HEGEL: LA CRISI DI FRANCOFORTE

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HEGEL: LA CRISI DI FRANCOFORTE

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Giuseppe Bailone

Il primo gennaio del 1797 Hegel si trasferisce a Francoforte, uno dei centri commerciali più vivi della Germania, e vi resta fino alla fine del secolo.

Fa il precettore privato presso una ricca famiglia borghese.

Nel nuovo ambiente, molto diverso da quello di Berna, ricco di stimoli culturali, Hegel non si sente più isolato. Ritrova qui anche l’amico Hölderlin. La migliorata condizione oggettiva coincide, però, con l’inizio di un sofferto cambiamento soggettivo, un travaglio interiore, che ha fatto parlare gli storici di crisi. Lo spirito etico-politico illuminista di Tubinga e di Berna si va facendo incerto: gli ideali rivoluzionari, che tanto hanno animato il suo spirito, si rivelano sempre più come la copertura di una realtà segnata dall’affermarsi dello spirito affaristico e dell’egoismo mercantile, in aperta contraddizione con l’umanesimo universalistico dell’Illuminismo.

“Il periodo di Francoforte – scrive Lukács – è una ricerca a tastoni del nuovo, una lenta ma ininterrotta demolizione del vecchio, un’incertezza e un cercarsi d’attorno: una vera crisi”.1

La crisi del giovane Hegel non è solo sua: in Germania la situazione non è più quella che aveva lasciato recandosi in Svizzera; si sta affermando la cultura romantica e l’entusiasmo per la rivoluzione francese lascia il posto alla sua critica; le speranze della prima ora scemano; si aprono problemi nuovi e di cui non s’intravvede la soluzione.

“La contraddizione con cui Hegel lotta a Francoforte è oggettivamente la contraddizione generale di tutti i poeti e i pensatori tedeschi di quest’epoca, e dalla cui soluzione nascono la filosofia e la letteratura classica di questo periodo. E poiché questa letteratura e filosofia hanno avuto una vasta e profonda importanza internazionale, è chiaro che anche la contraddizione sociale che si trova alla loro base non poteva essere una questione locale della Germania, anche se il suo modo specifico di manifestarsi è determinato dalle condizioni sociali della Germania di allora.

Si tratta dell’atteggiamento dei grandi umanisti tedeschi verso la società borghese, che è giunta alla vittoria nella Rivoluzione francese e nella rivoluzione industriale in Inghilterra, ma che comincia insieme a rivelare i suoi lati negativi, prosaici, ostili alla cultura, con ben altra evidenza che ai tempi delle eroiche illusioni prima e durante la Rivoluzione francese. Sorge ora, per i maggiori umanisti borghesi tedeschi, la necessità complessa e contraddittoria di riconoscere, da una parte, questa società borghese, di affermarla come una realtà progressiva, come necessaria e sola possibile, e di scoprire e formulare, dall’altra, apertamente e criticamente le sue contraddizioni, di non capitolare apologeticamente di fronte all’inumanità connessa alla sua essenza. Il modo in cui la filosofia e la letteratura classica tedesca formulano e cercano di risolvere queste contraddizioni (nel Wilhelm Meister e nel Faust di Goethe, nel Wallenstein e negli scritti estetici di Schiller, nella Fenomenologia dello spirito e negli scritti successivi di Hegel ecc.) mostra la loro portata storica universale, e insieme i loro limiti segnati dall’orizzonte borghese in generale e dalla «miseria tedesca» in particolare”.2

La crisi che vive Hegel si riflette anche nella sua scrittura.

