RENE' DESCARTES - Cartesio

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CARTESIO (1596-1650)

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CARTESIO

La filosofia moderna è nata col dubbio cartesiano, ma la legittimazione di questo dubbio (che di per sé è incapace di vera positività, in quanto, se portato all'estremo, conduce al nichilismo) era relativa alla crisi della Scolastica. Di fatto Cartesio dovette andare "oltre" al dubbio...

Oggi la filosofia (che è sempre borghese in Occidente) ripropone il tema del dubbio e del relativismo ontologico. A che pro? E' un dubbio nei confronti della stessa esperienza borghese, cioè dei suoi valori, ma è un dubbio di comodo, poiché, di fatto, non impegna l'esperienza a cercare un'alternativa.

Il capitalismo, infatti, viene considerato come l'unica esperienza sociale possibile, essendo impossibile - si ritiene - qualsiasi vera alternativa. E' un dubbio quindi rivolto sia al passato che al futuro: un dubbio diverso da quello di Cartesio, che per il futuro era ottimista.

Il dubbio borghese contemporaneo è particolarmente ostile all'alternativa più radicale che il presente possa offrire: il socialismo democratico. E' un dubbio pericoloso, che può portare all'irrazionalismo, cioè alla negazione ostinata di ogni evidenza.

Il dubbio cartesiano era meno pericoloso perché usava ingenuamente il concetto di evidenza. Oggi la filosofia borghese è molto più scettica, non solo perché il suo obiettivo del benessere diffuso non si è realizzato, ma anche perché il socialismo rappresenta la coscienza critica di questo limite.

La filosofia borghese contemporanea è arrivata persino a sostenere che l'evidenza non esiste oppure ch'essa dipende dalla "fede" (in modo analogo alla posizione religiosa). Cioè a dire, la verità di una cosa dipende solo dall'atteggiamento soggettivo. L'oggettività o non esiste o è relativa al punto di vista dell'osservatore. Non c'è più vera comunicazione, perché il dialogo si è banalizzato.

Tale filosofia pretende di superare Cartesio mostrando appunto che non ha più senso credere in verità oggettive valide per tutti. Anche la matematica è diventata un'opinione, oppure è stata considerata una scienza inutile (tautologica), incapace di fornire nuove conoscenze o giudizi (vedi il neopositivismo).

Ma Cartesio è stato superato anche perché non poteva non esserlo. Il suo individualismo porta, in ultima istanza, a negare il valore del dubbio metodico, col quale egli cercava di ottenere l'evidenza. Il dubbio non può portare all'evidenza ma al nichilismo: l'unica evidenza è la mancanza di certezze, di oggettività universalmente valida (Kant cercherà di superare questo limite).

Il dubbio non può essere "metodico", non può essere neppure un punto di partenza, poiché lo sarebbe al negativo (come critica di un aspetto decadente, obsoleto). Invece, per essere propositivi, occorre partire dalla fiducia in qualcosa, ritenuta vera, autentica dalla collettività, in quanto merita d'essere salvaguardata contro ciò che la logora o la deprime.

Il limite del dubbio cartesiano lo si comprende anche da un'altra incongruenza: subito dopo aver affermato l'autoposizione dell'uomo borghese, laico, attraverso appunto il dubbio metodico, o l'io penso, Cartesio è costretto a sostenere l'idea che esiste un essere perfetto, più perfetto dell'uomo: dio!

Cioè l'uomo borghese, in Cartesio, si fa forte nei confronti della tradizione eccelesiastico-feudale, ma si scopre debole nei confronti della realtà e, in fondo, nei confronti di se stesso.

L'uomo borghese non ha dunque la forza per emanciparsi completamente dall'idea di dio. La ragione di questa défaillance sta proprio nella definizione che Cartesio dà di essere umano: un io che pensa, cioè un soggetto intellettuale individualistico. Da notare che parallelamente a questa definizione di essere umano, la borghesia, al di fuori dell'Europa, affermava un concetto di io "conquistatore", "sterminatore" delle civiltà non-europee. Ciò a testimonianza dell'impossibilità di sostenere con coerenza etica il concetto borghese di "io".

In ogni caso con Cartesio l'essere (metafisico) non è più coincidente immediatamente con dio -come nel Medioevo-, ma è coincidente con l'uomo. Il quale però, sentendosi limitato, sottoposto a vari inganni nella comprensione sensibile della realtà, è costretto a ribadire l'esistenza dell'essere divino, unica fonte assoluta di certezza. Questo dio tuttavia è laicizzato, ha una fisionomia diversa da quello medievale: è un dio a immagine e somiglianza dell'intellettuale borghese.

