Gianni Grana: AUTOREFERENZA CRITICA

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GIANNI GRANA

DIOMORTO

AUTOREFERENZA CRITICA (1979)

LA COMPOSIZIONE. Considero un rito patetico o irritante, secondo gli umori e secondo i casi, l’intervento prefatorio di estimatori e amici provvisti di un qualche "prestigio pubblico"; ma ritengo invece doverosa una dichiarazione di intenti, di modalità tecniche ecc., fornita dall’autore stesso, come qui mi accingo a fare pure in eccesso, rispetto alle consuetudini. [E’ solo una consolidata ipocrisia rituale quella di astenersene, per lasciare alla critica una pretesa "autonomia di giudizio", che non può avere perché sempre la novità testuale la trova impreparata e disorientata, bisognosa di indirizzi].

Questo non è uno dei mille libri di poesia che Montale diceva, forse per difetto, pubblicati ogni anno in Italia, e "molti dei quali hanno caratteri di indubbia dignità". Mille o diecimila, tanto meglio, questo non è uno di quei libri di poesia, vorrebbe esserne semmai l’antitesi o almeno il "diverso", magari da emarginare e forse non ci riuscirà. Questo è il risultato parziale, e necessariamente selettivo, di trentanni di accumulo verbale sofferto nel privato, cioè originato da malori sociali e d’esistenza propri dell’autore, seppure largamente condivisi: così da formare una specie di quadro clinico, neuro-patologico, del malessere esistenziale e pubblico nel tragico-grottesco della nonvita italiana contemporanea, una specie di diario del fallimento quotidiano del l’uomo nella perdurante "civiltà cristiana".

Perché scrivere versi, perché scriverne nei momenti dell’ira e dell’impotenza? domande superflue, si scrive perché preme di scrivere, preme la tensione neurotica di dire, la necessità di opporre alle violenze patite parole scritte, oltre quelle dette e ridette e magari contraddette urlando, come gesti di testimonianza sofferente e protesta, di odio disamore disperazione: gesti contratti, raggrumati in parole in qualche modo capaci di trasmettersi significando, cariche di emotività vitale, di espressività drammatica. Non una verbalità analgesica quindi, ma un’azione e reazione che si scarica per esprimersi e comunicarsi sulle parole, come in altri casi – per quanto mi riguarda, con analoga disposizione psico-mentale se non procedurale – si adopera su oggetti e materiali, che la mano compone in immagini intensamente drammatiche, sfruttando la stessa espressività fisica, morfologica della materia.

Questa è l’antitesi, la negazione di una genesi letteraria, anche se non garantisce affatto di essere immune dalla letteratura, dalla schiavitù retorica, nei prodotti verbali di un uomo comunque dedito alla letteratura tutta la vita. Mi sembra però si possa riconoscere che questa specie di versi o ritmi verbali, di parole cariche di energia linguistica, di concretezza a volte quasi fisica – come dirò -, non escludono la metaforizzazione lirica, ma riducono al margine la simbolicità semantica della mirifica immaginazione analogica, preferendo la parola semplificata della comune nominazione e del sentimento gravido di realtà. Per questo non vantano, non richiamano ascendenze, "linee" e "aree" poetiche moderne, a ridosso o meno, a cui rifarsi; rifiutano il sospetto di lavorazione retorica o sperimentale, di "officina letteraria", anche se ovviamente sono frutto di "elaborazione", almeno quel tanto che valga a rendere più espressivo, nella dizione specifica il "messaggio" che vuole comunicarsi, proiettandosi oltre il momento della originaria pronuncia.

Ma per meglio chiarire, occorre che io accenni subito alla procedura grafo-visiva che definirei "omofonica", anche se il termine è poliguo. Dove la parola non è affatto "decantata", "immaterializzata" e resa lieve, fonetica cantabile o musicale, secondo quella blasonata tradizione classico-idealistica di "mistica della poesia", culminata in Croce, che neppure il futurismo è riuscito a scrollare e che, in degradi oralizzati semi-atonali, dissimulata perdura ancora. Qui invece la parola è come solidificata e aggregata, come dotata di concrezione fono-visiva, ottenuta mediante la semplice restituzione grafica dei nessi e raddoppi fonetici della pronuncia reale [pratica attenuata in questa revisione, per facilitare la lettura dei testi].

Una specie di riscrizione omofònica appunto, che forse dovrebbe generalizzarsi e che, comunque, per me non è affatto un espediente o una facile trovata sperimentale, ma corrisponde a una necessità di attrito verbale e di corposità fono-visiva, che mi si è affacciata spontaneamente negli anni, facendosi abitudine grafica nella icastica e magari aformale forma-verso: si potrebbe dire come un idioletto, che ha qualche affinità con le trascrizioni grafiche delle aspre fonetiche dialettali, anche e proprio nelle composizioni letterarie che si dicono poetiche.

Questa riscrizione dunque, che risponde al bisogno di energia verbale, richiesta dalla drammaticità dei messaggi e dalla stessa ideologia materialistica che li impronta, ha per me il beneficio di accrescere la resa plastica, senza esautorare la scrittura e svuotarla di senso con le note procedure de-sensificatorie, largamente in uso nel secolo tra avanguardie e neo-avanguardie "apoetiche". Prassi legittime che mi hanno occupato lungamente in teoria e storia, ma che contrariano il mio interesse e bisogno di dire precisamente quelle cose e non altre, proprio nel segno determinato della univocità ideologica di senso, possibilmente non ambigua né equivoca dunque né disposta a regredire e a riprodursi in una polivalenza intenzionale di significati.

