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Holbach: l’ateismo del buon senso e per tutti

Giuseppe Bailone

Sul tema della religione il pensiero illuminista sviluppa posizioni diverse.

In particolare si realizza una profonda divergenza fra chi, come Voltaire, assume una posizione deista, anticlericale, ma non antireligiosa, e chi, come Diderot e Helvétius, radicalizza la sua critica alla religione fino a travolgere lo stesso deismo. Holbach è l’esponente più radicale di questa tendenza.

L’idea di Dio, sostiene Holbach, è costruita sul modello umano del monarca assoluto. Non è un freno all’immoralità e non promuove la buona convivenza umana. È fonte d’infelicità. La lotta contro l’assolutismo e i suoi effetti devastanti sulla condizione umana non può, pertanto, non promuovere l’ateismo anche a livello popolare, senza timore di compromettere l’ordine pubblico. La ragione, forza intellettuale e morale insieme, non deve fermarsi a metà strada e limitarsi a depurare le religioni positive, a liberarne il nucleo naturale da tutto ciò che l’impostura clericale e l’arretratezza culturale vi hanno sovrapposto. Deve misurarsi anche con quel nucleo naturale e metterne in luce la profonda irrazionalità: è, infatti, da quel fondo oscuro che traggono la loro forza le superstizioni e il fanatismo.

Paul-Henri Thiry d’Holbach nasce nello Stato tedesco del Palatinato nel 1723. Nel 1749 si trasferisce a Parigi e viene naturalizzato francese. Nel 1753 eredita i beni e il titolo di barone da uno zio materno di origine francese. Si lega strettamente d’amicizia con Diderot e collabora intensamente al progetto dell’Enciclopedia, per la quale redige molti articoli di scienze varie, di religione e di politica. Dal 1759 la sua casa parigina e il castello in cui passa la villeggiatura sono luoghi d’incontro degli enciclopedisti. Muore alla vigilia della rivoluzione francese, nel gennaio del 1789.

Il buon senso, pubblicato anonimo nel 1772, è l’opera in cui Holbach raccoglie tutti i suoi argomenti contro la religione e per un salutare ateismo. È un libro che ha meritato l’attenta considerazione di Giacomo Leopardi.