“La terminologia di Hegel – spiega Lukács – non è mai stata incerta e confusa come in questo periodo. Egli piglia i concetti, li sperimenta, li reinterpreta, li lascia di nuovo cadere e così via. Proprio perché ora il suo pensiero comincia ad intendere la contraddittorietà della vita, i suoi appunti rivelano, a prima vista, un groppo confuso di contraddizioni. E alla base di queste contraddizioni è proprio il carattere – all’inizio – prevalentemente vissuto e personale di questo approccio alla realtà”.3

La tensione etico-politica di Tubinga e di Berna si esprimeva in una filosofia della società e della storia, nella quale alla positività opprimente del cristianesimo e del dispotismo attuale si contrapponeva il luminoso mondo della polis greca, del tutto immune dal male della positività. Il problema si configurava allora come quello della riproposizione rivoluzionaria di quel mondo idilliaco, che avrebbe annullato il positivo tirannico del presente.

A Francoforte, invece, quella tensione rivoluzionaria tende, per la crisi spirituale in corso, a farsi problema morale individuale: che cosa si può fare in una situazione piena d’istituzioni positive che soffocano le persone e le riducono a cose, tanto più adesso che la rivoluzione politica sul modello francese sta deludendo? Come si può convivere con l’affermarsi inarrestabile, e che non s’intende arrestare, della società borghese e, nello stesso tempo, lavorare al superamento, almeno parziale, dei suoi pesanti elementi disumani?

Negli scritti di questo periodo i concetti su cui lavora Hegel sono quelli di amore, di destino e di vita. E l’atteggiamento di Hegel nei confronti del cristianesimo cambia radicalmente, soprattutto nello scritto più ampio di questa stagione francofortese, composto verso la fine del secolo, Lo spirito del cristianesimo e il suo destino.

“Hegel – scrive Lukács – non è mai stato sentimentalmente così vicino al cristianesimo come in questo periodo. Ma sarebbe un grande errore ritenere che questa vicinanza implichi una totale identificazione del mondo dei pensieri di Hegel con quello del cristianesimo, come affermano continuamente i neohegeliani reazionari”.4 Sembra invece che questa vicinanza consista piuttosto nel fatto che Hegel vive come suo il problema di Gesù: quello cioè di affrontare le contraddizioni aperte nella vita con il suo insegnamento dell’amore. E si chieda se la soluzione offerta da Gesù sia ancora valida per il tempo presente.

Gesù ha predicato il “regno di Dio” come mondo dell’amore, ma usando la parola regno, nel mondo ebraico carica di un significato consolidato, ha introdotto un elemento di conflitto con quel mondo di amore che propone.

“La lingua ebraica offriva a Gesù la parola «regno» che nell’espressione della divina unificazione degli uomini introduce qualcosa di eterogeneo, poiché indica soltanto un’unità raggiunta mediante il dominio, mediante il potere di un estraneo su estranei, la quale unità dev’essere allora nettamente distinta dalla bellezza e dalla vita divina di una pura associazione umana, la più libera possibile. Questa idea del regno di Dio completa e abbraccia il tutto della religione quale Gesù la fondò; e noi dobbiamo ancora esaminare se soddisfa completamente la natura o in caso contrario quale bisogno ha spinto i suoi discepoli a qualcos’altro. Nel regno di Dio l’elemento comune è che tutti sono viventi in Dio; e questo elemento comune non è dato in un concetto, ma è amore, legame vivo che unisce i credenti, sentimento dell’unità della vita in cui tutte le opposizioni, tutte le ostilità come tali, e anche le unificazioni delle opposizioni persistenti, i diritti, sono tolte. «Un nuovo comando vi do – dice Gesù – che vi amiate l’un l’altro, da questo riconosceranno che siete miei discepoli». […] Vi è un’idea più bella di quella di un popolo di uomini i cui reciproci rapporti sono rapporti d’amore? Vi è un’idea più alta che quella di appartenere ad un tutto che, come tutto, è l’unità dello spirito divino, i cui figli sono i singoli membri? Vi doveva essere in questa idea ancora un’incompiutezza, così che un destino avesse potere su di essa? Oppure questo destino sarebbe la nemesi che si scatena di fronte ad uno sforzo troppo bello, ad un balzo della natura?”.5

Oltre le ambiguità dovute all’uso della parola “regno”, difficoltà ancor più dure si presentarono a Gesù nella cultura del popolo ebraico.