Questo tipo di grafia infatti vale pure, in qualche misura, a ridire la frase con effetti di tensione fono-visiva insoliti, anche imprevisti, di vigore in certo modo reinventivo, in senso letterario e anti-letterario. Ho accennato alla trascrizione grafica dei dialetti e questo procedere può apparire linguisticamente regressivo per evidenza "realistica", o se si vuole "iperrealistica", rispetto alle tradizioni di simbolicità classiche e moderne; e qualcuno potrebbe pure evocare certa tradizione italiana "realistica", dai primi secoli al dialettalismo più recente, in particolare per certe assonanze o mimesi fonetiche con dialetti forti, come il milanese popolare di Porta e il romanesco plebeo di Belli. Ripeto, è esattamente l’energia necessaria a questa pronuncia verbale voluta dell’italiano: alla parola-oggetto scàrica, spinta ai limiti del pseudo-visivo, preferisco la parola in azione caricata di senso con effetti fonici fortemente timbrati.

Ciò è evidente nell’inasprimento anti-eufonico dei suoni, che risponde a una intenzionalità ideologica omologa, e che spesso vale a rendere in qualche misura nuove, nel senso proprio della energia fonetica, della densità e plasticità, parole comuni del linguaggio corrente, sempre nell’impulso necessario di significare, di registrare e testimoniare quelle determinate cose da dire. Quindi l’eventuale "regressione" realistica o neo-naturalistica - e meglio si dovrebbe parlare di "astrazione realistica" – è necessaria perchè conforme all’ideologia e ai contenuti di "opposizione", e proprio nella specificità del blasfemo e dell’osceno, del turpiloquio non solo verbale ma più ideologico, secondo le qualifiche censorie del potere cattolico-borghese, anche "di sinistra".

Sono i temi fissi della mia pronuncia tenacemente apoetica: e non avrebbe senso una energia verbale così determinata, senza la libertà di dire le verità meno grate, mettendosi in tensione antagonistica anche con la immediatezza del dire comune. Non vedo del resto perchè, ancora oggi dopo un secolo almeno di "avanguardie", la letteratura si dovrebbe auto-limitare alla poesia, a tornire o levigare "parole tra noi leggere", parole come astrazioni di segno, con esclusione di tante "parole trannoi pesanti", con la materialità di parole-cose di cui tutti facciamo uso corrente in privato e in pubblico, a livello popolare e borghese e in ogni strato sociale. Se una cura ho avuto nella scelta di questi versi-ritmi – con poche deroghe intenzionali - è stata quella di detrarre o tenere possibilmente fuori quanto sapesse di "formalizzato" "rifinito" "eufonico", versi inutilmente scritti e riscritti anche più volte, tutto ciò insomma che fa ancora il "pregio" formale della poesia, eletta parola-spirito, e che spesso porta a sopprimere l’aspra vitalità della dizione originaria. Quel tanto di lima che hanno subìto questi versi è semmai nel senso dell’acrità essenziale, non dell’eufonia e pulizia.

Quanto alla fattura metrica dei versi come tali, qui intanto si vedrà subito che non sono disposti coi consueti accapo che per me sono un residuo classicistico, un abuso di spazi bianchi e di costosa carta, aristocratico privilegio della tradizione poetica, non più ammissibile io credo. E' comunque coerente che questa apoesia di vocazione vi rinunzi senza soffrirne, accontentandosi di affidare a brevi spaziature la pausa fisiologica del verso. [Nella attuale ricomposizione revisionale al computer, invece, l’adozione tecnica dell’ "allineamento al centro" ha imposto il ripristino dell’incolonnamento, che restituisce la consueta rassicurante lettura dei testi versificati]. Qui la metrica normativa è ovviamente esclusa, come l’interpunzione – non per abusata stranezza ma per "estraneità" - semplificata la struttura sintattica, ridotta a una specie di paratassi, di proposizioni coincidenti quasi sempre con la misura del verso, in sequenza breve o lunga, nominativa e dichiarativa, con scarsa subordinazione, pochi enjambement ecc.

Resiste però una andatura metrica con cadenza sincopata, naturale e "involontaria" ma inevitabile: voglio dire un appoggio fonico-vocale, tonale e atonale, anche nettamente ritmato, e non importa come determinato, se da vizio di lettura poetica o da abitudine di dizione formata negli anni, comunque indotta e non resistibile, sempre per bisogno di contrazione, di erezione linguistica.

All’interno di questa che direi una sorta di azione verbale ritmata, riaffiorano anche metri canonici e cadenze classiche, e perfino rime interne e esterne, che non ho creduto di dovere scomporre e sopprimere con interventi di laboratorio – come sarebbe stato facile – in misure decontratte o sregolate, ma che piuttosto ho utilizzato e sfruttato spontaneamente, anche con effetti mimico-parodici, come costrizione ritmica per dire con più tesa e intensa animazione. Tanto è vero che questa cadenza, sia pure rallentata per distensione, è ineliminabile anche nelle mie pagine che si dovrebbero annettere alla narrativa, come si può vedere anche qui, in un raro saggio in fondo al volume.

Al contrario, a me pare che molta apparente versificazione poetica contemporanea, così frazionata in accapo, abusando di spazi bianchi e stacchi esterni, non abbia realmente nessuna interna giustificazione ritmica, se non puramente discorsiva, cioè spesso non sia che un discorso sintattico continuo, spiccatamente razionale e insomma prosastico, che si finge senza necessità una cadenza versificatoria.