Questo scrupolo religioso la borghesia lo supererà nel momento stesso in cui avverrà la rivoluzione industriale.

Con Cartesio inizia l'intellettualismo borghese dell'Europa occidentale, diviso tra essere e pensiero, tra esperienza e coscienza. L'intellettuale europeo, con Cartesio, raggiunge livelli altissimi di coscienza laica all'interno di un'esperienza squisitamente borghese (cioè antagonistica).

Cartesio si è difeso col pensiero dall'essere astratto e decadente dell'ultima Scolastica e dell'esperienza religiosa tardo-medievale. Ma dalla sua affermazione del primato del pensiero non è mai emersa un'esperienza veramente alternativa a quella medievale. Cartesio è rimasto prigioniero del suo soggettivismo.

Infatti, a livello oggettivo, egli è ricaduto nel misticismo. Con una sola differenza: la religione di Cartesio non ha l'oggettività dell'esperienza ecclesiastica (socio-comunitaria) del Medioevo, ma ha soltanto un'oggettività teoretica, concettuale o filosofica, in quanto, a livello pratico, l'esperienza resta soggettiva. Con Cartesio, in un certo senso, viene legittimata per la prima volta l'esperienza del cristianesimo borghese.

Sotto tale aspetto si può tranquillamente sostenere che tutta la filosofia borghese è soggettiva, inclusa quella hegeliana, che presume d'essere oggettiva per i suoi riferimenti alla storia, allo Stato, alla dialettica, ecc. La filosofia hegeliana è soggettiva appunto perché resta una "filosofia", cioè la speculazione astratta di un singolo filosofo, dalla cui invivibilità sociale scaturiranno, da un lato, l'irrazionalismo borghese di Nietzsche e, dall'altro, per reazione, il socialismo di Marx.

CARTESIO E LA FILOSOFIA BORGHESE

Tutta la filosofia moderna è un ritorno a quella greca, poiché è una forma d'intellettualismo individualistico, ma è un ritorno mediato dalla speculazione cristiana, la quale, per la prima volta, aveva introdotto i concetti di libertà e responsabilità personale, nel bene e nel male. Si tratta quindi di un ritorno "smaliziato", disincantato, assai lontano dall'ingenuità del mondo greco, che non riusciva neppure a considerare gli schiavi degli esseri umani.

La filosofia borghese dà una risposta parziale al fallimento di una soluzione - quella cattolico-romana - quanto mai autoritaria al problema della felicità umana.

La filosofia borghese (che, a tale scopo, si avvale anche della Riforma protestante) è il tentativo di reagire in maniera individualistica (e metafisica) all'imposizione autoritaria della fede cristiana. La metafisica viene usata per liberarsi della teologia dogmatica.

Che poi, in questa emancipazione, la filosofia borghese sia arrivata a compiere degli abusi antiumanistici superiori a quelli medievali, questo sta a testimoniare che il superamento di una civiltà ad opera di un'altra non può avvenire solo sul terreno speculativo, ma deve avvenire anche in quello concreto dei rapporti sociali.

Probabilmente nell'Europa orientale non è nata la filosofia borghese perché l'esperienza del cristianesimo non fu autoritaria come quella occidentale.

La filosofia borghese nasce costatando il fallimento dell'esperienza religiosa: essa quindi, per sua natura, è pessimista nei confronti della collettività sociale ed è ottimista nei confronti del singolo individuo che, in virtù delle proprie capacità razionali (e borghesi), riesce a emanciparsi dal servaggio del mondo feudale ed ecclesiastico.

L'inevitabile sbocco irrazionalistico della filosofia borghese (vedi Nietzsche e Schopenhauer) era già implicito nelle sue premesse cartesiane, com'era implicito nelle premesse agostiniane lo sviluppo autoritario dell'ideologia cattolica.

Ovviamente le premesse sono state ben diverse dalle conclusioni. In fondo, da Cartesio ad Hegel la filosofia borghese ha avuto la pretesa d'essere razionalistica, cioè si è sforzata di dimostrare che poteva esserlo. Anche quando predicava l'assolutismo politico (ad es. con Hobbes), essa lo faceva nella convinzione di procurare il "bene" della società.