“Se si vogliono esaminare spassionatamente le credenze degli uomini, scrive Holbach nella prefazione, si rimane molto meravigliati nel constatare che, anche riguardo ai problemi che essi considerano come i più essenziali, niente capita più di rado che vederli far uso del buon senso, cioè di quella parte della capacità di giudizio che è sufficiente per conoscere le verità più semplici, per rifiutare le assurdità più manifeste, per rimanere colpiti da contraddizioni evidenti. Di ciò abbiamo un esempio nella teologia: una scienza altamente rispettata in ogni tempo, in ogni luogo, dalla maggioranza dei mortali: un oggetto che essi considerano come il più importante, il più utile, il più indispensabile per la felicità dei popoli. In realtà, basta darsi un po’ da fare per mettere alla prova i principi sui quali si basa questa presunta scienza, e si sarà costretti a riconoscere che codesti principi, che erano giudicati incontestabili, non sono che ipotesi azzardate, immaginate dall’ignoranza, diffuse dallo stato d’animo esaltato o dalla malafede, adottate dalla pavida credulità, conservate dall’abitudine che non ragiona mai, riverite soltanto perché incomprensibili. […] Schiacciati sotto il duplice giogo del potere spirituale e del potere temporale, i popoli non poterono istruirsi né lavorare per la propria felicità. Anche la politica e la morale, come la religione, divennero dei santuari nei quali non fu permesso ai profani di entrare. Gli uomini non ebbero altra morale che quella che i loro legislatori e i loro preti fecero discendere dalle plaghe sconosciute dell’empireo. Lo spirito umano, traviato dai pregiudizi teologici, disconobbe se stesso, dubitò delle proprie forze, diffidò dell’esperienza, temette la verità, disprezzò la propria ragione e l’abbandonò per seguire ciecamente l’autorità. L’uomo fu soltanto una macchina in mano ai tiranni e ai preti, che ebbero, essi soli, il diritto di guidare i suoi movimenti; trattato sempre da schiavo, ebbe, in quasi tutti i tempi e in quasi tutti i luoghi, i vizi e il carattere dello schiavo. […] L’ignoranza e la schiavitù sono fatte per rendere gli uomini malvagi e infelici. Solo la scienza, la ragione, la libertà possono correggerli e renderli più felici; ma tutto cospira ad accecarli e a mantenerli fuori strada: i preti li ingannano, i tiranni li corrompono per renderli più schiavi. […] Troppo a lungo i maestri dei popoli hanno fissato gli occhi al cielo: li rivolgano una buona volta alla terra. Stanco di una teologia incomprensibile, di favole ridicole, di misteri impenetrabili, di cerimonie puerili, l’intelletto umano si occupi di cose naturali, di oggetti intelligibili, di verità accessibili ai sensi, di conoscenze utili. Si facciano scomparire le vane chimere che tengono imprigionati i popoli, e ben presto idee conformi a ragione verranno da sé a collocarsi in cervelli che si credeva fossero destinati per sempre all’errore. […] Per mettere in chiaro i veri principi della morale, gli uomini non hanno bisogno né di teologia, né di rivelazione, né di divinità: hanno bisogno solamente del buon senso. Rientrino in sé, riflettano sulla propria natura, consultino i loro interessi evidenti, considerino lo scopo della società e di ciascuno dei membri che la compongono, e riconosceranno facilmente che la virtù è il vantaggio e il vizio è il danno degli esseri della loro specie. Diciamo agli uomini di essere giusti, benefici, moderati, socievoli, non perché i loro dei lo esigono, ma perché bisogna piacere agli uomini; diciamo loro di astenersi dal vizio e dal delitto, non perché verranno puniti nell’altro mondo, ma perché sconteremo la punizione nel mondo di qua. […] La via della verità è dritta, quella dell’impostura è tortuosa e tenebrosa; la verità, sempre necessaria all’uomo, è fatta per essere intesa da tutte le menti sane; gli insegnamenti della ragione son fatti per essere seguiti da tutte le menti oneste. Gli uomini sono infelici solo perché sono ignoranti; sono ignoranti perché tutto congiura a impedir loro d’illuminare le loro menti; sono cattivi solo perché la loro ragione non è ancora sviluppata abbastanza”.

Il buon senso si apre con un apologo.

