Gianni Grana: Avamguardie letterarie

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GIANNI GRANA

LE AVANGUARDIE LETTERARIE

Nati da ‘necessità’ propedeutiche di introduzione storica, a servizio delle sezioni monografiche del Novecento – nel decennio circa che richiese la realizzazione dell’opera -, e rimasti esclusi per il notevole grado di incompiutezza, i capitoli di questi volumi si sono venuti formando con inevitabile crescita autonoma, come serrata ridiscussione di alcuni tra i maggiori temi/problemi storico-letterari del secolo. Io non credo nella ‘vocazione’ assoluta a una scelta del "metodo" definitiva, fatta una volta per tutte per illuminazione di maestri o con emancipazione laboriosa, tanto da esserne comunque segnati per la vita.

Credo nella ovvia relatività e pluralità dei metodi e criteri possibili, molto provvisori, nell’approccio critico-storiografico a qualunque argomento, autore o periodo ecc. Una relatività di funzione che si determina sempre come ‘particolarità’ nella specifica concretezza dei problemi e dei dati, e in relazione al punto di osservazione via via assunto, variabile quindi da una ricerca all’altra e perfino nella medesima ricerca, se utile o necessario. Dipiù vorrei dire che per me esistono solo per assurdo modelli precostituiti – e quindi astratti – di "metodo" per la ricerca storica e l’analisi letteraria, simili a schemi predisposti nella scuola o nel partito, per essere diligentemente applicati con la lode degli addetti.

Credo che l’impegno al "metodo" non possa sussistere che nella più libera e ‘aperta’ disponibilità a organizzare strutturalmente il proprio lavoro, secondo procedure tecniche determinate. E’ perciò una costruzione in progresso, che lo storico letterario non trova mai già fatta, ma ogni volta si fa operosamente nel vivo rapporto con la materia trattata, con la storia critica con cui si confronta.

Nella lettura ‘profonda’ e analisi strutturale del romanzo, in "I Viceré" e la patologia del reale (Marzorati 1982), i capitoletti preliminari delle singole sezioni erano riservati a una vivace discussione problematica degli specifici temi, che per me è approccio storico essenziale. In questa lettura estesa la vasta e controversa materia storica dell’ "avanguardia", dotata ancora di una sua resistente "incandescenza", esigeva che quella ridiscussione, là tenuta nelle premesse della struttura analitica, qui fosse largamente recepita in evidenza a concorrere alla struttura stessa del lavoro.

Il procedimento qui adottato consiste infatti nel tentativo di costruire nuovi concetti storici, mediante l’analisi testuale e principalmente la discussione - spesso la de-composizione – di canoni e tradizioni critiche remote e recenti, risalendo a volte all’origine di una formazione e perpetuazione ingannevole, attraverso una scelta di libri centrali o comunque ‘esemplari’ sui singoli temi. In pratica questi capitoli sono abbozzi storici ‘costruiti’ dialetticamente a più livelli, predominante quello metodologico per una critica ‘adulta’, cioè emancipata sia dalla trasmissione scolastica del "giudizio" e del pregiudizio, sia dalla devozione ancillare alla milizia politica, per la fede e/o per la carriera.

Sono infatti convinto che la critica e la storiografia letteraria in particolare, malgrado l’imponente sviluppo quantitativo e strumentale, e la profusione d’ingegni, da me stesso documentati in altri tempi, siano ancora ai primordi metodologici, e quindi di costume intellettuale, legate come sono ancora – fra l’altro – a antichi abiti micro-moralistici e "giudiziali". Io credo che l’unico onesto compito che la critica sia tenuta a osservare, con scrupolosa professionalità, è quello che può riassumersi nella metafora corrente di una "ricerca" a non altro finalizzata, coi suoi strumenti tecnici elaborati, che alla conoscenza storica di fatti artistico-letterari.

Quella di una "critica conoscitiva" può sembrare una formula tautologica, contestata dai critici con-‘creativi’, ma appunto per questo è per me una rivendicazione obbligata. Trascuro i diffusi ‘generi’ di critica che è giusto classificare "accademica", perché realmente fa accademia su temi-espedienti fossili iterati all’infinito, così legittimando se stessa metodologicamente nella trasmissione didattica di uno scarso "sapere". E trascuro gli altri ‘generi’ di una critica narcisistica en essay, anche più inconcludente spesso nel suo prodursi parassitario e crescere su se stessa, per intuizioni suggestive, tesi "brillanti" e falsi motive, che il più delle volte hanno solo pretestuosamente agganci testuali nelle opere su cui dichiarano di esplicarsi, specchiandosi in un esercizio d’ingegno sterile di risultati storici.

Ritengo che generalmente un rigoroso metodo critico e storiografico possa appena presumere l’approssimazione, nei fini e nei procedimenti, a una intenzionalità "scientifica", solo se si autorègola come un processo conoscitivo del tutto ‘aperto’, nello studio della creatività artistico-letteraria, sfruttando tutti i suoi sussidi e strumenti tecnico-filologici noti. E dico processo per intendere precisamente un percorso ragionante dall’incognito al conosciuto, difficile e anche lungo perché impone il superamento dei pregiudiziali o irrazionali rigetti difensivi dell’ignoranza ‘colta’, la più preclusa sempre, quella inerzia conservativa di canoni/schemi di lettura abusati nella ripetizione scolastica e pubblicistica.

Esige al contrario, in opposizione a tutto questo, la costruzione continua di altre regole metodiche e formule sintetiche e strutture tecnico-analitiche, dedotte sempre dalle specificità testuali, per un’attiva intelligenza storica del nuovo, sia predicazione o produzione originale o solo preannunzio. Se la critica dei fatti letterari e artistici ha un senso culturale, oltre il vaniloquio delle variazioni sul tema, è proprio perché si ‘libera’ essa stessa rinnovandosi, come per assimilazione, nell’impegno ri-conoscitivo della novità artistico-letteraria. Perché così specialmente si riaccredita auto-producendosi, concorrendo alla storia degli eventi senza temere di esserne compromessa, dovendo per questo superare una quantità di inibizioni: il rifiuto meccanico originato dal falso moralismo o dal più facile gusto-dis-gusto del cantabile micro-poetico; e la falsa razionalità del rigetto ideologico, la controffensiva socio-economica sedicente "di classe", più o meno organica a un disegno politico.