Dopo Hegel però la filosofia borghese è diventata tutta irrazionalistica, e per di più nella consapevolezza di esserlo. Non avendo accettato l'alternativa del marxismo, essa si è per così dire incupita, come se sapesse a priori di non avere alcun futuro. Invece di cambiare direzione, prosegue ciecamente verso il baratro, senza rinunciare al fascino (e alla miseria) dell'individualismo.

CONTRO CARTESIO

Che tutta la filosofia moderna, almeno sino a Nietzsche, sia stata un gioco estetico-intellettuale è testimoniato dal modo stesso in cui è nata. Infatti, invece di reagire al vuoto formalismo della tarda Scolastica con un'esperienza forte e sentita, la filosofia cartesiana ha posto in essere il primato del pensiero, facendo derivare arbitrariamente da esso la stessa esistenza umana.

Non è paradossale che mentre Cartesio voleva far dedurre in maniera logica l'ergo sum dal cogito, creava, proprio in tal modo, una ridicola tautologia? Si è mai vista una persona dedurre la propria esistenza in vita dal fatto che è in grado di pensare su di sé? Questa è appunto una posizione intellettualistica, tipica dell'individualità isolata (perché borghese) e quindi alienata (dai valori collettivi).

Col cogito filosofico Cartesio s'illudeva di superare i limiti non meno astratti della Scolastica medievale. A un'astrazione che si doveva accettare per fede o per tradizione o perché obbligati dall'autorità, egli aveva contrapposto un'astrazione in cui si giungeva a credere individualmente attraverso la strada maestra del dubbio metodico. Il dubbio veniva usato contro il formalismo di una fede religiosa vuota di contenuto e che però disponeva ancora di potere politico. Veniva usato, soggettivamente, uno strumento filosofico contro la degenerazione della teologia cattolica, trasformatasi in vuota filosofia.

Cartesio non partiva dall'esperienza, cioè da una forma diversa del valore umano, ma partiva dal dubbio, cioè da un'idea astratta di esperienza. In tal modo non venivano posti in essere dei valori positivi, da viversi in maniera collettiva, dei valori di tipo umano e democratico, ma ci si limitava a dare voce all'esperienza individualista della classe borghese.

In questo senso si può dire che il passaggio da Cartesio a Nietzsche è stato il passaggio da una follia teorica a una follia pratica, da una follia in potenza a una follia in atto, da una commedia melodrammatica a una tragedia.

Quando infatti la filosofia borghese, con Nietzsche (e prima ancora con Kierkegaard, ma nell'ambito della religione, non dell'ateismo), si pone il problema di come superare il formalismo del cogito a partire dall'esperienza concreta dell'uomo vitale, il risultato è stato la follia. Cioè sono bastati pochi secoli di capitalismo per capire che la posizione astratta, individualistica, isolata e alienata della filosofia borghese avrebbe necessariamente portato alla follia. Nietzsche in tal senso non fece che anticipare il nazismo.

La follia nicciana è, da un lato, la certezza che il dubbio, di per sé, è insostenibile come metodo, in quanto non può portare a posizioni umanistiche o realistiche; e dall'altro è la certezza che, oltre al dubbio metodico, che distrugge qualunque cosa, l'uomo borghese non è in grado di proporre che la propria autodistruzione.

Si potrebbe anche dire che la borghesia che a un certo punto rifiuta il dubbio iniziale in nome della certezza ideologica, è la stessa borghesia che alla concorrenza preferisce il monopolio, e che può persino arrivare a sostituire al dubbio individuale la follia di massa, passando direttamente dal liberismo al fascismo. Una borghesia del genere, se non può ottenere quanto desidera distruggendo i propri avversari, finisce con l'autodistruggersi.

QUEL FURBASTRO DI CARTESIO

Non ci vuole molta immaginazione per capire che quando Cartesio parlava di "prove dell'esistenza di dio", non lo faceva perché gli erano rimaste alcune indelebili reminiscenze dell'insegnamento che i gesuiti per otto anni gli avevano impartito nel famoso collegio di La Flèche. Di quell'insegnamento ricordò soltanto volentieri, sul piano teorico, gli assiomi e i teoremi di matematica e di fisica.