“C'è un vasto impero dominato da un monarca la cui condotta è particolarmente adatta a confondere le idee dei suoi sudditi. Egli vuole essere conosciuto, amato, rispettato, obbedito; ma non si fa mai vedere, e tutto contribuisce a rendere incerta l'immagine che ci si potrebbe fare di lui. I popoli sottomessi al suo potere hanno, sul carattere e sulle leggi di questo sovrano invisibile, soltanto le idee che ad essi comunicano i suoi ministri. Costoro, tuttavia, ammettono di non avere neanch'essi alcuna idea del loro signore; riconoscono che le sue vie sono imperscrutabili, che i suoi disegni e le sue qualità sono totalmente incomprensibili. D'altra parte, questi ministri non sono minimamente d'accordo tra loro quanto agli ordini che sarebbero emanati dal sovrano del quale essi si dichiarano rappresentanti. Essi comunicano ordini diversi alle varie province dell'impero; si screditano a vicenda e si dànno reciprocamente di impostori e di falsari. Gli editti e le ordinanze che essi si prendono cura di promulgare sono oscuri; sono enigmi poco adatti a essere compresi o indovinati dai sudditi per il cui apprendimento sono destinati. Le leggi del monarca invisibile hanno bisogno di interpreti; ma quelli che le spiegano sono sempre in disaccordo sul vero modo di intenderle. Peggio ancora, essi non sono d'accordo nemmeno con se stessi: tutto ciò che raccontano riguardo al loro principe misterioso non è che un tessuto di contraddizioni; non riescono a dirne una sola parola che non si trovi ad essere sùbito smentita. Dicono che è supremamente buono; tuttavia non c'è nessuno che non si lagni dei suoi decreti. Sostengono che è infinitamente saggio, e nella sua maniera di governare tutto sembra contrario alla ragione e al buon senso. Vantano la sua giustizia, e i migliori dei suoi sudditi sono quasi sempre i meno favoriti. Assicurano che vede tutto, e la sua presenza non rimedia ad alcun male. Dicono che è amico dell'ordine, e tutto, nei suoi domini, è in preda alla confusione e al disordine. Fa tutto secondo il suo volere, e di rado i fatti corrispondono ai suoi progetti. Si adira molto di essere offeso, e tuttavia mette ognuno in condizione di offenderlo. Ammirano la sua sapienza, la sua perfezione, che si rivela nelle sue opere; eppure le sue opere, piene d'imperfezioni, sono di breve durata. È continuamente occupato a fare, a disfare, poi a riparare quel che ha fatto, senza riuscire mai ad essere contento del suo lavoro. In tutte le sue imprese non si propone che la propria gloria; ma non riesce affatto a raggiungerla. Non lavora che per il benessere dei propri sudditi; e i suoi sudditi, in maggioranza, sono privi del necessario. Coloro che, a quanto pare, egli favorisce sono generalmente i meno soddisfatti della propria condizione: li vediamo quasi tutti perpetuamente in rivolta contro un signore di cui non cessano di ammirare la grandezza, di vantare la saggezza, di adorare la bontà, di temere la giustizia, di riverire gli ordini ai quali non obbediscono mai.

Questo impero è il mondo; il monarca è Dio; i suoi ministri sono i preti; i suoi sudditi sono gli uomini.”

Holbach non pensa che l’uomo sia naturalmente religioso e che l’idea di Dio sia innata. Per lui il concetto di Dio è impossibile.

“Se Dio è un essere infinito, non può esserci, né in questo mondo né in un altro, alcuna proporzione fra l'uomo e il suo Dio; quindi la nozione di Dio non entrerà mai nell'intelletto umano. Nell'ipotesi di una vita futura in cui l'uomo avrà maggiori capacità intellettive che in questa, l'infinità di Dio costituirà sempre una tale distanza fra la sua idea e la mente finita dell'uomo, che questi non potrà concepirlo nel cielo più di quanto lo concepisca sulla terra”.1

Come si è potuta formare l’idea di Dio e il suo culto religioso?

C’è nell’animo umano un fondo irrazionale di paura e d’ignoranza della realtà. Questo fondo spinge l’uomo a perdersi nel mistero, ad affidarsi a un essere onnipotente e terribile, dal quale s’invoca protezione ma anche si temono nuovi mali. Su questo fondo hanno sempre agito i preti e i politici.

“Come si è potuti riuscire a persuadere esseri ragionevoli che la cosa più incomprensibile era per essi la più essenziale? Perché sono stati fortemente terrorizzati; perché, quando si ha paura, si cessa di ragionare; perché sono stati esortati soprattutto a diffidare della loro ragione; perché, quando il cervello è turbato, si crede a tutto e non si esamina più niente”. (9)

Tutte le religioni nascono dall’ignoranza e dalla paura.

“Ignoranza e paura, ecco i due sostegni di tutte le religioni. L'incertezza in cui l'uomo si trova in rapporto al proprio Dio è precisamente il motivo che lo tiene aggrappato alla sua religione. L'uomo ha paura nelle tenebre, sia in senso materiale, sia morale. La paura diviene in lui abituale e si tramuta in bisogno; egli si crederebbe privo di qualcosa se non avesse niente da temere.

Con la religione, dei ciarlatani sfruttano l'insensatezza degli uomini.