Insomma per me un libro di critica e storiografia letteraria ha significato quando sia animato al suo interno da vigore di riforma concettuale, e riesca perciò innovante insieme nell’ordine problematico della materia di cui tratta, e nella elaborazione metodologica della propria tecnicità. Che non serva dunque soltanto a schiudere minimi spazi di avanzamento del mestiere – di cui si giustificano le scuole universitarie, addette alla consacrazione professionale e alla custodia delle tradizioni -, con la "soluzione" di questo o quel problema tecnico, spesso escogitato per artificio sperimentale; ma che apra altri spazi culturali alla conoscenza storica.

Per quanto mi riguarda, oggi riterrei insensato scrivere per riproporre una ennesima variante degli schemi ereditati, anziché scrivere nell’unico bisogno di intaccarli, modificarli o addirittura sovvertirli. E’ la stessa scelta della lunga traccia storica dell’ "avanguardia" letteraria in Italia – per una rilettura del 900 – a essere auto-imperativa in questo indirizzo, nell’obbligato contrasto con un largo fronte di giudizi preclusivi e pregiudizi resistenti, di cui questa trattazione è un ampia e esauriente ma solo parziale documentazione. Però la mia predilezione sintònica per l’arditezza dell’azione/parola, nella negazione e nella proposizione, per la radicalità del mutamento artistico-letterario e socio-politico, per l’azzardo puro dei gesti liberatori di provocazione, che offendono il boncostume culturale, e quello privato e pubblico, falsamente rassicuranti; questo non deve indurre in equivoco.

Io non avevo alle origini alcuna simpatia ideologica o letteraria per quasi tutti gli scrittori di cui qui si parla, a volte semmai ripugnanti per ciò che hanno scritto o per la loro vita, per come hanno rappresentato se stessi, così remoti dal mio essere vivere e scrivere. Forse troppo cristianesimo laico, secolarizzato in "umanitarismo" sociale ecc., è rimasto in me come in tanti ‘compagni’, malgrado l’impegno apparente alla espulsione della confessione cristiana; o forse troppo resiste in me il gusto-dis-gusto critico e materialistico della realtà, anche nell’arte, per potere subire un richiamo simpatetico di quegli scrittori.

Praga Pascoli D’Annunzio Lucini Marinetti Papini Prezzolini Bontempelli Malaparte e così via, non sono miei scrittori elettivi. Per non dire dei personaggi storici del fascismo, della ripugnanza di principio per ciò che ha significato e significa una "cultura fascista". Ma questo non ha per me niente che vedere col compito vocazionale e con la responsabilità culturale dello storico, ci mancherebbe altro. E’ una ipotesi affermata o presupposta, quella della "consensualità" e magari "corresponsabilità" morale dello storico, da contestare con energia. Ammesso pure che l’interesse storico ‘disinteressato’ fosse confondibile con un "patrocinio" co-interessato, e non lo è quasi mai a distanza storica dai fatti, quella "corresponsabilità" potrebbe allora estendersi ugualmente alle difese di ufficio di crimini comuni. Come l’intervento professionale a difesa così, con più ragione, l’interesse culturale e l’impegno conoscitivo dello storico per i fatti artistici e letterari, e per gli stessi fatti politici, non può essere minimamente confuso con una compromissione ideologica.

Per ovvie che sembrino, sono precisazioni necessarie in particolare per la situazione generale degli studi sulla cultura delle "avanguardie" in Italia, che hanno segnato il secolo, strettamente intricate nella genesi del fascismo "avanguardia" politica borghese, che ha segnato il suo quarto di secolo: una cultura estremistica nei predicati "rivoluzionari", marcata a fuoco nelle ideologie e nelle prassi d’azione come "cultura reazionaria" tout court. Che potrebbe pure essere una qualificazione storica degna del massimo interesse ricognitivo, ma è sempre nel costume pubblicistico corrente una squalificazione tale da consigliare il massimo di cautele, anche allo storico letterario e della cultura generale.

Certo è ancora la lunga conseguenza storica del venticinquennio sanguinoso di lotta politica in Italia, tra le due guerre, che ha visto contrapporsi costruzioni apparentemente ‘inconciliabili’ del mondo della società, dell’uomo, concezioni e prassi politiche "rivoluzionarie" in realtà confluenti metodologicamente, malgrado le "opposte" matrici ideo-culturali, schematizzate in antitesi radicali artificiose e reversibili, democrazia-antidemocrazia, libertà-oppressione, capitalismo-socialismo, fascismo-antifascismo, rivoluzione-reazione, ecc. Tali "opposizioni" pubblicistiche elementari, impugnate come armi propagandistiche – anche efficienti per questo – in un secolo di lotta politica, si perpetuano stancamente ancora oggi, pure nel più severo impegno di ricerca e analisi critica, che è o dovrebbe essere il fondamento di una cultura storiografica incondizionata.

Per quanto riguarda in particolare i riflessi perduranti, e gli specifici rigetti, nello studio delle avanguardie artistico-letterarie, che più ci ha occupato, bisogna fare conto anzitutto dei residui lungamente persistenti, come sempre, della vecchia cultura letteraria, che del crocianesimo più preclusivo si era fatta un livello di forza e un alibi quasi di "modernità" limitata, negli studi, con gli ulteriori "aggiornamenti" superficiali su lezioni linguistiche recepite come si sapeva.