Cartesio era fondamentalmente un ateo, ma siccome temeva spiacevoli conseguenze su di sé, preferiva stare sul sicuro, attenendosi ai principi fondamentali del suo criterio di vita: obbedire alle leggi e alle usanze del proprio paese, seguendo la religione tradizionale e comportandosi secondo le opinioni più moderate; anche perché, piuttosto che pretendere di cambiare le cose, è meglio modificare i propri desideri, diceva con molto stoicismo. Quando vide cos'era accaduto a Galilei, rinunciò addirittura a pubblicare il trattato sulla luce, intitolato Il mondo: aveva capito che con l'astronomia era meglio non scherzare.

Ecco perché prese dalla teologia scolastica le tre prove dell'esistenza di dio che più gli sembravano vicine al suo modo astratto di ragionare, tipico di quella filosofia razionalistica basata sulle idee innate, in virtù delle quali si può stabilire la verità delle cose prescindendo dall'esperienza che se ne può fare.

La prima prova considera dio come causa dell'idea di perfezione posseduta dall'uomo, ed è a posteriori, poiché muove dalla consapevolezza dell'imperfezione umana. Un'imperfezione dovuta al fatto che l'uomo, per avere delle certezze, deve prima mettere in dubbio tutto, altrimenti passa per uno sprovveduto. L'uomo, di estrazione borghese, è alla ricerca della verità, ma, siccome non la trova fuori di sé, essendo tutto corrotto dall'aristocrazia, laica ed ecclesiastica, pensa di trovarla dentro la propria coscienza.

Cosa c'entra dio in tutto questo? Niente. Solo che a un filosofo che fa del dubbio e non della fede il punto di partenza della propria verità, può far comodo, in una società in cui la fede domina ancora come un'istituzione politica, sostenere che l'esigenza di ricorrere al dubbio, nella ricerca della verità, è un indizio d'imperfezione umana, che non può certo caratterizzare un ente assoluto come dio. Questa prova è quindi una sorta di dimostrazione indiretta di quell'esistenza metafisica.

D'altronde la stessa chiesa predica che l'uomo, a causa del peccato d'origine, non può far nulla da solo. La perfezione, dunque, non sta nell'uomo, libero di scegliere, ma in un'entità del tutto astratta e artificiosa, chiamata appunto "dio". L'imperfezione non sta in un comportamento particolare, in un determinato sistema di vita, ma sta nell'uomo in sé, incapace di vedere subito dove stia la verità.

Per fortuna quindi che c'è dio, il quale aiuta il filosofo Cartesio a capire quali siano le migliori idee innate, quelle per cui non ha alcun senso dubitare. Come vi riesca non è però dato sapere, poiché Cartesio non è un uomo di chiesa, uno che frequenta ambienti clericali. Ciò che conta, per lui, è solo l'io chiuso in se stesso, che si autodetermina. E il suo dio deve limitarsi a illuminarlo interiormente, come generalmente avviene nel mondo protestante. Le vere idee innate, infatti, possono soltanto essere intuite, come se si avesse un sesto senso.

La seconda prova (anch'essa a posteriori) è in realtà un corollario della prima: l'uomo non può essere autore di se stesso, perché, se avesse avuto la possibilità di farsi da sé, si sarebbe creato perfetto, senza limitarsi ad avere, della perfezione, una semplice idea (un'idea che comunque è superiore a qualunque ente naturale). Quindi dio esiste.

Una prova, questa, quanto mai opportunistica, poiché esonera da qualunque responsabilità. È come se il filosofo dicesse: "se dio mi ha creato imperfetto, non può sperare grandi cose da me".

La terza prova è presa, in un certo senso, da quella anselmiana, ed è a priori, una di quelle che tanto piacciono a Cartesio, proprio perché non ricavate dalla realtà concreta delle cose. Essa così recita: l'idea di dio implica necessariamente la sua esistenza, così come non si può immaginare un triangolo in cui la somma degli angoli interni non corrisponda a due retti.

A dir il vero Anselmo d'Aosta era stato un po' più sottile (in senso psicologico), dicendo che dio è tutto ciò di cui non si può pensare nulla di maggiore. Mettere dio e un qualunque triangolo sullo stesso piano, poteva giusto venire in mente a un matematico irriverente come Cartesio. In entrambi i casi, comunque, si confondevano i propri desideri con la realtà: la differenza stava unicamente nell'aumentato laicismo, dovuto all'evoluzione storica.

