HEGEL A JENA

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HEGEL A JENA

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Giuseppe Bailone

Sul finire del secolo Hegel perde il padre. Smette di fare il precettore e, avvalendosi della modesta eredità paterna, si dedica interamente agli studi. Ha trent’anni. Si trasferisce a Jena, centro del “circolo romantico” dei fratelli Schlegel e di Novalis. Lì opera la nuova stella dell’animato firmamento filosofico tedesco, l’amico Schelling.

Nel 1801 ottiene l’abilitazione all’insegnamento universitario.

In questa fase, collabora con Schelling e accetta di presentarsi come suo seguace entusiasta. Nel frattempo, però, matura una sua originale posizione filosofica che nel 1807 lo porta alla rottura dell’amicizia con Schelling iniziata allo Stift di Tubinga.

Nello stesso 1801 entra nell’arena del dibattito filosofico con la sua prima pubblicazione, la Differenza dei sistemi filosofici di Fichte e di Schelling. E lo fa chiarendo subito la sua idea di filosofia e di storia della filosofia.

Contro l’idea che la storia della filosofia sia il succedersi di opinioni, che qualcuno (lui si riferisce in particolare a Reinhold, autorevole filosofo di Jena) potrebbe considerare come utili esercizi propedeutici a una vera scienza filosofica prossima a realizzarsi, Hegel sostiene che essendo una sola la ragione, questa si manifesta nel corso della storia attraverso le posizioni dei grandi filosofi che rispondono alle domande poste dal loro tempo. Il problema non è quindi quello di scegliere tra le filosofie del passato quella buona o di pensare a una filosofia ultima, scientifica e definitiva, ma di essere filosoficamente all’altezza del proprio tempo: la verità, infatti, è la comprensione filosofica della propria epoca.

“Poiché la speculazione è l’attività della ragione una e universale su se stessa, invece di vedere nei sistemi filosofici delle diverse epoche e dei diversi pensatori solo modi di procedere diversi e punti di vista del tutto peculiari, essa deve, una volta liberato il proprio punto di vista dalle casualità e dalle limitazioni, trovare solo se stessa attraverso le forme particolari, – diversamente troverebbe una semplice molteplicità di concetti e di opinioni, propri dell’intelletto; ma tale molteplicità non è filosofia. La vera peculiarità di una filosofia è l’interessante individualità, in cui, con i materiali da costruzione di una determinata epoca, la ragione si organizza una figura; la ragione speculativa particolare trova qui lo spirito del suo spirito, la carne della sua carne e vi si intuisce e come una e medesima essenza vivente e come un’altra. Ogni filosofia è in sé compiuta ed ha, come un’autentica opera d’arte, la totalità in sé. Come le opere di Apelle e di Sofocle, se Raffaello e Shakespeare le avessero conosciute, non sarebbero potute apparire di per sé come semplici esercizi preparatori – bensì espressioni di uno spirito affine – così anche la ragione nelle sue precedenti figure non può vedervi esercizi preliminari semplicemente utili. E proprio perché Virgilio ha considerato Omero, rispetto a sé e alla sua epoca raffinata, un esercizio di quel genere, il suo poema è rimasto un esercizio di imitazione”.1

Il problema per chi si avvia sulla strada della filosofia non è, pertanto, quello di scegliere tra le diverse filosofie del passato e di schierarsi, di farsi platonici, aristotelici o altro, bensì di capire Platone e gli altri filosofi come risposte adeguate al bisogno di filosofia del loro tempo.

La filosofia, infatti, nasce in momenti di crisi, quando le contraddizioni reali si cristallizzano e lacerano gli individui chiudendoli nell’isolamento delle loro coscienze e allontanandoli dalla vita comunitaria.