Ma responsabilità probabilmente maggiore credo sia da assegnare a quelle roccaforti, sempre agguerrite in determinazione, della politicità ideo-metodologica che si richiama a dubbi archetipi e ingannevoli maestri di un marxismo logorato (Lukàcs immortale), e tuttavia dilagante ancora in tutti i settori culturali, per contagio ‘politico’ oltre e più che scolastico, secondo i canoni attualizzati della "egemonia" militante degli intellettuali.

E’ perciò che le mie reazioni critiche più insistenti e severe sono rivolte ai ‘compagni’ professori che avrei più prossimi per affinità se non identità ideo-politica, di istanze critiche e liberatorie, di radicali mutamenti nella società italiana. Sono rivolte alla micro-cultura di cui spesso si fanno portatori, ai ritardi che all’insegna di un criticismo e di uno storicismo malintesi, nella loro uniforme schematicità socio-economica, hanno prodotto nella cultura critica e storiografica non solo letteraria. Da cui generalmente si ricava una storia culturale non di fatti significativi, ma di nefasti borghesi, tema ossessivo di iterazione, di fissità retorica con limitate varianti, in un celebrato schema "organico" di lettura del mondo, come "conoscenza reale" tracciata nei sacri testi.

Una prospettiva che ha funzionato e forse può ancora funzionare, nel caso se ne assuma criticamente il presupposto metodico, solo in una osservazione ‘globale’ della società italiana, in cui sovrasti un apprezzamento economico-politico delle "attività letterarie" in un orizzonte storico esclusivo inteso a ‘produrre’ storia politica, nel processo/progresso molte volte opinabile della "civiltà dell’uomo".

Oltre alla inevitabile contrapposizione di altri pre-giudizi ideo-politici, diversamente interessati alla "conoscenza reale", tutto ciò sortisce sempre una radicale subordinazione della critica e storiografia letteraria, dei suoi strumenti e metodi, a interessi "conoscitivi", strutturalmente estranei. E si concreta sempre in una restaurazione gerarchica della cultura, potenzialmente quando non attualmente autoritaria, che negando l’autonomia della ricerca, prepara e accompagna altre più gravi subordinazioni ‘strutturali’, non esclusa quella della scienza per definizione.

Una scienza non a torto denunciata da altri compagni intellettuali, nei rispettivi settori, come "sovrastruttura borghese" a servizio del potere macro-industriale, ma per essere data a una "funzione democratica" incerta, con rischiosi "controlli di base", mentre l’unica autentica sottrazione al potere può essere garantita dalla sua più rigorosa autonomia funzionale.

Può essere ovvio concludere che una ricerca critica che si pretende "scientifica" debba osservare le medesime garanzie direi di ‘sopravvivenza’, comunque di autonomia culturale e strumentale, col supporto storico non dei ‘santi padri’, ma della medesima cultura antidogmatica e plurivoca delle autonomie. Gli ‘ideologi’ si esercitino nelle battaglie civili per una "cultura democratica", anzitutto creandola metodologicamente, nel rispetto delle ‘verità’ storiche possibili.

Ecco, sono queste le uniche ‘verità’ in cui mi senta filosoficamente, politicamente, laicamente di credere, almeno nella disponibilità alla ricerca problematica del ‘vero’, forse per un raggiungimento impossibile, certo per un’approssimazione continua. Se in linea di principio antepongo la scienza e la storia all’invenzione artistica anche più fascinosa (e anche per me), è unicamente per questo.

E così per es., nell’analisi storiografica, tento di proiettarmi in una più ‘complessa’ prospettiva storica, non quella del presente che ci stringe ma semmai quella del futuro, quella dispositiva di una possibile "scienza" storica che, oltre le passioni contemporanee, gli impegni militanti e gli estri evasivi della lettura suggestiva dei testi e dei fatti, riesca a segnare probabili linee tendenziali di una "comprensione" ragionevole del passato, di una durevole e forse progressiva presa di ‘verità’ sostanziali E’ pure per questa sorta di materialismo filosofico-scientista che, specialmente in sedi come questa di più larga udienza, proceduralmente io prediligo più concreti procedimenti analitici, di descrizione ragionata e discussione-riporto dimostrativa di cospicui dati testuali, sia letterari che critici e storiografici, a contrastare gli arbitri ricorrenti delle sintesi discorsive che la scola decanta.

Quel discorrere cioè prolungato per "elaborazione" propria del critico, su dati labili di "sondaggi" quasi casuali, su sporadici lacerti testuali detti "campionature", che dovrebbero "esemplificare" tutta la complessità testuale. Una specie solita di operazione sostitutiva che privilegia il ragionare critico, per spinte suggestive e tesi pregiudiziali, rispetto alla ‘oggettività’ fisica e storica del testo: dove la verifica di un riscontro appena più attento, o di una lettura strutturale, denuncia immancabilmente la sovrimpressione spesso arbitraria e il taglio parzialissimo, se non tendenzioso a servizio di altre concezioni estranee al testo.

Gli stessi intenti preventivati di radicale revisione storica, oltre alla necessità di informazione più larga, rendevano vitali più che opportune queste procedure, che del resto mi sono congeniali come ho detto, di serrata ridiscussione critico-testuale per la ‘verosimile’ ri-composizione di un più ‘veritiero’ disegno storico. L’esito complessivo – per me augurabile – dovrebbe essere un animato percorso storico-culturale, di notevole spessore critico per insolita complessità problematica, ricognizione larga di un secolo di cultura letteraria e politica, che ha coinciso con la nascita e l’esistenza storica della moderna nazione italiana.

Un secolo da rigiudicare interamente – intramato non certo espulso il fascismo, che anzi ne fu protagonista politico – e da riconoscere con ogni probabilità a livello della più celebrata "cultura europea", e perfino di una creatività politica più avanzata. Anche sulla ideologia e sulla cultura formative del fascismo, qui si tenta – con la più ampia ‘libertà’ di giudizio – di rettificare i canoni correnti, traducendo in qualificazioni storiche le squalificazioni abusate dell’antifascismo retorico. Infatti, nella mia visuale "antropologica" della cultura, una storia parzializzata sia pure secondo ideologie a noi fraterne, quale universo cristiano, democratico, antifascista, ecc., che abroghi come nefando o danni all’inferno tutto l’altro, è sempre una storia rozza e primitiva, caratteristica di una tenace infanzia culturale.