Ma la cosa più curiosa, di queste pseudo-dimostrazioni, è che vennero contestate subito, cioè ben prima della kantiana Critica della ragion pura, proprio grazie a un espediente escogitato da Cartesio. Egli infatti aveva astutamente inviato la prima stesura delle sue Meditazioni metafisiche ai maggiori studiosi dell'epoca, pubblicando poi, nella stesura definitiva, le loro obiezioni e le proprie risposte. Che dire di questa trovata? Cartesio non era forse un genio assoluto della diplomazia e della comunicazione?

Tra i suoi critici M. Mersenne, P. Gassendi e A. Arnauld l'accusarono d'essere finito in un circolo vizioso. Da un lato infatti - gli obiettavano - egli ammetteva che le idee chiare e distinte sono vere perché esiste dio che non può ingannare; dall'altro però egli dichiarava che esiste dio perché la ragione umana ha di lui un'idea chiara e distinta. Era difficile difendersi da un'accusa del genere, e quando Cartesio ci provò, il risultato fu patetico, anche se a lui bastò per non essere mai inquisito.

Egli infatti arrivò a dire che l'idea dell'io si manifesta con tale immediata evidenza, che non ha bisogno d'essere convalidata dall'idea di dio e che anzi questa idea l'io se la ritrova dentro di sé. Una difesa - lo si può facilmente notare - quanto meno bizzarra: dio avrebbe creato un essere che per riconoscersi come tale non ha bisogno, in maniera costitutiva, di chi l'ha creato!

Era più laico persino il teologo olandese G. Caterus, che, esaminando la prima prova cartesiana, arrivò a dire, emulando, in questo, i critici di sant'Anselmo, che l'uomo può possedere l'idea della perfezione non perché infusagli da dio, ma soltanto perché è conquistata attraverso l'esperienza, eliminando progressivamente tutto ciò che è giudicato imperfetto.

Quanto poi alla terza prova, Caterus obiettò che l'argomento ontologico anselmiano veniva accettato solo da coloro che credono già in dio, perché soltanto per costoro nell'essere perfettissimo l'essenza coincide, tautologicamente, con l'esistenza. Anche Gassendi gli disse che una cosa è l'idea, un'altra la realtà: non tutto quello che si può pensare, esiste davvero. Peraltro l'esistenza non è di per sé una "perfezione", ma solo la "condizione" di tutte le perfezioni.

La scuola dei gesuiti gli era comunque servita, se non altro per dissimulare le proprie idee. Cartesio infatti poté vivere la sua esistenza di studioso in tutta tranquillità, anche se preferì risiedere in Olanda per vent'anni, andando poi a morire di polmonite a Stoccolma, dopo aver accettato l'invito della regina Cristina di recarsi là per insegnarle la sua filosofia.

Ma se la regina non ebbe tempo ad apprendere i segreti del suo razionalismo, ben altro fecero i suoi epigoni. I filosofi illuministi, infatti, compresero subito che bisognava separare la sua inutile metafisica dalla sua fisica dirompente.

Cartesio viene oggi considerato il fondatore della filosofia moderna proprio perché pose il primo passo non solo verso il naturalismo del materialismo ateo, ma anche verso l'idealismo come antropologismo ateo. Riducendo l'essere della sostanza spirituale a puro pensiero (res cogitans) e la sostanza materiale a pura estensione (res extensa), egli finiva con l'espellere radicalmente dio dal mondo, e con lui ogni idea di tipo finalistico e provvidenziale.

Persino la "teoria dei vortici", con cui aveva cercato di spiegare la genesi di qualunque processo naturale, non faceva che recuperare (ponendo la materia del tutto increata) il materialismo atomistico ed epicureo. Da Cartesio deriveranno il loro materialismo ateo pensatori di rilievo come Meslier, Diderot, D'Holbach e La Mettrie.

Il Dio di Cartesio

Quando si leggono le Meditazioni metafisiche di Cartesio viene inevitabile porsi una domanda: "sta scrivendo tutta questa filosofia religiosa perché davvero ci crede o per non avere noie con la chiesa?".

Egli infatti era un uomo molto prudente e, pur sapendo che i suoi testi non avrebbero mai potuto essere approvati dalla chiesa cattolica (tant'è che furono messi all'Indice nel 1667), si preoccupava di poter vivere un'esistenza il più possibile al riparo dagli sguardi inquisitoriali dei controriformisti. Non a caso aveva scelto d'andare a vivere nella più liberale Olanda, resasi indipendente dalla Spagna, pur di non restare in una Francia preoccupata soltanto di eliminare la presenza calvinistica al suo interno. Tuttavia, mentre nel 1647 la corona di Francia gli riconoscerà una pensione, nel 1643 la sua filosofia verrà condannata dall'università di Utrecht.