“Con il coraggio e la fede di un uomo ispirato da Dio, che dalla gente di buon senso è chiamato sognatore, Gesù si presentò tra il popolo ebraico. Si presentò con uno spirito nuovo e tutto suo: dinanzi ai suoi occhi si stendeva il mondo quale doveva essere, e il primo rapporto in cui si pose nei confronti con il mondo fu di invitarlo a mutare; incominciò allora con questo appello rivolto a tutti: «Cambiate, poiché il regno di Dio è vicino». Se la scintilla della vita fosse stata solo addormentata negli ebrei, Gesù avrebbe avuto bisogno soltanto di un soffio per farla divampare […]. Con la loro fede sarebbe stato presente il regno di Dio. Gesù avrebbe propriamente espresso a loro soltanto ciò che non era sviluppato e inconsapevole nel loro cuore; e con la scoperta della parola e giungendo a coscienza il loro bisogno, i ceppi sarebbero caduti e dell’antico destino si sarebbero salvati soltanto sussulti della loro vita trascorsa; ed il nuovo si sarebbe stabilito. Ma gli ebrei, pur volendo qualcosa di diverso da quello che finora avevano avuto, troppo si compiacevano dell’orgoglio della servitù per trovare ciò che cercavano in quello che Gesù offriva loro. La loro reazione, la risposta che il loro genio diede all’appello di Gesù, fu un’attenzione assai impura. Solo poche anime pure si legarono a lui con l’impulso ad esserne formate. Con grande ingenuità, con la fede di un puro sognatore, egli prese il loro impulso per perfezione, la loro rinuncia ad alcune relazioni precedenti, per lo più non di lustro, per libertà e destino risanato o vinto. Allora, subito dopo averli conosciuti, li ritenne capaci di svolgere (e il suo popolo maturo a seguire) un annuncio più diffuso del regno di Dio: mandò i suoi discepoli a due a due in giro per il paese per far risuonare moltiplicato il suo appello, ma lo spirito divino non parlava nelle loro prediche: pur dopo una familiarità molto lunga con lui, essi lasciarono spesso intravedere un’anima piccina o per lo meno non purificata, di cui soltanto pochi rami erano penetrati dal divino. Tutto quel che insegnarono, a parte il negativo in ciò contenuto, fu l’annuncio che il regno di Dio era prossimo. Ben presto si riunirono di nuovo con Gesù e non si scorge nessun effetto della speranza di Gesù e del loro apostolato. L’indifferenza con cui fu accolto il suo appello si mutò presto in odio; l’effetto di ciò su di lui fu un’amarezza sempre maggiore verso la sua epoca e il suo popolo, soprattutto verso coloro in cui nel modo più forte e appassionato albergava lo spirito della sua nazione, i farisei e i capi del popolo. Nel tono che egli usa verso di loro non vi è nessun tentativo di riconciliarvisi, di fare qualche concessione al loro spirito, ma vi sono soltanto scoppi violentissimi della sua amarezza contro di loro, la messa a nudo del loro spirito a lui ostile. Neanche una volta li tratta fidando nella possibilità di un loro mutamento”.6

Non è difficile vedere nell’amarezza di questo Gesù hegeliano l’amarezza del giovane Hegel per la caduta dei suoi ideali rivoluzionari e per i pesanti elementi negativi della situazione tedesca.

Gesù “rinuncia al suo popolo; ha sentito che Dio si rivela solo agli uomini semplici; d’ora in poi si limita ad operare sui singoli e lascia che il destino della sua nazione rimanga intatto: si estranea da esso e vi sottrae anche i suoi amici. […] Gesù si isolò da sua madre, dai suoi fratelli e parenti. Egli non poté amare una moglie, generare figli, divenire un padre di famiglia o un concittadino che godesse con gli altri la vita in comune. […]