Nella storia dell’uomo ha largo spazio anche la criminalità politica, quindi la denuncia di ideologie criminògene, ma non credo esista una tipologia fascista e antifascista in alternativa etica assoluta, perché tutti alla fine siamo coinvolti nel medesimo tragico storico, e ciascuno risponde della moralità dei propri atti, nella libertà o nella costrizione delle sue scelte. Ce n’è abbastanza, dunque, perché questi largheggianti capitoli compongano un quadro generale piuttosto "nuovo" – insieme agitato e relativamente omogeneo – della cultura italiana del Novecento.

E non occorre io dica quanto l’andamento di questo lungo itinerario critico, come di ogni altro, sia pure legato alla relatività dei momenti in cui è stato elaborato e scritto. Rappresenta cioè il lavorio riflessivo, ma anche gli ‘umori’ vitali, di chi l’ ha scritto senza pretendere l’assolutezza del risultato: ciò è di ogni libro – dicevo -, anche di ogni "opera d’arte", e lo sa bene chiunque si dedichi a questo mestiere, molto più ‘accidentale’, determinato dalla ‘casualità’ degli eventi quotidiani, di quanto creda il lettore comune.

Ogni libro in questo senso registra, nella sua stessa precarietà inevitabile, una parte – episodio o capitolo – della storia personale del suo autore, che potrebbe essere stata diversa. E non mi riferisco, evidentemente, alla sostanza delle idee, e degli indirizzi critici, della ‘visione’ storica che qui si organizza, i quali sono frutto di studio e di riflessione culturale cumulata nel tempo, ma – come ho detto – all’andamento, all’atteggiarsi ragionativo e mimico della scrittura, nella lunga sequenza di queste pagine. Dove perciò, compatibilmente con la ‘severità’ dell’opera, l’autore ha pure versato in qualche misura emotivamente se stesso, con movenze credo coinvolgenti per il lettore, nella prevalente difficoltà del testo: e non importa se alla miopìa di qualche giudice-maestro del quarto d’ora accademico o giornalistico possano eventualmente riuscire inapprezzate o deprezzate, per le ricorrenti morsure poco accademiche, una infezione che qualcuno non perdona.

Infine una giustificazione del titolo generale di questi volumi, che accompagnano e introducono le sezioni del Novecento e che, pure dovendo osservare un impegno di informazione culturale possibilmente più larga, non sono una sintesi storica che io ricuso per metodo, in parte sono una doverosa esposizione di fatti letterari, principalmente sono una ridiscussione problematica fornita di analisi testuali, coordinate a una costruzione storica ulteriore.

Dovrebbe essere chiaro sempre che il titolo sul frontone di un libro, se non è – come pure succede – una dilatazione incongrua rispetto alla povertà dei materiali, è al contrario in libri spessi e di ampio tracciato storico, come questo, una estrema semplificazione rispetto a una materia critico-tematica molto complessa. Un percorso – dicevo – che attraversa un intero secolo, e quale secolo, della storia culturale e civile italiana. L’insegna schematica della "avanguardie letterarie" ha valore indicativo determinato, nella sua centralità tematica, come indirizzo storico generale, in una revisione di canoni che riguarda pure personalità poetiche o gruppi letterari e movimenti politici che, per ispirazione culturale, rappresentano livelli di azione diversi, anche oltre le specifiche aree 'eversive' dei movimenti di avanguardia riconoscibili.

E’ però una storia strettamente legata, che non può esserne disciolta, e che doveva essere programmata in questa prospettiva maggiore, a rischio di dotarla di un contrassegno di "avanguardia" estensibile, che teoricamente nego. E per es. è motivatamente fuori di questa visuale, al di là della intenzionale devalutazione commisurata alla enorme ipervalutazione corrente nella storiografia letteraria, una rivista ‘borghese’ di discussione politico-culturale come "La Voce", che ha invece larga trattazione nei volumi monografici di questo Novecento. E qui pure si ritroveranno solo in parte i "maggiori" poeti e narratori italiani del secolo, che saranno oggetto di interesse ideo-tecnico specifico in altri volumi, già predisposti, che dovrebbero seguire in tempi sperabilmente ravvicinati.

La visione che sovrasta è quella di una intenzionale rivendicazione di relativa autonomia e di storico parallelismo, rispetto al quadro egemonico europeo a cui si rapporta per una "linea italiana" provvista di caratterizzazione storico-culturale propria. Una storia che, nelle sue punte più creative e negli impulsi tendenziali, pure tra le difficoltà socio-politiche, appare complessivamente ricca e direi ‘concorrente’ a livello europeo, non subalterna né quindi "provinciale". Constatazione che risulta all’evidenza, se solo si riesca a osservare nel 900 europeo, superando per es. il mito perdurante di un universo franco-centrico, una trama di interrelazioni culturali più sottili, nell’autonomia storica delle rispettive culture. E’ perciò che, con particolare insistenza e mordente, qui si mira a contrastare le abituali tendenze alla "subordinazione", che sono in realtà molto meno dei poeti, semmai prerogativa culturale quasi ambita di certa critica, che vi maschera la propria arretratezza.

Una tesi fondamentale e polarità strutturale dell’opera è quella che concerne la sincronìa storica delle "Avanguardie" nelle arti e nella letteratura con le "rivoluzioni" scientifiche tecnologiche epistemologiche del secolo. Questo nesso stringente è largamente argomentato e confermato dialetticamente, attraverso una spaziosa discussione storico-teorica su scienza e filosofia, scienza e arte, "scienze umane" e "scienze sociali", psicanalisi e letteratura, "fantasia" e "realtà" nell’immaginario, strutturalismo linguistica semiotica ecc.