Prima di scegliere Amsterdam come sua fissa dimora (e lo sarà per vent'anni, pur cambiando egli frequentemente domicilio), aveva militato come ufficiale d'alto grado, fino al 1620, alle dipendenze del principe Maurizio di Nassau, statolder d'Olanda e nemico giurato degli spagnoli.

Sin dall'inizio ai suoi accusatori non era sfuggita una certa tendenza ateistica presente nelle sue opere. E siccome viveva una vita isolata, dopo essere andato in congedo dal servizio militare, si preoccupava alquanto delle possibili conseguenze che le critiche potevano avere su di lui, tant'è che alcune opere evitò di pubblicarle. Il suo motto di gioventù era larvatus prodeo, cioè procedo mascherato, sulla scorta di quello di Ovidio: bene vixit, bene qui latuit (ha vissuto bene chi si è nascosto bene); anche se morì a Stoccolma perché i piaceri della vita ritirata cedettero al vanto d'essere chiamato presso una corte reale.

Tuttavia, sebbene non possa essere escluso il desiderio di compiacersi i poteri dominanti (dal suo epistolario si scoprono rapporti di amicizia con la principessa Elisabetta di Boemia, con la Regina Cristina di Svezia, col diplomatico Chanut e con tanti protagonisti della scena culturale europea), non è da escludere ch'egli nutrisse un interesse genuino per le questioni religiose, non foss'altro che per scrollarsi di dosso l'educazione gesuitica ricevuta in gioventù.

Di qui quel suo continuo parlare di dio secondo modalità che se, da un lato, possono essere definite di stampo religioso, dall'altro però non hanno nulla di propriamente teologico. Con lui infatti la metafisica non è più la scienza astratta delle cose spirituali, cioè una teologia dal punto di vista filosofico (quella tipica della Scolastica), ma diventa il fondamento psico-religioso, in chiave laicizzata, della natura dell'io, che per lui era l'unica realtà di cui si poteva avere una vera certezza.

In tal senso s'egli aveva fatto un passo indietro persino rispetto a Tommaso d'Aquino, per il quale la verità era la risultante di un adeguamento dell'intelletto alla realtà, aveva però fatto un passo avanti, seppur in forma individualistica, ponendo il razionalismo cristiano-borghese al di sopra della realtà clerico-feudale e del suo razionalismo tardo-scolastico.

Basta leggersi le sue tre prove dell'esistenza di dio per capire che cosa si deve intendere per metafisica individualistica.

Prima prova: dal momento che l'uomo è un essere imperfetto e finito, come potrebbe darsi da sé l'idea di un essere infinito e perfetto? (Come se l'uomo fosse destinato a rimanere imperfetto e finito! Come se la sua idea di perfezione non possa provenire dal fatto che in origine la viveva come una condizione naturale! Come se l'idea di perfezione divina non possa essere altro che un modo diverso di indicare quella umana!).

Seconda prova: se l'uomo fosse la causa di sé, si sarebbe dato tutte quelle perfezioni di cui ha idea, ma che non possiede effettivamente; quindi dio esiste e ha creato l'uomo finito, ponendo però in lui l'idea dell'infinito e della perfezione. (Che strano dio quello che riserva soltanto a sé un'esistenza perfetta e la nega l'uomo! Attribuire a dio la perfezione non significa forse negarla definitivamente all'uomo?).

Terza prova: dio deve esistere necessariamente perché non possiamo pensarlo senza includere, nell'idea che abbiamo della sua natura, l'esistenza (è la cosiddetta "prova ontologica"). (Come se l'uomo non potesse pensare qualunque cosa senza che per questo essa debba per forza esistere! Quando mai l'esistenza di qualcosa può essere dimostrata prescindendone, cioè postulandola come idea? L'esistenza non può forse soltanto mostrarsi?).

Già al suo tempo persino un teologo come Giovanni Caterus fu costretto a dirgli che l'uomo possiede l'idea di perfezione non perché infusagli da dio, ma perché conquistata attraverso l'esperienza, eliminando progressivamente le imperfezioni. Lo stesso teologo gli disse che l'argomento ontologico sull'esistenza di dio viene accettato soltanto da coloro che sono già credenti! Se all'idea di perfezione si attribuisce un'identità divina e quindi un'esistenza divina, si sta facendo della tautologia, poiché si parte proprio dal presupposto che la perfezione abbia un nome proprio, quello appunto di dio, che nella fattispecie coincide con quella del dio cristiano.