Ma qui non è esclusa affatto una varietà relativa di a-strutture metriche, dalle più contratte e martellanti alle più distese e discorsive, ai frammenti isolati o tolti via da testi più ampi, in relazione a diverse fasi cronologiche e a diversi momenti di impegno a dire, dal lirico-drammatico grido di dolore all’invettiva, alla satira, dalla bestemmia alla riflessione sul mondo, dalla mistica erotica alla reiezione anarchica del potere ecc. Un orecchio esperto non mancherebbe di avvertire tecnicamente, e anche stilisticamente, tipi di cesura e di ritmo e di tono attribuibili al prima e al poi di una formazione, e io stesso avrei potuto comporre così una diacronia, un falso ordinamento, servendomi pure di riferimenti autobiografici che qua e là si possono cogliere.

Ma sarebbe stato appena plausibile se avessi pubblicato precedenti raccolte, in qualche modo obbliganti con la loro stessa fisica e datata evidenza: questo non era il caso, e qui credo superfluo darne altre motivazioni, ma il non averlo fatto offriva almeno il vantaggio di potere presentare in blocco una scelta revisionale piuttosto consistente, come prodotto maturo di un trentennio di azione e "concitazione" bio-verbale, non generata al tavolo nell’impegno letterario, ma intesa a comunicarsi e destinata prima o poi a essere resa pubblica, non certo come prodotto poetico ma possibilmente come "testimonianza autentica", nella sua forte necessità di dirsi, di farsi espressione trasmissibile. Del resto questa in-determinazione cronologica l’esigeva il tipo di "astrazione" etica-esistenziale che, anche partendo da occasioni non celate di vita privata e pubblica, punta a sensi più vasti e più generali destini, sempre.

Inutile quindi parlare della formazione del libro, che può apparire organizzato e costruito ma lo è solo in parte, nei limiti della casualità autodiretta e della ricorrenza tematica. Non poteva essere strutturato cronologicamente, perchè quasi nessuna delle mie carte, dei fogli e foglietti cumulati nel tempo, porta una data secondo il rito corretto dei veri poeti, anche minimi, candidati alla immortalità per il tramite secolare della critica storica, di cui trabocca il mio pluri-voluminoso Novecento marzoratiano. Pure volendo perdersi a cronologizzarle, dopo una vita spesa a scriverle, sarebbe impossibile venirne a capo, per la deliberata mancanza di "senso professionale" dell’autore in questo genere di scritture.

Del resto sarebbe inservibile, per chi alla Storia illustre non può credere e tanto meno ha ragione di credersi destinato, ma nella piccola storia c’è già come vivente, come cittadino e anche come scrittore-testimone, che risulti più o meno, negli archivi stipati e negli atti ufficiali della Poesia della Letteratura. Ma inutile anche per altre più sostanziali ragioni, e intanto perchè la parte più consistente di queste pagine versificate, almeno da un ventennio in qua risultano complessivamente abbastanza omogenee e "coerenti". Ciò mi pare risulti evidente, sia ideologicamente che come esito di scrittura, dentro uno spettro tematico e di stile che naturalmente si è fatto nel tempo.

Si evolve per es. nella radicalizzazione a-teistica, con un superamento relativo di tensioni esistenziali disperate, solo desolatamente individualistiche, e la crescente assunzione di movenze vocali che una volta si dicevano "gnomiche", cioè riflessive e didascaliche, satiriche e di cronaca evocativa, o dialogiche e direi di "militanza" ideale, nel confronto coi movimenti giovanili e con avvenimenti e oltraggi pubblici ecc. Ma come tale impegno non poteva correggere, attenuare o "consolare" il radicato nichilismo socio-esistenziale di matrice ateo-borghese, così non poteva sostanzialmente modificare, in senso evolutivo o involutivo, il carattere proprio di energia bioverbale nel soliloquio tragico-ossessivo, che qui si registra, dell’uomo con la vita e con la morte, con la natura sessuo-cosmica e col diomorto, sul destino di dolore e inganno, di contraddizione e detrazione, in cui si riassume la inconsolabile fatica neuro-patologica di vivere.

Così questa "silloge" (per i critici di scuola) garantisce disorganicamente il suo carattere informale, nel suo constare di brani in genere non titolati, assemblati in numerica sequenza, rifiutanti un faticoso ordinamento esterno e interno [carattere molto attenuato nella attuale riedizione, dove una pluralità di titoli riaffiora e un intento ordinativo nel generale intramarsi tematico credo sia abbastanza palese] pure nelle sue frequenze tematiche. I sottotitoli premessi qua e là a partizioni solo parventi non corrispondono perciò a sezioni, a cui sembrano riferirsi, ma più o meno con uguale diritto sono indicazioni tematiche generali riferibili a ogni altra sezione.

Una deroga ho creduto di fare, oltre che per la pagina iniziale di "apoetica", per alcune decine di composizioni [raccolte ora col sottotitolo Missa est nell’ultima parte di questa riedizione] che più espressamente hanno carattere gnomico-ideologico di moralità militante", e valgono a rendere esplicito il "contesto" anarco-ateistico della intera opera. Che tutta internamente s’intesse, come alternativa e ritorno tematico ossessivo nei brani liberamente intramati in apparente spontaneità sequenziale. Ritorno e variazione continua di costanti tematiche infine abbastanza normale, anche in libri di poesia conclamata, perché non è affatto vero, come diceva il vecchio Montale, veneratore di classici, che la poesia "non si ripete": una tesi peregrina smentita da lui stesso e da quasi tutta la "lirica moderna", da Petrarca al petrarchismo perenne.

Davvero la letteratura è un esercizio che non mi diverte, e che come gioco anzi detesto: fuori delle occasioni del mestiere, lo scrivere m’impegna sempre integralmente come agire e vivere, cioè non è mai una dilettazione ma sempre – letteralmente – un impegno attivo dell’uomo, come le stesse scelte risolutive e un po’ sacrificali della mia vita slegata attestano.