Ma nel quadro storico-culturale italiano, il secolare decorso problematico attraverso le "avanguardie" letterarie non è meno significativo per i nessi strutturali di cultura e politica, a partire dai fermenti ideologici e dalle inquietudini esistenziali dei giovani poeti e artisti contestatori, nei primi anni dell’Unità italiana, fino alle contestazioni studentesche del ’68 coi loro riflessi politici e contro-politici agitati, le cui ripercussioni drammatiche nella vita pubblica del Paese perdurano ancora oggi.

Si tratta quindi di una chiave di lettura essenziale che, nella sua centralità culturale e nelle sue larghe irradiazioni ‘ politiche’, si rivela ricca di prospettive concettuali nuove. Utili comunque per la intelligenza storica di un secolo di trasformazioni radicali e crisi profonde nella cultura e nella vita quotidiana, e di "continuità" così disperanti sempre nella prassi politica, nella difficoltà e impotenza a seguire il passo del cambiamento. E s’intende per una possibile crescita di vita ‘civile’ prima che ‘economica’, non certo per la discesa auto-distruttiva dell’ "uomo sapiente", che ci può coinvolgere oltre i limiti mortificanti della società italiana.

Devo per ultimo un ringraziamento molto vivo agli autori qui seriamente discussi (di cui qualcuno frattanto scomparso), e senza i cui libri l’ "animazione" critica di questi capitoli, non il loro ‘disegno’ storico-culturale, sarebbe altra o probabilmente non sarebbe.

(giugno 1986)

Come dicevo, in questa opera così impegnata a contrastare tradizioni critiche apparentemente consolidate, e massivamente costrutta quasi a inibire una leggibilità più agevole, numerosi protagonisti e attori concorrenti della critica italiana e della cultura contemporanea europea sono seriamente, forse anche severamente, confutati sui testi. Lo sono senza il privilegio di nessuna autorità istituzionale, di cui da tempo mi sono dis-armato volentieri, ma con quella libertà di giudizio che conferisce indubbia autorità morale, nell’esercizio del diritto-dovere di critica, di convalida o rimozione dei concetti ereditati, tanto più sospetti quanto più diffusi per ricezione pubblicistica o scolastica. Questa opera storico-problematica col suo spessore di critica rigorosa e coi suoi spazi e giri d'orizzonte pluridisciplinari, qualcuno dice in eccedenza "enciclopedici", è indubbiamente una sfida quasi intemerata alla attenzione protratta oltre lìmite, finanche dei lettori più provveduti. Figurarsi alla spessa coltre del pregiudizio, della iterazione passiva nella generalità dei lettori orecchianti pure su cattedra o pulpito, che dovrebbero proporzionalmente ammaestrarsi prima di arrogarsi il magistero su tanti (o pochi) giovani e meno giovani apprendisti.

L’opera sembra infatti scontrarsi (o generare scontri) normalmente in ostacoli di due ordini, procurando anzitutto il comprensibile "sgomento", non solo di "lettori comuni" desiderosi di informazione culturale, ma anche di colleghi non-lettori professionali, attratti come tutti dai rivoli più agevoli della produzione critico-pubblicistica corrente, e bloccati dinanzi al fiume in piena affluente in questi gonfi testoni rossi. Che paiono premeditatamente frustrare ogni tentazione eventuale di facile e rapida consultazione sugli indici, di lettura corsiva fra premesse e conclusioni generali.

Ma di più chi si addentra nel folto di queste pagine, s’intrica in una inattesa sintassi critica confutatoria, sempre serrata e come implacata in tanto percorso, che è inconsueta e infine disagevole negli studi letterari e in genere storico-culturali, specialmente estranea alle convenzioni rituali della scolastica "umanistica". Più che rara eccezionale in tale vasto dispiegarsi, in azione continua ‘tecnico’-dialettica, di una energia destrutturante che costruisce ipotesi interpretative nella invalidazione, improntandone concettualmente il discorso critico e l'articolazione storica nell’intera opera. Su questo essenziale aspetto logico-linguistico che, colpendo immediatamente il lettore ansioso, può suscitare resistenze mentali e alla lunga equivoci per malinteso, occorre io formuli un chiarimento teorico generale che mi era apparso in origine superfluo.

Dovrebbe essere comunemente noto, anche fra i maestri di letteratura, che in altri ambiti culturali di riflessione para-scientifica la discussione critica è uno strumento logico-dialettico irrinunziabile. Io sono mortificato più che sorpreso della generale ripugnanza, almeno fra i più numerosi ‘docenti’ scolastici, a capire che la critica in quanto ‘giudizio’ è ‘revisione’ e ‘discussione’, quindi in termini logici negazione dialettica (dell’altro), prima che e nel suo stesso costituirsi come affermazione (di sé), nel suo farsi e darsi come testi/ipotesi e giudizio, non dogmatico ma esclusivo nelle congetture nelle argomentazioni nelle convalide oggettive ricercate, che formano il progetto e processo di interpretazione. Dovrebbe oramai capirsi facilmente, dopo tante analisi della logica scientifica, dopo Popper e malgrado il popperismo degenere nella sofistica sofisticante fino al clownismo (Feyerabend), la vitalità della confutazione dialettica, la necessità euristica della negazione nella ricerca, quale momento destruente e sùbito costruttivo della analisi critica. Dovrebbe intendersi l’efficacia attiva di una critica dinamica, praticata come discussione rimozione rettifica superamento, per la costruzione ragionante di tesi coordinate a una prospettiva ermeneutica, a una interpretazione di testi o eventi alternativa più che concorrente, che cioè nella sua mozione di ‘verità’ non può che proporsi come ‘ulteriore’, come ‘progressiva’ rispetto a tutte le altre.