M. Marsenne, P. Gassendi, A. Arnauld accusavano Cartesio d'essere finito in un circolo vizioso, in quanto da un lato sosteneva che la garanzia della verità delle idee innate è offerta da dio (che, se è buono, non può ingannare), mentre dall'altro che dio esiste proprio perché di lui l'io ha un'idea chiara e distinta.

Ai teologi non era sfuggito che Cartesio, come Vanini, si scagliava contro gli atei (di cui la sola Parigi ne contava almeno 50.000) solo per coprire il proprio ateismo. Essi infatti ritenevano fosse impossibile per l'essere umano farsi un'idea reale di una sostanza senza estensione, capace di agire su una natura materiale come quella umana. Tuttavia, mentre per loro si trattava di accettare il sistema dominante, e quindi gli Stati confessionali e le rispettive chiese di Stato, per Cartesio invece il problema era quello di come realizzare una transizione da una metafisica teologica a una semplice filosofia religiosa, in cui l'aspetto cristiano fosse subordinato all'individualismo borghese.

Il suo limite di fondo, infatti, sta proprio nel soggettivismo. Da un lato egli si vantava di poter decidere della propria esistenza partendo dal fatto che non è possibile negare a se stessi di vedersi come soggetti pensanti; dall'altro però era costretto a "chiedere" a dio di dargli conferma di questa certezza.

Il razionalismo cartesiano era la riprova che il Cogito, cioè l'io, non può autoporsi: ha bisogno di una realtà esterna. Il fatto è però che questa realtà, per renderla credibile, Cartesio la spacciava come innata. Quindi proprio mentre usava il Cogito per negare al dio della chiesa un suo primato, se ne inventava un altro, chiuso nell'orizzonte dell'io, di cui le principali caratteristiche erano simili a quelle del dio cristiano.

Invece di cercare nella relazione sociale l'atto fondativo dell'io, elaborò una relazione di tipo mistico, aprendo così la strada a una filosofia che, pur essendo laicizzata, non poteva non imboccare la strada dell'irrazionalismo. Infatti, dopo la fine dell'idealismo hegeliano, che portò a compimento l'idea cartesiana di razionalismo, i filosofi avranno di fronte a loro due alternative: o superare la filosofia con una politica rivoluzionaria, che cambi completamente il modo di impostare il problema dell'identità personale, oppure involvere verso soluzioni irrazionalistiche, quelle per le quali il soggetto, ateo o religioso che sia, non sa più chi è né come deve vivere.

Oggi la più moderna filosofia è arrivata alla conclusione che non esistono verità autoevidenti. Il singolo, preso in sé, non può avere alcuna certezza di alcuna verità. Una verità autoevidente, che s'imponga contro ogni libertà di non crederla come tale, è, ipso facto, una falsità. Uno che si convince d'essere o di esistere solo per il fatto che "pensa" d'essere o di esistere, è soltanto un alienato.

La fede religiosa era (ed è ancora oggi) sicuramente una forma di alienazione, ma la ragione filosofica, così solipsistica, lo diventa ancora di più: almeno la coscienza religiosa non si concepiva in maniera del tutto separata dall'esperienza collettiva della fede. Il problema del cogito cartesiano è che quando si arriva alla certezza d'essere o di esistere, si ottiene al massimo una certezza meramente "fisica", che non dice nulla di significativo al modo umano di esistere. Infatti il modo di esistere è, per Cartesio, contrassegnato da mille dubbi, e quando perviene a delle certezze, queste sono soltanto di natura matematica, cioè intellettualistica, da cui pensava di poterne ricavare altre, di tipo fisico e metafisico, in maniera ancora più astratta, in quanto queste verità erano basate su dimostrazioni puramente logico-deduttive.

Quando Cartesio vuole impostare un metodo pratico per esistere, una sorta di etica sociale, non offre alcuna certezza e si affida al conformismo più assoluto, cioè a una morale del tutto provvisoria. Cartesio è moralmente indifferente a qualunque valore etico: l'unica cosa in cui crede, più di ogni altra, è se stesso.


Testi di Cartesio

Testi su Cartesio


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Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Teorici
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Aggiornamento: 25-10-2015