“Quando la potenza dell’unificazione scompare dalla vita degli uomini e le opposizioni hanno perduto il loro rapporto vivente e la loro azione reciproca e guadagnano l’indipendenza, allora sorge il bisogno della filosofia. Come tale, questo bisogno è qualcosa di contingente, ma, sotto la scissione data, esso è il necessario tentativo di togliere l’opposizione della soggettività e dell’oggettività consolidatesi, di comprendere l’essere l’essere-divenuto del mondo intellettuale e reale come un divenire e l’esser di questo mondo, in quanto prodotto, come un divenire. Nell’infinita attività del divenire e del produrre la ragione ha unificato ciò che era separato ed abbassato la scissione assoluta a scissione relativa, che è condizionata dall’originaria identità”.2

Precisata la propria idea di filosofia, Hegel prende posizione critica contro le filosofie di Kant e di Fichte, in quanto filosofie della riflessione. Egli intende per filosofia della riflessione quella che separa soggetto e oggetto e mantiene questa separazione, subordinando l’uno all’altro, l’oggetto al soggetto, la natura allo spirito e stabilisce il dominio del concetto e la servitù della natura.

Il limite di Fichte sta nell’aver affermato solo soggettivamente l’identità di soggetto e oggetto, senza riuscire ad andare al di là della loro opposizione: il Non-io, in quanto posto dall’Io, è sì ricondotto al soggetto, ma gli resta opposto, sempre diverso; l’Io e Non-io non si compongono mai in unità, come invece avviene nell’Assoluto di Schelling, in cui sono totalmente unificati soggetto e oggetto, spirito e natura. Al dogmatismo dell’essere, Fichte sostituisce quello del pensiero, alla metafisica dell’oggettività quella della soggettività. L’identità di soggetto e oggetto non è mai raggiunta: resta sempre un dover essere, un’esigenza mai soddisfatta.

Quella di Schelling è invece filosofia dell’identità, dell’indifferenza di pensare e di essere nell’assoluto. In essa la natura è lo spirito e viceversa. Schelling rivendica alla natura la dignità che Fichte, riducendola a palestra dell’attività morale dell’io, le aveva negato. Hegel, inoltre, vede nella filosofia di Schelling la sintesi e il superamento dell’idealismo soggettivo tedesco e del materialismo francese del Settecento.

Nel 1802, Hegel pubblica Fede e sapere, ancora un attacco alle filosofie della riflessione, diretto contro Fichte, ma anche contro Kant e Jacobi.

Nella battaglia, in età moderna, contro l’idea della ragione “ancella della fede”, scrive Hegel, “la filosofia ha definitivamente affermato la propria assoluta autonomia. […] Si pone però il problema se la ragione vittoriosa non abbia sperimentato il medesimo destino a cui son solite sottostare le forze vincenti delle nazioni barbare in rapporto alla debolezza soccombente delle nazioni più colte, cioè di conservare la supremazia per ciò che concerne il dominio esteriore, ma di essere sottomesse al vinto per ciò che concerne lo spirito”. Di questa natura è, infatti, “la gloriosa vittoria che la ragione illuministica ha conseguito su ciò che, come fede, essa considerava, per la sua scarsa capacità di comprendere i problemi religiosi, un opposto a sé”.3

In questa battaglia la ragione si è persa.

“La ragione, che era in sé e per sé già decaduta per aver inteso la religione solo come qualcosa di positivo, non idealisticamente, non ha potuto far niente di meglio che rivolgere ormai lo sguardo su di sé dopo la battaglia, giungere alla conoscenza di sé e riconoscere così il proprio esser-nulla, per ciò che essa pone il meglio di sé, essendo solo intelletto, come un aldilà in una fede al di fuori e al di sopra di sé, com’è accaduto nelle filosofie di Kant, di Jacobi e di Fichte, e con ciò si trasforma nuovamente in ancella di una fede. Secondo Kant il soprasensibile non può esser conosciuto dalla ragione, l’idea suprema non ha insieme anche realtà; secondo Jacobi «la ragione si vergogna di mendicare e non ha per scavare né mani né piedi»; all’uomo è dato solo il sentimento e la coscienza della sua ignoranza del vero, solo il presentimento del vero nella ragione, che è soltanto qualcosa di universalmente soggettivo, un istinto. Secondo Fichte, Dio è qualcosa d’incomprensibile e d’impensabile; il sapere nulla sa se non che nulla sa, e deve trovar rifugio nella fede. Secondo tutti, l’assoluto, per l’antica distinzione, non può essere né contro né tanto meno a favore della ragione, bensì al di sopra di essa”.4