Non è trascurabile credo la notazione che, nella massima parte, i colleghi "umanisti" sono intellettuali di servizio, di formazione scolastica e in genere istituzionale, oltre alle affiliazioni etico-religiose e ideo-politiche, quasi normalizzate anche nell’"Occidente cristiano". Pochi professori di letteratura hanno una predisponente educazione laica o laicistica (che io radicalizzo estensivamente in ‘ateistica’) alla critica come correzione continua dell’errore dimostrabile, secondo un abito davvero logico-‘scientifico’ quale si pretende, alla invalidazione preventiva rispetto a ogni scelta euristica. Se ci si mette a ricomporre il quadro degli indirizzi almeno tendenziali, prevalenti nella critica contemporanea, e oramai prodotti esclusivamente nelle strutture della scuola universitaria, non escluso il servizio para-editoriale del contemporaneismo pubblicistico, si è sconcertati dal riprodursi mimetico di falsi metodi "scientifici", proprio in antitesi alla vantata pluralità dei "metodi", nella accoglienza ideale di rozze sofisticazioni tecniche, socio-strutturali o semio-linguistiche ecc., malsorrette da improvvisazioni teoriche astruse più simili a prodotti retorici impersuasivi, di chiesa o di schola appunto. Ecco già allora, in questa opera di critica storiografica, il senso di contrasto oppositivo su cui si fonda producendosi lautamente, benfuori delle macchinose teorizzazioni ermeneutiche e dei sistemi pseudo-tecnici correnti, sulla tecnica revisionale del confronto (Popper direbbe "controllo") logico-dialettico, applicato alle ipotesi teoriche nella elaborazione formulante e convalida delle teorie scientifiche.

Fuori d’Italia qualcuno ha scritto in lingua francese, sulla rivista "Les lettres romanes" ossia romanze, che questa mia enorme decostruzione confutatoria sarebbe una "tabula rasa", un "joyeux dépoussiérage", come una gioiosa spolveratura quasi dadaistica, che potrebbe pure accordarsi col mio professato anarco-radicalismo culturale. Ma chi pronuncia nella scuola tali semplificazioni, pure con le migliori intenzioni, senza darsi la pena di chiarirsi esponendoli l’indirizzo generale e le motivazioni specifiche della destituzione larga che qui si esercita (e che altri accostumati riprovano, per es. in riviste tedesche che negano il contradittorio, come "Romanische Forschungen"), dovrebbe sapere che la "tabula rasa" è ben altro che uno spolverio, sia pure con l’aspirapolvere. E’ una integrale annichilazione di valori, non una prassi procedurale come questa, non un "metodo" d’azione critica confutatoria, sia pure imponente e inarrestata come è qui, per una costruzione revisionale impregiudicata e rilettura generale in progress della "cultura nuova" del secolo. Mi sarebbe piaciuto – era nel mio "orizzonte di attesa" – e sarebbe stato utile anche ai colleghi, che questa mole di confutazioni, coordinate in una ideologia della cultura di avanguardia, fossero a loro volta discusse nel merito. Ma nessuno in Italia e fuori si è sentito di affrontare neppure in parte tale impegno, preferendo – secondo un costume ecclesiastico – la caratterizzazione o la riserva generica, e molto più l’elusione la reticenza il silenzio, pure sui coinvolgenti problemi specifici e generali, d’intelligenza anche ardua, che qui si prospettano largamente aperti al futuro.

Con attinenza ai temi della critica storiografica, nei nostri più disagiati settori "umanistici", mi limito qui a osservare come nella teoria e nella critica della letteratura da tempo si persista, senza flessione e riflessione adeguata, nella pratica della ripetizione - retorica più che concettuale – scolasticamente corriva. Che può riscontrarsi nell’assunzione o "costruzione" di schemi teorici su dottrine già fatte ("scienze umane" ecc.), e nella adozione dei termini corrispondenti, sempre inesplicati nella loro funzione e necessità logico-linguistica: da qui la composizione astratta della sintassi del discorso su proposizioni enunciative mai giustificate e giustificanti, e mai date come formulazione di pure ipotesi quali sono sempre. Il lungo lavorio para-scientifico dei neopositivisti logici e dei filosofi analitici, sui fondamenti logico-linguistici del "discorso scientifico", eluso a lungo nelle "scienze sociali" e nelle stesse discipline psico-linguistiche, non ha mai sfiorato i teorici della "scienza della letteratura". Non è quindi mai entrato nella critica dei testi letterari, anche nei gradi illusivi di approccio tecnologico, strutturale e semiologico ecc., dove trionfa non a caso l’assiomismo metaforico più inevidente, più carente di probabilità di conferme altro che retoriche.

Non voglio anticipare discussioni che saranno amplissime nel III volume di questa opera, né intendo rifarmi alle luci di Linguaggio e verità di Ayer, o agli aforismi logico-linguistici di Wittegenstein, o alle pagine di Reichenbach sulla "logica moderna", o a Logica e grammatica di Quine ecc., tanto per fare qualche balzante cenno nominale. Ma avendone consuetudine di scelta matura (s’intende anche in ritorsione, come qui si leggerà), non posso negarmi ora un rinvio minimo a Popper, per es. al suo saggio-conferenza introduttivo di Congetture e confutazioni, intitolato "Le fonti della conoscenza", e al primo capitolo che dà il titolo a questa importante raccolta popperiana.

Dove verità e errore sono stretti in relazione procedurale, nell’esame critico dell’ipotesi congetturale, mediante il rigore della confutazione, che consegue la prova o "verifica" logica in cui può realizzarsi il superamento dell’errore. Nella metodologia euristica di Popper questo è il procedimento cardine, che consente il progresso della conoscenza non solo scientifica: e presuppone una resistente fiducia, che io condivido, nell’epistemologia cioè nella scienza come teoria e prassi della conoscenza, scienza del conoscibile, processo di ricerca sempre aperto della "verità" in tensione oggettiva, nella natura e nell’esperienza dell’uomo, nelle sue opere-azioni inarrestabili.