Colui che, fin dall'infanzia, ha preso l'abitudine di tremare ogni volta che sente pronunziare certe parole, ha bisogno di quelle parole e ha bisogno di tremare: per ciò stesso egli è più incline a dare ascolto a chi alimenta i suoi timori, che a chi tenta di rassicurarlo. Il superstizioso vuole aver paura, la sua immaginazione lo richiede; si direbbe che nulla teme quanto di non aver nulla da temere. […]

La religione seduce l'ignoranza suscitando la meraviglia.

Se la religione fosse chiara, avrebbe molto meno attrattiva per gli ignoranti. Essi hanno bisogno di oscurità, di misteri, di terrori, di favole, di prodigi, di cose incredibili che li facciano sempre lavorare di fantasia. I romanzi, le leggende tenebrose, i racconti di fantasmi e di stregoni esercitano sulle menti del volgo ben più fascino che le storie vere.

In fatto di religione, gli uomini non sono che dei grandi bambini. Più una religione è assurda e piena di stranezze, più acquista diritti su di loro. Il devoto si crede obbligato a non porre alcun limite alla propria credulità: più le cose sono inconcepibili, più gli sembrano divine; più sono incredibili, più egli s'immagina che il credervi sia un merito.

Non ci sarebbe stata religione se non ci fossero mai state epoche di stupidità e di barbarie. L'origine delle credenze religiose risale, per lo più, ai tempi in cui i popoli selvaggi erano ancora in stato d'infanzia. A uomini grossolani, ignoranti e stupidi i fondatori di religioni si rivolsero, sempre, per dar loro degli dèi, dei culti, dei miti, delle leggende stupefacenti e terrificanti. Queste chimere, accolte senza riflessione dai padri, si sono trasmesse, con maggiori o minori modifiche, ai loro discendenti inciviliti, i quali spesso non ragionano meglio dei loro avi”. (10-14)

Il materialismo di Holbach è assoluto: la materia, dotata di movimento e di sensibilità, non ha bisogno di essere spiegata col ricorso a enti immateriali. Parlare di spirito significa dire niente. “A forza di metafisicare, si è arrivati a fare di Dio un «puro spirito»; ma con ciò la teologia moderna ha fatto un passo in più che la teologia dei selvaggi? I selvaggi considerano signore del mondo un Grande Spirito. I selvaggi, come tutti gli ignoranti, attribuiscono a qualche «spirito» tutti gli effetti dei quali, per la loro inesperienza, non riescono a rintracciare le vere cause. Chiedete a un selvaggio che cosa fa muovere il vostro orologio: vi risponderà: «Uno spirito». Chiedete ai nostri savi che cosa fa muovere l'universo: vi risponderanno: «Uno spirito”. (20)

La spiritualità è una chimera: “Il selvaggio, quando parla di uno «spirito», attribuisce almeno qualche significato a questa parola: intende un agente simile al vento, all'aria agitata, al soffio, i quali producono in modo invisibile effetti visibili. A forza di sottilizzare, il teologo moderno diventa altrettanto incomprensibile a se stesso quanto agli altri. Domandategli che cosa intende per «spirito»: vi risponderà che è una sostanza sconosciuta, che è perfettamente semplice, che non ha alcuna estensione, che non ha nulla in comune con la materia. Siamo giusti: c'è qualche mortale che possa formarsi la minima idea d'una simile sostanza? Uno «spirito», nel linguaggio della teologia moderna, è dunque qualcosa di diverso da un'assenza di idee? L'idea della «spiritualità» è anch'essa un'idea senza modello”. (21)

Il mondo non è stato fatto, non è stato creato, sostiene Holbach.

“Ci dicono con tono grave che «non c'è effetto senza causa»; ci ripetono ogni momento che «il mondo non si è fatto da sé». Ma l'universo è una causa, non è per niente un effetto. Non è per niente un'opera, non è stato per niente «fatto», poiché era impossibile che lo fosse. Il mondo è sempre esistito; la sua esistenza è necessaria”. (39)

Neppure l’intelligenza umana dimostra l’esistenza di Dio.