Detesto la vacuità ricercata dei fraseggi misteriosi, non so capire una vita intera spesa a nondire, con un fiume inarrestabile di verbalità negata e riaffermata, come Villa, anche se in questa medesima follìa, in questo eccezionale caso, perché estrema e quindi rivoluzionaria, nella ossessione eversiva globale del linguaggio, riconosco il segno della grandezza. Però rifiuto l’esercizio maniacale della lingua e dell’antilingua mitizzate: per me la lingua è strumento di pronuncia e azione quotidiana, parola comune sottratta all’oppressione.

Ecco, questo solo può veramente spiegare perché io - immune da timidezze e sensi d’inferiorità – abbia prima respinta a lungo, poi differita continuamente e infine risoluta l’assunzione della responsabilità di rimettere le mani sulle mie carte per una destinazione pubblica, che richiedeva almeno una ulteriore attenzione tecnica, se non una "rifinizione" letteraria, per un sia pure scarsissimo "consumo".

Ecco perchè mi sono risolto senza nessuna sollecitazione, altro che della mia "coscienza", etico-critica e politica quando, intimamente coinvolto nel vitale scotimento delle contestazioni giovanili, è prevalsa in me una riconsiderazione ideologica e – come io dico – di "militanza" ideale, di questa lunga e tormentata testimonianza di verità e di vita, come itinerario all’ateismo.

Da qui, nel rifugio dove mi sono ritirato a vivere, la decisione di comporre questa "raccolta" per offrirla quasi clandestina (fra tante ponderose mie pubblicazioni "di cultura" circolanti nel mercato editoriale), fuori dei pure limitati circuiti commerciali del consumo di poesia, ai giovani compagni e non, ragazzi e ragazze come le mie figlie, e anche ai più vecchi "giovani" intellettuali e no. Il suo indeliberato messaggio, i cui motivi tematici anche esistenziali sono pur sempre drammaticamente attuali, mi pare che per ciò possano valere e forse perfino durare per gli altri. Insisto a proporre questo – può darsi illudendomi – come un "severo libro" di moralità laica, senza escludere il valore inseparabile del linguaggio, e senza precludere una improbabile ma possibile sopravvivenza futura di questo libro come di altri miei, quindi l’inevitabile sommario giudizio dei tecnici.

Ai colleghi sono destinati i chiarimenti tecnici già forniti, a evitare facili equivoci, ma con questa altra avvertenza, che per le ragioni accennate il libro deve essere valutato unitariamente, senza distinzione preferenziale di livelli tragico o comico, umile o alto, satirico o didascalico, come un insieme malgrado tutto (a)poematico, pure nel rifiuto di strutture "organiche", un libro unico e direi totale per "coerenza" e continuità, dove tutto appartiene alla medesima necessità, direi anzi con fissità d’impegno, di temi e urgenze e impazienze di pronuncia.

Quindi non è lecito e sarebbe arbitrario isolare e staccare questo o quel momento, formulando parziali giudizi di valore e graduatorie di riuscita, e soprattutto espellerne le provocazioni ideo-verbali, con la solita censura cristiano-borghese che nasconde in ragioni di gusto e reiezioni moralistiche il rifiuto ideologico. Tutto essendo necessario, concorre ugualmente a fare il libro come è, come ho voluto che fosse e apparisse – e potrebbe "apparire" anche diversamente, restando inalterato nella sostanza e nella sua stessa fisiologia -, non come piacerebbe in ipotesi smembrarlo e frantumarlo, a suo gusto pregiudiziale, all’uno o all’altro critico-lettore di mestiere, secondo i suoi schemi fatti nel mestiere pubblicistico e/o scolastico.

Concludono diomorto pagine "narrative", in questo solo caso databili, che risalgono al fatidico ’68, e che non sono – come potrebbe sembrare – una sorta di delirio letterario, ma anzi sono un "racconto reale" e iperrealistico della nonvita, dannazione e morte di una vegliarda, surrealizzato [non per gusto sado-masochistico, come impropriamente si è detto, ma] per acre deturpazione con l’insistenza e variazione abituale sul nero e sui prediletti registri cupi, che ne fa una specie di condensazione tetro-comica dell’arcata allegra della vita, quasi come sintesi ideo-tematica dei versi qui raccolti, precedenti e seguenti alla stesura del "racconto".

Un suggerimento infine per l’approccio iniziale del lettore, oltre lo scontro poi superabile con un minimo di assuefazione: la pazienza di durare magari rileggendo e, specialmente quando la composizione ha estensione maggiore, di seguitare con fiducia fino al termine, dove quasi sempre si scàrica l’energia linguistica, con scatti e sorprese inventive che forse compensano la pazienza del "lettore comune". Intendo quello incorrotto dalla sbrigativa critica giudicante, dei "colleghi" che – in genere inibiti alla poesia – però da "lettori esperti" sanno cos’è la vera poesia, e così sia.

L’IDEOLOGIA. So già per esperienza che in maggioranza essi, inevitabilmente, leggeranno anche in questo libro solo quel poco che hanno in testa, per loro formazione accademica e pratica pubblicistica: sì o no barlumi di placata poesia, di ebetudine catartica, detratti la passione, l’urto, l’incazzata, la polemica, la politica. Devo per questo sollecitare di proposito l’eventuale lettore critico a una corretta e, se si vuole, contrariata attenzione ideologica complessiva, irrinunziabile per una apoesi concettualizzante, di spiccata nutrizione filosofica, come questa che poggia su una "visione globale del mondo". Senza una doverosa correlazione fra immagini e contenuti ideologici, i fraintendimenti sono davvero inevitabili.