Fa specialmente riflettere l’insistenza con cui Popper ha tentato di estendere il suo metodo alle "scienze sociali", di accostare così i due mondi contigui e distanti, natura/oggetto e società umana, nell’astrazione epistemologica della sua ragione critica, nella concordanza supposta e auspicata del "metodo scientifico". Che Popper livella come "metodo teorico", deduttivo ipotetico selettivo ecc. – poiché "prova ed errore" sono pur sempre operazioni teoriche -, valido e applicabile "in tutte le scienze", naturali storiche "umanistiche" ecc. Bryan Magee (Il nuovo radicalismo in politica e nella scienza. Le teorie di K. R. P. , tr. it. Roma 1975, pp. 19 ss.), ha scritto che Popper credeva "che la conoscenza può avanzare soltanto mediante la critica. Questo lo porta a proporre la maggior parte delle sue idee più importanti nel corso dell’analisi critica di quelle [delle idee] degli altri". Viene così semplicemente riassunto il metodo "bipolare" popperiano, appunto per "prova ed errore", che ha forti e dichiarati riflessi politici di critica radicale "liberale" e democratica, di cui si lamenta la scarsa fortuna in una cultura egemonizzata "a sinistra", come in Europa.

La confutazione popperiana dell’induttivismo empirista è discutibile col suo neokantismo d’impronta, che la rende a sua volta confutabile per gli scarsi riferimenti alla tecnologia della sperimentazione. Ma resta valida come indirizzo generale la lezione metodologica, che pone "la scienza" come polarità epistemologica, riconoscendovi "una delle pochissime attività umane – se non l’unica – in cui gli errori vengono sistematicamente sottoposti a critica e, sovente, corretti con l’andar del tempo" (Congetture e confutazioni cit., p.371).

Pure nella distanza probabilmente insuperabile che separa la nota interrelazione complessa fra soggetto e oggetto ‘naturale’, e l’identificazione relativa fra soggetto e progetto umano, anche nelle ‘opere’ e nei ‘testi’ letterari, questa popperiana può certo essere una guida predispositiva alla "critica". Con l’avvertenza che il "metodo critico" per prova e errore non può esercitarsi ovviamente sui testi, non invalidabili e confutabili insé, nel loro definitivo esito di linguaggio auto-referenziale, perciò suscettibile non di convalidazione logica ma di descrizione tecnico-letteraria; deve esercitarsi sulla critica dei testi letterari, sulle sue ipotesi d’interpretazione ecc., oltre la lusinga di una critica concorrente all’opera d’arte.

Cioè se il "metodo critico" che Popper chiama "metodo scientifico", con la sua doppia polarità di congetture e confutazioni, per invalidazione e controllo, che si applica alla sola enunciazione teorica, e al dibattito fra le ipotesi scientifiche, può estendersi agli analoghi dibattiti nelle "scienze sociali" e storiche, così può riferirsi alle ipotesi critiche e storiche di lettura e interpretazione dei testi e degli eventi letterati. Non so se dia effettive garanzie "scientifiche", non essendovi certezza che ne possa dare nel controllo dei procedimenti nelle scienze naturali, ma credo possa valere intanto come norma autocritica, e come indirizzo etero-critico generale, in ogni campo di elaborazione del sapere, per la costruzione logica di tesi/ipotesi d’interpretazione.

In fondo Popper non ha inventato niente di sconvolgente: non si procede ugualmente in ogni campo indiziario per prova e errore, per ipotesi e tesi, per "congetture e confutazioni"? Intendo dire infine che, anche nella analisi critica dei testi letterati tecnicamente provveduta, e nell’interpretazione storica dei "fatti letterari", il metodo non velleitariamente scientifico ma semplicemente critico, il più ‘aperto’ e flessibile in relazione all’entropia della novità, all’anomalia autonormativa del testo, può seriamente fondarsi sul "controllo" logico-tecnico delle ipotesi sottoposte a confutazione, nei loro propri sostegni filologici, nella loro pertinenza linguistica, nella loro coerenza ermeneutica ecc.

E’ certamente una fondazione ‘metodica’ para-scientifica del discorso questa che, estesa alla critica e storiografia della letteratura, non lede né la specificità tecnica né l’autonomia procedurale della critica dei testi letterari, quindi non preclude seppure limita la pluralità delle letture possibili, dei criteri ‘sperimentali’, di analisi e degli indirizzi empirici di interpretazione. Tutto può infatti pluralmente ammettere, ogni tesi e ipotesi filologicamente e tecnicamente fondata, e in tali fondamenti anzitutto assoggettabile a controllo critico, fuori e oltre il globalismo metafisico dei massimi sistemi, dedotti dagli apriori imperialistici delle "scienze umane", come da fonti-luce di ‘ verità’ ideo-religiose.

Perché la critica letteraria non sia una esercitazione retorica perpetua, deve procedere da una ridiscussione della propria tradizione, sui soggetti e temi specifici là dove esiste, o comunque costituirla concettualmente in un contesto tecnico e culturologico (come io ho fatto per Villa). Infatti la "interpretazione", che è il fondamento tecnico-logico sia della costruzione scientifica, nella elaborazione dei dati sperimentali, dalle ipotesi empiriche e dalle tesi teoriche alle generalizzazioni legali, sia della lettura e analisi testuale, dentro e oltre il rigore della stesa filologia storica e letteraria, non dovrebbe mai sfuggire al controllo critico continuo delle ipotesi di lettura, nella 'logica' e ‘alogica’ strutturale del testo.

Giacché non è vero che le interpretazioni si addizionano senza fine nell’arbitrio illimitato della polisemia testuale, a meno che si degradi l’atto critico a sotto-produzione parassitaria, d’illusoria capacità concorrenziale o addirittura costitutiva del testo letterario, nel delirio strutturalistico di alcuni professori, invasi da violenza di scrittura riscrizionale. Se pure la critica letteraria pretende di autoregolarsi come disciplina ricognitiva, cioè comunque ‘conoscitiva’ coi suoi strumenti concettuali e tecnici, quindi anche parafrastici e mimetici e se si vuole coideativi, sempre all’interno dei ‘valori’ testuali non oltre né fuori, deve porsi nei limiti procedurali della elaborazione controllabile del proprio ‘discorso’.