“Io non avrei difficoltà a riconoscere che la macchina umana mi sembra sorprendente. Ma, dal momento che l'uomo esiste nella natura, non mi credo in diritto di dire che la sua formazione è al di sopra delle forze della natura. Aggiungerò che riuscirò assai meno a capire la formazione della macchina umana quando, per spiegarmela, mi si dirà che un puro spirito, che non ha occhi né piedi né testa né polmoni né bocca né fiato, ha fatto l'uomo prendendo un po’ di fango e soffiandoci sopra. […]

L'uomo è intelligente; e se ne trae la conclusione che non può essere che l'opera di un essere intelligente, non di una natura priva d'intelligenza. Sebbene nulla sia più raro che vedere l'uomo far uso di questa intelligenza di cui appare così orgoglioso, ammetterò che è intelligente, che i suoi bisogni sviluppano questa sua facoltà, che il vivere in società con gli altri uomini contribuisce soprattutto a perfezionarla. Ma nella macchina umana e nell'intelligenza di cui essa è dotata io non vedo nulla che denoti in modo ben preciso l'intelligenza infinita dell'artigiano al quale se ne attribuisce il merito. Vedo che questa macchina ammirevole è soggetta a guastarsi; vedo che, in tal caso, la sua meravigliosa intelligenza è turbata e qualche volta sparisce del tutto. Ne concludo che l'intelligenza umana dipende da una certa disposizione degli organi materiali del corpo, e che il sostenere che Dio dev'essere intelligente perché l'uomo è intelligente, ci autorizzerebbe con pari diritto a sostenere che Dio è materiale perché l'uomo è materiale. L'intelligenza dell'uomo non dimostra l'intelligenza di Dio più di quanto la malvagità dell'uomo non dimostri la malvagità di quel Dio di cui si pretende che l'uomo sia una creatura. Da qualsiasi lato la teologia affronti la questione, Dio sarà sempre una causa contraddetta dai suoi effetti, o di cui è impossibile dare un giudizio in base alle sue opere. Vedremo sempre scaturire il male, le imperfezioni, le follie da una causa che ci dicono piena di bontà, di perfezioni, di saggezza”. (42)

Non ci sono solo la paura e l’ignoranza alla radice delle religioni: c’è anche la presunzione umana.

“L'uomo, invaghito dei propri meriti, s'immagina che, nella formazione dell'universo, Dio si sia proposto come oggetto e come scopo soltanto la specie umana”. (49) Ma è un’idea assurda: “Se Dio è infinito, è ancor meno fatto per l'uomo di quanto l'uomo sia fatto per le formiche. Le formiche d'un giardino ragionerebbero assennatamente sul conto del giardiniere se si proponessero di occuparsi delle sue intenzioni, dei suoi desideri, dei suoi progetti? Avrebbero còlto nel segno se pretendessero che il parco di Versailles non sia stato piantato che per esse, e che la bontà d'un monarca amante del fasto non abbia avuto per scopo che di dar loro un alloggio magnifico? Ma, secondo la teologia, l'uomo è, in confronto a Dio, molto al di sotto di quanto l'insetto più insignificante sia in confronto all'uomo. Quindi, per confessione della teologia stessa, la teologia, che non cessa di occuparsi degli attributi e dei disegni della divinità, è la più assoluta follia”. (50)

Il cieco orgoglio umano impedisce di vedere le contraddizioni della teologia e quanto sia priva di senso la parola “Provvidenza”.