È questo il punto d’arrivo dell’illuminismo, che, con “il suo futile darsi da fare senza costrutto”, avendo “solo il finito e l’empirico per sapere positivo”, si è trovato ad “avere l’eterno solo al di là” e a poter colmare l’infinito spazio vuoto del sapere “unicamente con la soggettività dell’aspirazione e del presentimento; e ciò che in altri tempi era considerata la morte della filosofia, cioè il fatto che la ragione dovesse rinunciare al suo essere nell’assoluto, se ne escludesse del tutto e si comportasse rispetto ad esso solo negativamente, divenne da allora il punto più alto della filosofia, e la nullità dell’illuminismo, mediante il suo diventar-cosciente di se stesso, è stata innalzata a sistema”.5

Hegel vede in queste filosofie la manifestazione di quella “forma dello spirito del mondo” ch’egli chiama “il principio del Nord e (per ciò che concerne l’aspetto religioso) del protestantesimo”, che ha creato un mondo interiore separato dall’esteriorità, cui cerca invano di ricongiungersi col suo empirismo.

Alla luce di quel principio, “la religione costruisce nel cuore dell’individuo i suoi templi ed i suoi altari, e sospiri e preghiere cercano quel Dio, la cui intuizione egli si rifiuta, poiché c’è il pericolo che l’intelletto consideri l’intuìto come cosa ed il bosco sacro come legna”.6

Con la religione dell’interiorità e con il disincanto del mondo naturale, la ragione si è persa, consegnando al solo intelletto la funzione conoscitiva e al sentimento l’aspirazione e la tensione all’assoluto.

Kant, con la sua teoria dell’immaginazione produttiva, ha sfiorato l’identità del soggetto e dell’oggetto, ma la sua concezione della conoscenza gli ha impedito di accorgersene. Per Hegel, infatti, la filosofia di Kant, limitandosi alla “trattazione dell’intelletto finito”, “non va aldilà dello scopo di Locke”.7

In Fede e sapere, la critica a Jacobi è centrale e molto più ampia, e anche più dura, di quella dedicata a Kant e a Schelling. E questo, spiega Remo Bodei, nell’introduzione, “è probabilmente da riportarsi ad un certo fastidio hegeliano nei confronti dell’immediatezza romantica”.8

L’immediatezza romantica vuole superare, ma lo fa in modo del tutto inadeguato, il dualismo che a partire da Cartesio domina il pensiero moderno e culmina nell’illuminismo e, in modo particolare, nell’ateismo francese del Settecento, che separando il finito dall’infinito, respinge il divino dal mondo. Questo moderno smarrimento del senso del divino, che Hegel, nel passo finale di Fede e sapere, presenta come il sentimento che “Dio stesso è morto”, può essere superato solo se compreso nella sua ragion d’essere storica e colto in tutta la sua durezza come “la Passione assoluta o il Venerdì Santo speculativo”.

“È solo da questa durezza – poiché il carattere più sereno, più superficiale e più singolare sia delle filosofie dommatiche che della religione naturale deve scomparire – che la suprema totalità in tutta la sua serietà e dal suo più riposto fondamento, abbracciando tutto contemporaneamente, e nella più serena libertà della sua figura, può e deve risuscitare”.9

Matura in questa fase quello che sarà un punto cardine del pensiero hegeliano: la distinzione tra l’intelletto e la ragione, e la collocazione di questa al livello conoscitivo più alto, per la sua capacità di cogliere l’unità delle opposizioni reali, senza annullarne la dialettica in una indifferenziata unità.

La ragione dialettica hegeliana coglie l’assoluto come unità degli opposti, senza irrigidirli in antitesi, come avviene in Kant, e come unità di finito e infinito, senza perdersi nell’indifferenza cui porta l’intuizione intellettuale di Schelling. Come il codice matematico permette a Galileo di cogliere l’ordine del mondo naturale, perché questo è stato scritto da Dio in termini matematici, così, per Hegel, la ragion dialettica è la ragione di Dio e del mondo in cui Dio si realizza. Alla ragion geometrizzante del Seicento subentra in questo primo Ottocento quella dialettica, sempre nella fermissima convinzione che l’ordine del pensiero e quello della realtà siano identici. Al dio geometra subentra il dio dialettico.