Semmai si dirà una ermeneutica letteraria come "scienza dell’immaginario", su cui una critica dei testi letterari possa fondarsi in relativa ‘oggettivazione’, sempre nell’autonomia strumentale della lettura, mai potrà identificarsi coi procedimenti di teoria e calcolo e discussione critica della scienza sperimentale, relativi agli oggetti e fenomeni e processi naturali. Ma proprio in vista della possibilità di una approssimazione ‘scientifica’ consistente, l’auto-disciplina del suo linguaggio, della terminologia concettuale, della sua logica analitica ecc., implica ripeto una ridiscussione incessante nella stessa costruzione critica dell’ipotesi di lettura, non data apriori come assioma ereditato o autoimposto; una confutazione e magari giustificazione storico-culturale degli "errori", riscontrati nella tradizione immediata e nel contesto storico-critico latamente "contemporaneo".

Che non sopprime il pluralismo dell’interpretazione, ma lo sottopone a doverosa critica di resistenza confutazionale, esponendo se stessa alla medesima prova di resistenza nella discussione altrui. Solo con tale assunzione di "metodo" potrebbe proporsi come libero procedimento para-scientifico, augurabilmente nonpiù che una approssimazione ‘scientifica’, una combinazione cioè critico-immaginativa, tecnicamente auto-regolata e fornita pure di grammatiche e perfino di dati misurabili, ma ideativamente ‘aperta’ alla percezione intuitiva della ‘novità’, della eterogeneità, della ulteriorità stilistica del testo ecc. Facoltà ‘irrazionali’ che, attive anche nella "logica" della ricerca scientifica, tanto più risolutivamente lo sono e si spera siano sempre nella analisi e interpretazione dei testi letterari.

Ma è un esercizio logico-intuitivo che, superando l’individualismo della sensazione, del ‘gusto’ soggettivo, del momento emozionale ecc., nell’atto di razionalizzazione critica, a sua volta si espone nell’ipotesi e tesi critica a successivi esami e prove di resistenza, a discussioni corroborative o confutatorie. E’ un vaglio di convalidazione o invalidazione critica sempre, che precede (o dovrebbe) ogni intervento ulteriore, nel discorso continuo in cui consiste l’elaborazione critica sempre, in ogni ambito e grado di intervento culturale, non esclusi quelli, come la critica testuale e la storia della letteratura possibile, in cui il grado di autonoma concorrenza dell’interpretazione sembra il più ampio e finanche illimitato.

Ecco dunque la capillare trama confutatoria, del tutto funzionale come credo, nei suoi quadri strutturalmente lavorati, di questa opera impressionante per l’asfissia corrente negli studi letterari, e che è sempre ugualmente propositiva. Il mio ‘metodo’ confutatorio può accostarsi – per chiarificazione storico-analogica – a quello di Popper, ri-generato per propria necessità e urgenza autonoma nello studio letterario e in genere storico-culturale, che io pure vedo largamente (ma solo metodologicamente) correlato con gli indirizzi filosofici-euristici delle "scienze umane". Ne confermano il rigore qui le mie critiche rivolte a Popper stesso, e le mie abituali riserve sulle volgarizzazioni sedicenti "democratiche" della cultura di massa.

La fondamentale affermazione popperiana che "ogni conoscenza progredisce soltanto attraverso la correzione degli errori" (op. cit. p. 6), e che questa è l’essenza del "metodo critico", organo della ‘verità’ scientifica, delle sue possibili approssimazioni, offre un criterio di fondazione del "metodo" destitutivo-costruttivo che è alla base di questa pluri-struttura critica, ostica nella enorme misura dei pregiudizi ‘sistematici’ resistenti nella critica e storiografia letteraria. Che qui è quasi scandalosamente – per la inammessa prevaricazione culturologica negli spazi di competenze interdisciplinari – intramata in una critica generale della cultura contemporanea, nei suoi complessi snodi relazionali.

Ma è così che, con approssimazione a una metodologia "scientifica", qui si pone in tutta evidenza il grado di opinabilità ("falsità") o verità relativa, di resistenza cioè alla contro-dizione argomentata, di tante dottrine pseudo-scientifiche dette "umanistiche", che circolano largamente (franando impunemente) nella cultura internazionale. E che io vedo come tasselli e derivati o ramificazioni delle grandi religioni mitologiche e filosofiche millenarie, tuttora sopravviventi monolitiche, con pretesa o certezza d’immortalità, sovrastanti i diluvi culturali dei secoli moderni, le rivoluzioni copernicane della scienza sperimentale, le straordinarie trasformazioni dell’habitat e della ‘vita’ dell’uomo, nella faticosa trafila dell’ateismo contemporaneo.

In questo profilo metodologico generale, il critico di lingua francese (Laurent Beghin) e altri lettori sarebbero pure motivati nell’impressione globale di una "tabula rasa" solo strumentale, nel loro essere cioè colpiti da una critica radicale che costantemente si adopera alla ‘verifica’ dei concetti ereditati, con un doveroso abito revisionale. Una critica che, senza mai derogare possibilmente da tale norma-guida razionale, si dà a comporre più concreti indirizzi "storici", dei fatti letterari, rinunziando e anzi ripugnando nel suo empirismo da astratti "modelli" predisposti, e quindi da ogni convenzione costruttiva di ambizione ‘sistematica’.

Sottostà infatti a questa complessa e vasta operazione ricognitiva, e di obbligata rimessa in discussione generale, il rigetto di una "storia della letteratura" organizzata in blocchi e strutture edificabili, prefabbricate con falsi "concetti storici", fuori della fenomenicità delle azioni e delle produzioni testuali, e della trama imponderabile delle relazioni attive nei corsi e ricorsi epocali.

(luglio 1991)

www.giannigrana.it

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Aggiornamento: 26-04-2015