Per esempio, è chiaro che qui le raramente "liriche" e più spesso "riflessive" intuizioni cosmiche o cosmologiche, ispirate a una ideologia materialistica, non hanno niente in comune con l’ottimismo mistico degli orfici cristiani fedeli dello Spirito, ma anzi credo siano in netta antitesi, poggiando quasi sempre su nozioni scientifiche, per valere in genere come termini di confronto negativi con la finitudine della vita umana e le follìe mondane dell’uomo sciente, sullo sfondo vero dell’oltre-nulla. Così pure non può confondersi con la poesia erotica borghese di società repressive, questa apoesi austera, là dove ideologizza il sesso, celebrando il corpo secondo una "liberatoria" ideologia pansessualistica, opposta alla mistificante, disastrosa ideologia spiritualistica dell’anima immortale.

E’ vero che oggi si parla molto di corpo e di sesso, ma questo generalmente ha poco a che vedere con un’autentica appropriazione ideo-culturale della integrità corporale e della centralità del sesso. E spesso negli stessi "laici" è atteggiamento ambiguo, tattico e opportunistico, mentre l’ancoraggio resta la sessuofobia cattolica e laico-borghese, anche fra compagni "rivoluzionari" e compagne "femministe": tanto più nell’attuale "riflusso" che si tenta di accreditare e favorire.

Sono convinto che la storia dell’uomo si può fare senza ognuno di noi, nessuno escluso, e che molto probabilmente si farebbe pure senza tanti vani torturatori di parole. E nondimeno la storia si fa anche con noi, e certo si dovranno fare i conti prima o poi con queste pagine gravi dove, aldilà delle matrici filosofiche classico-moderne, leopardismo ideologico e pavesismo esistenziale, sono come innati e nonderivati, essendo qui rifiutata in blocco la "lezione poetica" tradizionale della forma estetica, celebrata dalla cultura critica otto-novecentesca.

Si dovrà infine consentire con questa disperante monodia, funebre, rovente, ghignante e forse anche turpe, al gusto letterario borghese, comunque di energia ideo-verbale certamente insolita – ho ragione di credere – nella profusione dei cesellatori di versi e non-versi di lingua italiana ieri e oggi: per propria necessità di revulsione etico-religiosa, in questa sorta di itinerarium contra deum. La stessa iterazione variata di uno dei Leitmotiv di diomorto, quello del suicidio-azione risolutiva, oltre il richiamo all’esperienza autobiografica, si propone con evidenza come risposta drammatica alla alienazione rinsavita della "perdita del dio", alla caduta dei falsi dèi, una risposta ancora individualistica, la pulsione auto-distruttiva dell’istinto di morte, nel bruciore della coscienza "rivelata" dell’impostura e del disinganno.

Ma è una tematica "esistenziale" e "religiosa" che, nella sua "centralità", non si esaurisce in se stessa, avendo il senso prevalente di una specie di pronuncia-esorcisma quotidiano, come attestazione e protesta-rifiuto dell’esistenza violata, di un amordivita offeso e ribaltato in quella inesistenza che è la violenza del mondo. Motivi centrali e "universali" quindi, ideologicamente intricati alle altre e più terrestri e "mondane" linee tematiche, perché la contestazione e denuncia delle imposture pseudo-religiose è direttamente rapportata alla violenza degli dèi mondani, cioè del potere clerico-politico che delle mitologie ecclesiali si serve come strumento di dominio. L’ideologia anti-teistica e neo-anarchica si lega a una riaffermazione materialistica dell’uomo, nella dignità animale del corpo-eros, la cui appropriazione cosciente, partecipe della bio-energia universale, lo rende libero dalla servitù cristiana dello spirito anche razionalizzato come nella filosofia neo-idealistica europea, di false trascendenze tenute in vita per opprimere, quei miti utopici di falso bene mondano e oltremondano dove si nasconde la violenza attiva del potere. Non lo priva però della intelligenza, della ragione come spinta conoscitiva a trascendere il proprio limite, un limite-conflitto che il corpo ha insito in se stesso: il male, la malattia, la morte come sbarramento invalicabile.

Ecco allora, con la caduta nell’insensato definitivo, il ritorno circolare alla realtà tragica del caso, di una vita stretta fra due contingenze casuali incontrollabili nel loro risolversi, la nascita e la morte. Dati di violenza originari, segnati nella carne e quindi nella sorte dell’uomo, che qui non sono fonte d’inerzia e rassegnazione orientale, ma anzi di cupo malessere e di rivalsa blasfema, come torsioni ribelli dell’intelligenza tradita. Può darsi che questa "tragedia non necessaria" sia nella "tradizione occidentale", come scriveva Marcuse, ma ritengo sia frutto d’illusione socio-umanistica (anche marxista), e una semplificazione culturale inammissibile, l’idea che la condizione umana, il "destino tragico" dell’uomo, sia "semplicemente il suo destino nella società costituita", sia solo dovuto cioè "a ben precise istituzioni e ideologie sociali".

E qui non parlo ovviamente di trascendenza: c’è un altro livello, un piano direi d’immanenza naturale, la causalità e casualità meccaniche del male e della morte, forse insuperabili in qualunque cultura e assetto socio-economico presente e futuro, tranne che utòpico. Una contrarietà naturale che progressi conoscitivi e tecnologici istituzionalizzati possono attenuare e correggere, e che pure certe ideologie laico-umanistiche, e una recuperata "armonia" con la natura, possono rendere forse accettabile, ma che nessuna cultura nuova, nessuna tecnologia prevedibile potranno ribaltare come destinazione, assicurando all’uomo felicità e immortalità: anche se questo termine "liberatorio" sarà sempre la mira impossibile della "coscienza umana", come termine ultimo nella ricerca operosa della scienza sperimentale e come sogno attivo di realizzazione immaginaria nell’arte.