E l’uomo partecipa di questa razionalità divina.

Tra il 1801 e il 1802, Hegel compone la Costituzione della Germania, in cui comincia le sue riflessioni politiche constatando che la Germania, dopo le travolgenti vittorie napoleoniche, non è più uno Stato, e che, per tornare ad esserlo, non le basta l’unità dei costumi, dei sentimenti e della religione, come propone il pensiero romantico, meno ancora le basta strutturarsi come Stato sul modello napoleonico con moneta, unità di misura e codice unici. La Germania deve costituirsi come un’unità-totalità militare, deve cioè dotarsi un potente esercito e procedere alla costruzione unitaria della nazione.

Nel 1805, con l’aiuto di Goethe, che ha conosciuto tramite Schelling e col quale intratterrà rapporti di collaborazione e di amicizia durevoli, viene nominato professore straordinario.

A Jena arriva Napoleone nell’autunno del 1806 e Hegel in una lettera scrive: “Ho visto l’Imperatore – quest’anima del mondo – cavalcare attraverso la città per andare in ricognizione: è davvero un sentimento meraviglioso la vista di un tale individuo che, concentrato in un punto, seduto su di un cavallo, abbraccia il mondo e lo domina”. Adesso, per un Hegel in cui rimane vivo l’entusiasmo giovanile per gli ideali rivoluzionari, lo spirito del mondo è ancora francese; ma questo entusiasmo non si spegnerà neanche quando vedrà, invece, nello Stato prussiano l’incarnazione della ragione assoluta. Per lui la rivoluzione continuerà a sembrargli “un levarsi superbo di sole, un intenerimento sublime, un entusiasmo di spirito che han fatto tremare il mondo di emozione, come se solo in quel momento la riconciliazione del divino e del mondo si fosse compiuta”.10

A Jena Hegel scrive e pubblica nel 1807 la Fenomenologia dello spirito, l’opera di gran lunga la più importante di questo periodo e la prima delle grandi opere.

Note 

1 Hegel, Differenza fra il sistema di Fichte e di Schelling, in Primi scritti critici, a cura di Remo Bodei, Mursia 1990, pp. 12-13.

2 Ib. p. 15.

3 Hegel, Fede e sapere, in Primi scritti critici, a cura di Remo Bodei, Mursia 1990, p. 123.

4 Ib. p. 124.

5 Ib. p. 124.

6 Ib. p. 125.

7 Ib. p. 139.

8 Remo Bodei, a p. XXI, scrive che Jacobi protesta vivacemente contro questa “lapidazione” e si lamenta anche dello stile di Hegel: “Se soltanto il maledetto Hegel scrivesse meglio; io faccio fatica a comprenderlo. Dal pessimo stile sono sicuro che è stato lui a scrivere e non Schelling”.

9 Hegel, Fede e sapere, in Primi scritti critici, a cura di Remo Bodei, Mursia 1990, p. 253.

10 Le ultime citazioni sono tratte da N. Abbagnano, Storia della filosofia III, UTET 1963, p. 97.

Torino 11 aprile 2016

ANNO ACCADEMICO 2015-16 - UNIVERSITA’ POPOLARE DI TORINO

Giuseppe Bailone ha pubblicato Il Facchiotami, CRT Pistoia 1999.

Nel 2006 ha pubblicato Viaggio nella filosofia europea, ed. Alpina, Torino.

Nel 2009 ha pubblicato, nei Quaderni della Fondazione Università Popolare di Torino, Viaggio nella filosofia, La Filosofia greca.

Due dialoghi. I panni di Dio – Socrate e il filosofo della caverna (pdf)

Plotino (pdf)

L'altare della Vittoria e il crocifisso (pdf)

Cfr il saggio di Tony Smith


Testi di Hegel


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Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Teorici
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Aggiornamento: 04-12-2016