L’esistenza di Gesù fu dunque una separazione dal mondo e una fuga da esso verso il cielo, una ricostruzione nell’idealità della vita che trascorreva vuota […]. In quanto Gesù disdegnò di vivere con gli ebrei, ma al contempo lottò con il suo ideale sempre contro le loro realtà, fu inevitabile che vi soccombesse. Egli non evitò questo sviluppo del suo destino, ma certamente non lo cercò. Ad ogni visionario che fantastica solo di sé, la morte è benvenuta; ma colui che sogna la realizzazione di un grande piano, solo con dolore può lasciare la scena dove quella doveva realizzarsi. Gesù morì con la fiducia che il suo piano non sarebbe andato perduto”.7

Non sarebbe andato perduto, perché Hegel, in questo testo, complesso e poco lineare, affida sostanzialmente alla religione il potere di superare le contraddizioni. Cominciano a presentarsi qui i primi incerti abbozzi degli strumenti concettuali della dialettica, destinati a chiarirsi di lì a poco e diventare capaci di mettere in relazione gli elementi parziali e contraddittori di una realtà con la totalità di cui fanno parte. Germina in queste pagine quel che sarà il principio fondamentale della filosofia hegeliana: la verità è l’intero, colto nelle sue articolazioni dialettiche. E il concetto di destino, preso dalla tragedia greca, si presta qui a sperimentare questo embrione di pensiero, considerando il cristianesimo come risultato di un processo storico di scissioni e contraddizioni, in qualche modo composti in unità dall’amore.

L’esperienza storica del cristianesimo evidenzia anche l’intima contraddizione del suo messaggio dell’amore. L’amore, infatti, vive il dilemma di chiudersi in una piccola cerchia di amici per mantenersi spontaneo ma selettivo o di aprirsi al mondo intero per divenire universale, ma facendosi comando dell’amore, filantropia e anche ipocrisia.

Ultimo degli scritti di questa fase giovanile è il Frammento di sistema del 1800. In questo si afferma ancora la superiorità della religione sulla filosofia, per la sua capacità di superare le divisioni che la filosofia, per il suo carattere riflessivo, mantiene tra pensante e pensato, tra soggetto e oggetto. La religione, infatti, attinge la vita infinita, la totalità assoluta, intesa però, non come indifferenza schellinghiana, bensì come complesso di opposizioni interne.

La composizione non razionale, ma religiosa, dei conflitti ha fatto parlare alcuni storici di fase mistica nella formazione hegeliana. Quel che risulta evidente è che il ricorso a strumenti razionali per pensare l’annuncio e l’affermazione dell’annuncio di Gesù ne porta in evidenza le contraddizioni e i conflitti, che solo la tensione religiosa sembra capace di ricomporre in unità. Unità che, se poco assomiglia a quella dell’Assoluto schellinghiano, perché in essa le contraddizioni non si sciolgono nell’indifferenza, è ancora lontana dalla composizione dialettica in sintesi razionale degli opposti della maturità.

Torino 4 aprile 2016

1 G. Lukács, Il giovane Hegel, Einaudi 1975, p. 155.

2 Ib. pp. 159-160.

3 Ib. p.167.

4 ib. p. 263.

5 Hegel, Lo spirito del cristianesimo e il suo destino, in Scritti teologici giovanili, Guida editori Napoli 1972, pp. 435-436.

6 Ib. pp. 439-440.

7 Ib. pp. 440-445.

Torino 11 aprile 2016

ANNO ACCADEMICO 2015-16 - UNIVERSITA’ POPOLARE DI TORINO

Giuseppe Bailone ha pubblicato Il Facchiotami, CRT Pistoia 1999.

Nel 2006 ha pubblicato Viaggio nella filosofia europea, ed. Alpina, Torino.

Nel 2009 ha pubblicato, nei Quaderni della Fondazione Università Popolare di Torino, Viaggio nella filosofia, La Filosofia greca.

Due dialoghi. I panni di Dio – Socrate e il filosofo della caverna (pdf)

Plotino (pdf)

L'altare della Vittoria e il crocifisso (pdf)

Cfr il saggio di Tony Smith


Testi di Hegel


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Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Teorici
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Aggiornamento: 04-12-2016