Non c’è dubbio che qui, in questa visuale della destinazione umana, lo sbarramento della finitudine individuale, che è anche solitudine e che nessuna solidarietà può vincere, prevale nettamente e è motivo martellante di lamentazione grave o beffarda. Sono queste le note più cupamente o acremente insistenti di tutto il libro, e sarebbe assurdo trovarvi ragioni di riserva umanistica, perché non lasciano un varco minimo all’ottimismo confessionale, non solo sovramondano ma pure socio-politico, per es. nei miti "progressisti" dei compagni vetero-marxisti. Quel limite-scacco per me, quella duplice causalità e casualità dell’inizio e della fine, sfuggenti al volere dell’uomo, alla coscienza responsabile di chi ne è soggetto, è un dato naturale immanente alla destinazione umana, che dovrebbe indurre a riflettere ogni momento ciascuno uomo e tutti insieme: dovrebbe indurre, per la difesa dell’uomo e della vita, a garantire negli assetti istituzionali e nella tutela pratica libertà e giustizia, a esercitare la tolleranza, a smobilitare gli arsenali, a sopprimere ogni forma di potere che non s’identifichi col servizio ecc.

La dignità e nobiltà teoriche dell’uomo, capace di elevarsi per ingegno nella conoscenza del reale, oltre che di esaltarsi nell’invenzione di fiabe miti utopie, falsi assoluti religiosi d’amore e di bene, a compenso del dolore e del male, sono tensioni d’altezza sempre costrette in questo limite naturale, non solo del singolo ma dell’umanità intera sicuramente peritura. I traguardi dell’uomo sbiadiscono se, anche solo per vaga intuizione, la mente si sollevi oltre i termini di questo piccolo "regno", così contrastato e minaccioso.

Cinquemila anni di storia, che affondano nel buio di una preistoria remota e incognita, e di un futuro a perdita d’occhio, sono solo un balbettìo anche culturale che, nei tempi lunghi dell’evoluzione, neppure è avvertibile appena fuori della sua orbita. Se poi fosse vero che il misterioso caso avesse riservato il discutibile privilegio di questo bene assoluto e insostituibile che sarebbe la Vita a questa pietra, o pure a mille altre, dell’illimitato formicaio o pietrisco cosmico, dove predòmina agghiacciante quella realtà oggettiva sterminata che è o sarebbe la nonvita, ma bene esistente là nella sua smisurata concretezza, si avrebbe diritto di domandarsi come ancora micro-cellulari, merdosi uomini di casta possano legittimamente pretendere di sapere per "rivelazione", di venirci a dire e di volerci imporre col loro massiccio potere mondano, e con l’accordo di tutti gli altri poteri, cosa è o non è divino.

Sì è vero, in questi versi prevalgono la patologia lucida della negazione, la maledizione, la pronuncia profanatoria dell’uomo contro la sorte oscura, dell’uomo dannato all’inferno del dolore e del male, della fatica e del fallimento, della pazzia e della natura-massacro, coi tranelli della morte sempre minacciante, del mondo violento che lui stesso si costruisce; e ugualmente dannato a volersene rialzare sovrastandolo e superarlo col sogno di un improbabile paradiso nel cuore o più probabilmente nel ventre.

Ecco, la trazione dell’amore-sesso, verso sé e verso l’altro, è la sola positività ingannevole di una vita tesa alla sopravvivenza, positività un cui l’uomo colma la propria solitudine, e anche stupenda nella scala dall’amicizia alla fraternità, ai culmini della passione corporale solo vero paradiso illusorio (fatto di umori acri e deliri di carne) che ci è dato, e che pare inibito alla maggioranza degli uomini e delle donne, perché contrariato frenato colpito storpiato e poi finito da pregiudizi, divieti e violenze imposti con coerenza criminale da chi ha potere politico-"religioso". Una possibile "liberazione" dell’uomo passa anzitutto per questo primario diritto dell’uomo, e fondamentale acquisto di auto-coscienza integrale, nella dignità umana del proprio e altrui essere corpo, vagina pene culo prima che bellatesta e insegna di bellànima. Positività ingannevole perché, nella costrizione dei fini e dei limiti naturali, comunque vince sempre alla fine la vecchiezza e la morte come destinazione ferrea.

Si direbbero questi il malore blaterante e la revulsione continuata di un Giobbe incazzato che detronizzi e ribalti i suoi dèi, avendone infine riconosciuta l’essenziale mistificazione, prodotto umano di patologia consolatoria. Un Giobbe uomo solo che, travolti i numi, è liberato dalla paura, scientemente ricadendo però nell’orizzonte sbarrato della comune sorte indecifrabile. Io stesso ho parlato di nichilismo, e in senso determinatamente "storico": voglio dire che per me ogni anti-filosofia nichilista rappresenta responsabilmente la faccia nera della verità dell’esistenza.

E non importa che ciò riesca duro a molti intellettuali burocratici di ogni confessione, i quali so già che hanno sulla penna i termini "decadente" o magari "qualunquista", e che non dicono null'altro che la loro inespressione. Questo libro non è il parto letterario di un "rivoluzionario" da tavolo, aspirante in proprio alla classicità della poesia, come qualche compagno intellettuale, che pure personalmente io stimo. Nella sofferta autenticità dei moti d’animo e di mente che li hanno detratti e formati, questi versi – torno a dire – sono o aspirano a essere soltanto una onesta e in ciò ardita testimonianza, di "verità di coscienza" senza compromissioni.

