo, ma la sventura mia di perdere un tale amico. E Critone, anche prima di me, non riuscendo a frenare il pianto, s’era alzato per andar via. E Apollodoro, che già anche prima non aveva mai lasciato di piangere, allora scoppiò in singhiozzi; e tanto pianse e gemeva che nessuno di noi lì presenti ci fu che non se ne sentisse spezzare il cuore; all’infuori di lui, di Socrate. E anzi Socrate disse: «Che stranezza è mai questa, o amici? Non per altra ragione ho fatto allontanare le donne se non perché commettessero di tali discordanze. E ho anche sentito che con parole di lieto augurio bisogna morire. Orsù, dunque, state quieti e siate forti».

E noi, a udirlo, ci vergognammo e ci trattenemmo dal piangere. Ed egli girò un poco per la stanza; e quando disse che le gambe gli si appesantivano, si mise a giacere supino, perché così gli consigliava l’uomo. E intanto costui, quello che gli aveva dato il veleno, non cessava di toccarlo, e di tratto in tratto gli esaminava i piedi e le gambe; e, a un certo punto, premendogli forte un piede, gli domandò se sentiva. Ed egli rispose di no. E poi ancora gli premette le gambe. E così risalendo via via con la mano ci faceva vedere com’egli si raffreddasse e s’irrigidisse. E tuttavia non cessava di toccarlo; e ci disse che quando il freddo fosse giunto al cuore, allora sarebbe morto.

E oramai intorno al basso ventre era quasi tutto freddo, ed egli si scoprì, perché si era coperto e disse, e fu l’ultima volta che udimmo la sua voce: «O Critone, noi siamo debitori di un gallo ad Asclepio: dateglielo e non ve ne dimenticate».[2]

«Sì, disse Critone, sarà fatto: ma vedi se hai altro da dire».

A questa domanda egli non rispose più; passò un po’ di tempo e fece un movimento; e l’uomo lo scoprì ed egli restò con gli occhi aperti e fissi. Critone, veduto ciò, gli chiuse le labbra e gli occhi”.

Duemila anni separano il delitto di Atene contro la filosofia da quello di Roma. Sono molti ma non pregiudicano la possibilità di un confronto. La differenza nei modi in cui si consumano i due delitti apre, però, un abisso che li rende comparabili solo per contrapposizione radicale.

Atene e Roma sono entrambe in gravi difficoltà.

Atene ha perso la guerra trentennale con Sparta, ha perso l’impero costruito dopo la vittoria sui Persiani e base della sua fioritura culturale. La democrazia che Atene ha restaurato, dopo aver cacciato i Trenta Tiranni, è una democrazia convalescente e incerta, in cui la libertà filosofica in piazza diventa un pericolo.

Roma ha perso con Lutero e Calvino molto del suo potere e, con il Concilio di Trento, si è attrezzata per contenere le perdite e tentare un parziale recupero.

Roma e Atene sono entrambe in gravi difficoltà e vedono nel libero pensiero un insidioso pericolo interno. Roma si ritiene l’erede di ciò che di meglio ha prodotto il mondo classico, ma copia il peggio di Atene e con aggravanti pesantissime.

Socrate avrebbe potuto salvarsi scappando dal carcere con l’aiuto dell’amico Critone. L’Atene che non sopportava più la libertà culturale di Socrate in piazza avrebbe sicuramente accolto con sollievo la notizia della sua fuga.

Bruno, se un Critone avesse aperto anche a lui le porte del carcere, sarebbe fuggito a gambe levate e la Roma della Controriforma avrebbe accolto la notizia come una bruciante sconfitta. E’ però soprattutto nell’esecuzione della stessa sentenza che si misura l’abissale distanza tra Atene e Roma.

La straordinaria umanità di Socrate trasforma la disumana condanna a morte in umanissimo suicidio imposto e assistito, con un boia sorprendentemente trasformato in premuroso infermiere. Socrate può, nel suo ultimo giorno, curarsi della filosofia, degli amici, della famiglia e morire con ammirevole dignità, assistito dai suoi cari e da un boia ormai altrettanto caro.

Bruno viene accompagnato nella piazza dell’esecuzione pubblica da monaci e teologi che tentano di strappargli la conversione che non sono riusciti a imporgli con gli otto anni di processo, con la tortura e con la condanna a morte; viene spogliato nudo, legato a un palo, impedito di parlare dalla mordacchia e bruciato vivo. La violenza del fanatismo religioso culmina nell’imposizione del Crocefisso allo sguardo della vittima già tra le fiamme perché si ravveda in extremis: il feroce gesto di carità di un potere che vuole a tutti i costi guadagnare l’anima del nemico indomito.

La straordinaria forza d’animo di Bruno tiene bene accesi fino alla fine i riflettori sulla mostruosità che lo travolge: quel distogliere “già tra le fiamme del rogo con viso torvo e sprezzante” lo sguardo dal Crocefisso è l’estremo ed eroico gesto di dignità umana di fronte all’ultimo e più perverso atto di tortura.


[1] Luigi Firpo, Il processo di Giordano Bruno, Salerno editrice 1993, p. 104.

[2] L’offerta in sacrificio di un gallo ad Asclepio, dio della medicina, si faceva in occasione della guarigione da una malattia.


Fonte

Fonte: ANNO ACCADEMICO 2010-11 - UNIVERSITA’ POPOLARE DI TORINO

Giuseppe Bailone ha pubblicato Il Facchiotami, CRT Pistoia 1999.

Nel 2006 ha pubblicato Viaggio nella filosofia europea, ed. Alpina, Torino.

Nel 2009 ha pubblicato, nei Quaderni della Fondazione Università Popolare di Torino, Viaggio nella filosofia, La Filosofia greca.

Due dialoghi. I panni di Dio – Socrate e il filosofo della caverna (pdf)

Plotino (pdf)

L'altare della Vittoria e il crocifisso (pdf)


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Aggiornamento: 26-04-2015