Non era mio interesse – l’ho detto – che questa apoesi fosse una poiesi d’arte, nemmeno in moduli antitetici di "arte rivoluzionaria", secondo la definizione che ancora Marcuse ne dava in Arte e rivoluzione, riferendosi alla "rivoluzione culturale" degli anni intorno al ’68: come voce di una "ribellione totale", come "linguaggio nuovo capace di comunicare la rivendicazione radicalmente nuova di una liberazione". Anzitutto perché qui la parola non si propone, non si cura affatto di proporsi come linguaggio "eversivo", che implicherebbe il necessario rapportarsi alla radicalità delle avanguardie storiche, trascurate o mal comprese da Marcuse, nella loro estensione storica e nella loro incidenza culturale profonda, come "rappresentazione" radicale del "cambiamento".

E però credo che, nel suo rifarsi invece a una tradizione contestataria e desublimante, borghese e "antiborghese", risalti ugualmente la potenziale radicalità ideo-linguistica di opposizione, che anima questo "messaggio" negativo, rivolto proprio – come diceva Marcuse – a una "trasformazione radicale dei valori", a "obiettivi di liberazione" dell’uomo oppresso da false credenze e dalle istituzioni repressive che le tengono in vita. E credo che da questo consegua pure la novità formale – già nella lingua corposa e ingrata per la contestazione -, in quella che insistentemente io chiamo l'energia propria della comunicazione verbale, di un’esperienza autentica di "rivolta" metafisica drammaticamente vissuta.

Un libro di protesta anche – per lunga tradizione – quando scopre il culo e i suoi prodotti, una specie di diario di malori acronologico e tramato di più voci, perché sarà chiaro che l’io tu lui è una persona insieme unìvoca e multìvoca, una identità sfaccettata in molteplici dati di esperienza, principalmente ma non solamente autobiografica, aperta e legata anche all’altrui esperienza del male della vita della morte, ai dati della cronaca e della storia, dell’osservazione naturale ecc.

Dove proprio gli indirizzi tematici cardinali, quello contro-teologico dei falsidèi contestati e destituiti, e quello tanatologico della morte destinata e della morte cercata, possono bene leggersi come attestazioni di verità e risposte laiche oppositive, le più difficili oggi, rispetto a diffuse tendenze riflussive della cultura con-temporanea. La prima può comunque essere una risposta ateistica, ossessiva e perciò forse inguarita della alienazione teistica, al così detto "ritorno del sacro", che si finge di registrare e in realtà si cerca di promuovere, motivandolo e organizzandolo istituzionalmente.

L’altra, strettamente connessa, può dirsi una risposta oppositiva alle fughe religiose della morte (Freud), alla rimozione della morte teorizzata per es. da Zigler, come tipica della società capitalistica, o all’accettazione della morte come dato naturale, affermata accontrasto da Fuchs. Il richiamo ossessivo è sempre nichilistico e disperato, nelle sue ovvie radici mito-religiose cristiane, ma radicalmente mutilato della speranza escatologica: se è vero che nella alienazione dallo sfruttamento capitalistico – scriveva Zigler in I vivi e la morte – "privato di ogni individualità e di destino, l’uomo è anche privato di una chiara coscienza della sua finitudine", in diomorto si può pure leggere una "riconquista della morte", come riattestazione drammatica della coscienza umana.

Una riaffermazione contraddittoria e negativa dell’uomo, lacerante e lacerata, perché preclusa a ogni possibile consolazione, tranne il corto-luminoso raggio dell’amore umano. Questa "negazione" laico-religiosa sarebbe insomma risolutamente anti-teologica, rifiutando come arbitrio retorico e abuso di potere tutte le ipotesi possibili sull’esistenza, consistenza, morfologia, fenomenologia del divino, accettandole tutte insieme solo come incerte intuizioni, approssimazioni, testimonianze, fantasie dell’ignoto, non già come Inconoscibile sovra-naturale, ma come dato di natura ancora incognito e sempre virtualmente conoscibile.

Perciò, nel suo strenuo negare, non potrebbe essere e non è laicamente "rispettosa" di ogni credo, ma polemica oppositiva reiettiva nei confronti di ogni ideologia politico-religiosa, a supporto di un potere comunque camuffato storicamente. Su tutte quella più intollerante e snaturante la cattolica-pontificia romana: questa bimillenaria arcaica ideazione del mondo, dell’uomo della vita e dell’oltre-vita, nata sul tronco dell’ebraismo perenne, con un originario potenziale liberatorio ma non "rivoluzionario", presto perduto nel diritto costituito della "religione di stato", nella elaborazione di una mitologia ecclesiale di potere, di dottrine e codici imperativi, quindi nella coazione e repressione autoritaria della coscienza, della natura umana, in spontanea concorrenza – anche se e quando in spontaneo conflitto – col potere economico-politico statuale.

E non parlo, ovviamente degli apporti culturali del cristianesimo, nella sua stessa identificazione con la società capitalistica borghese (Marx), e nemmeno dell’apporto storico di base dei "militanti", uomini donne di fede votati e dediti al "sacrificio di sé" per l’altrui salvezza. Questa è storia di moltitudini umane, dei loro terrori e dei loro bisogni elementari, e di un immenso "servizio", in questa come in ogni altra religione istituzionale. Parlo di quelle strutture teocratiche e sacro-autoritarie del potere, predisposte al governo della vita e della morte, al controllo quindi non solo dell’agire ma della stessa "coscienza interiore" e del più profondo inconscio dell’uomo. Strutture istituzionali che, profittando del consenso più largo, della paura del pregiudizio dell’ignoranza, e producendolo strumentalmente, esercitano ancora oggi un potere mostruoso capace d’imporsi alla pari – perché consustanziale – alle massime potenze economiche e politiche mondiali, anche a quelle che si richiamavano al marxismo-leninismo e al "socialismo rivoluzionario".

E’ infine possibile che qui prevalga una "mania del divino", sempre però nel senso del rigetto ossessivo dei piccoli crudeli monoteismi delle antiche culture trascendentistiche, ancora opprimenti: da cui origina un "malessere della perdita", della "perdita di dio" come "perdita di senso" di un falso umanesimo, al limite del crollo esistenziale. Oltre questo spazio nero, la relazione si riproduce col suffragio intuitivo-razionale della cognizione scientifica, in altri orizzonti panici, il dio-cosmo in espansione di Einstein e la macrostoria dell’evoluzione, l’ultrasenso mentale e fisico del mondo nella totalità della natura, nella prospettiva cosmica non del "sacro mistero", ma della materia-energia corporea.

E’ il pauroso inafferrabile sconcerto del mondo teorizzato dalla speculazione scientifica contemporanea, dalla biochimica genetica della origine e casualità "necessaria" (Monod) della vita universale, alla sua estinzione e rinascita credibile, nel grandioso moto pendolare dell’universo meccanico, tra espansione e contrazione e ritorno, all’infinito: un cuore pulsante battiti di miliardi! Ma il vero destino dell’uomo, privilegiato o no di quella eccedenza naturale che è la coscienza, si fa qui scontrosamente ancorato al suo piccolo scoglio prometeico e ai suoi dintorni, ai suoi assetti socio-economici, ai modelli di vita e non-vita che vi si propongono e realizzano. Qui il problema, da "religioso" torna a essere politico, rimesso alla responsabilità esclusiva dell’uomo: e sùbito quella primaria di rimuovere, nelle rispettive culture, le istituzioni ecclesiali di ogni tipo, clericali e secolari, pseudo-laiche e pseudo-democratiche, quelle "concordatarie" che anziché "cambiare il mondo", giustamente rispettano e assìmilano l’antico potere politico-"religioso".

In questo senso io vorrei [oggi oramai solo in senso retrospettivo e storico] nettamente rimisurare il rapporto prevalente nella tradizione economicistica del marxismo, fra a-teismo e lotta di classe (v. per es. L’ateismo moderno di P. Verret): la "questione religiosa", con le sue vaste implicazioni ideologiche e politiche, non è, non può essere subordinata ma concorrente, rispetto alle questioni reali dei rapporti di produzione. Infatti una "liberazione dell’uomo" non può darsi partendo dalle strutture economiche, se insieme non sia fondata sulla cognizione scientifica e una coscienza radicalmente laica – umanistica in senso ateistico – della realtà, di tutta la realtà. Giustamente Marx riconosceva che "la critica della religione è la premessa di ogni critica" [ma paradossalmente, in polemica con Bauer, definiva l’ateismo "ultimo grado del teismo", come affermazione negativa di Dio!]. Allora non solo il potere clericale, ma pure la clericalità di ogni potere istituzionale sarebbero verosimilmente sconfitti, e la libertà e dignità dell’uomo sarebbero più probabilmente garantite.

In questo senso fu malinteso dell’ateo Lenin e dei suoi esegeti quello di credere che la "questione di dio" fosse un problema di "opinioni sul paradiso in cielo", una questione ideologica secondaria rispetto all’azione, e non invece una fondamentale questione di verità che investe la natura, la vita e la storia dell’uomo, una questione anche politica di liberazione, da oppressione prepotere e violenza, quindi di opposizione e di lotta, inseparabile da una "rivoluzione sociale".

E’ una originaria carenza culturale e forse irresistibile "disattenzione ", da parte di rivoluzionari borghesi impegnati alla conquista e conservazione del potere, di dottrine e testi sacralizzati, per la "dittatura del proletariato", che credo possa aiutare a capire molte cose, molte concordanze e "concordati" di antichi e nuovi regimi. E spiega come "a sinistra" si facciano ancora speciose distinzioni "politiche" fra agnosticismo e ateismo, fra anti-clericalismo vecchio e nuovo, come tra materialismo dialettico e "materialismo volgare" (la tradizione materialistica), mentre io credo ci sia una sola radicale distinzione da fare, tra vero e falso rigetto, globale e senza "compromessi storici", di ogni sorta di teismo assoluto e integralismo "religioso" e del corrispondente potere clericale.

Sì ecco l’avanguardia che preferisco praticare. Ci vuole granfede evvoluttà di parole a scriverne e a lavorarne tante, sensate o insensate, come ordine o caos di significanti, come azzeramento o proliferazione semantica, sfuggendo – e spesso accade – al confronto e all’urto con la violenza del mondo. Dopo tanti abusi formalistici di sperimentalità strutturali e avanguardismi de-strutturanti, c’è un’altra avanguardia intellettuale – possibilmente attiva anche nella e contro la letteratura – da rivalutare e forse ricostituire, in accordo anche discorde con le stesse avanguardie politiche: quella che incide nella "degradazione" eversiva e vera desacrazione del verbo, imposta da contenuti esclusi vietati censurati inosati, perchè intaccano e minacciano la struttura repressiva di poteri che traggono "autorità", non solo dalla violenza che uccide la vita, ma prima ancora dalla violenza che uccide la verità. Una "avanguardia" insomma che, nella attestazione libera della verità, rivitalizzi la necessità di scrivere come atto di coscienza impavida.

www.giannigrana.it

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Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Teorici
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Aggiornamento: 26-04-2015