“Si chiama «Provvidenza» la cura generosa che la Divinità dimostra provvedendo ai bisogni e vegliando per la felicità delle sue amate creature. Ma, appena si aprono gli occhi, si trova che Dio non provvede a nulla. La Provvidenza dorme riguardo alla parte più numerosa degli abitatori di questo mondo. Di contro a un piccolissimo numero di uomini che supponiamo felici, quale folla immensa di sventurati gemono sotto l'oppressione e languiscono nella miseria! Non vediamo interi popoli costretti a strapparsi il pane di bocca per alimentare le stravaganze di alcuni cupi tiranni, i quali non sono più felici degli schiavi che essi schiacciano? […]

Tutti i libri son pieni degli elogi più lusinghieri della Provvidenza, della quale si vantano le premurose cure. Sembrerebbe che, per vivere felice quaggiù, l'uomo non avrebbe alcun bisogno di darsi da fare. Eppure, senza il proprio lavoro, l'uomo rimarrebbe in vita appena un giorno. Per vivere, lo vedo costretto a sudare, a lavorar la terra, a cacciare, pescare, affaccendarsi senza posa; senza queste cause seconde, le cause prime (almeno nella maggior parte dei paesi) non provvederebbero ad alcuno dei suoi bisogni. Se rivolgo lo sguardo a tutte le parti del nostro globo, vedo l'uomo selvaggio e l'uomo civile in lotta perpetua con la Provvidenza. L'uomo è costretto a parare i colpi che la Provvidenza gli sferra mediante gli uragani, le tempeste, il gelo, la grandine, le alluvioni, le siccità, i vari incidenti che rendono così spesso inutili tutti questi lavori. In una parola, vedo la razza umana continuamente all'opera per salvarsi dai brutti tiri di questa Provvidenza che dicono impegnata nel prendersi cura della sua felicità”. (52)

Sulla provvidenza divina, Holbach presenta anche di un “racconto orientale”.

“A una certa distanza da Bagdad, un derviscio, noto per la sua devozione, trascorreva giorni tranquilli in una piacevole solitudine. Gli abitanti dei dintorni, per essere ricordati nelle sue preghiere, non mancavano di portargli ogni giorno provviste e doni. Il sant'uomo non cessava di rendere grazie a Dio per i benefizi di cui la Provvidenza lo colmava. «O Allah! - diceva -, com'è ineffabile la tua tenerezza per i tuoi servitori! Che ho fatto per meritare i beni che la tua generosità mi elargisce? O monarca dei cieli! O padre della natura! Quali lodi potrebbero celebrare degnamente la tua munificenza e le tue cure paterne? O Allah! Come sono grandi le tue bontà per i figli degli uomini!». Pieno di riconoscenza, il nostro eremita fece voto d'intraprendere per la settima volta il pellegrinaggio alla Mecca. La guerra che divampava allora tra i persiani e i turchi non valse a fargli rimandare l'esecuzione del suo pio progetto. Pieno di fiducia in Dio, si mette in viaggio. Con l'inviolabile salvaguardia di un abito rispettato da tutti, supera senza ostacoli le linee dei soldati nemici: ben lungi dall'essere molestato, riceve ad ogni passo segni di venerazione dai soldati dei due eserciti. Alla fine, sfinito per la stanchezza, si vede costretto a cercare un asilo contro i raggi di un sole ardente; lo trova sotto la fresca ombra di un gruppo di palme, le cui radici erano vivificate da un limpido ruscello. In questo luogo solitario, in un silenzio interrotto soltanto dal mormorio delle acque e dal canto degli uccelli, il prediletto di Dio trovò non solo un incantevole luogo di riposo, ma anche un cibo delizioso: non ha che da stendere la mano per cogliere datteri e altri frutti saporosi; il ruscello gli dà modo di dissetarsi; ben presto un prato verde lo invita a godere un dolce riposo. Al risveglio, compie la sacra abluzione, e in un impeto di gioia esclama: «O Allah! Come sono grandi le tue bontà per i figli degli uomini!». Ben sazio, rinfrescato, pieno di forza e di lietezza, il nostro santo prosegue il suo cammino. […] Giunto un po' più lontano, trova alcune montagne assai difficili a salire; una volta arrivato in cima, uno spettacolo orribile si presenta di colpo ai suoi occhi: il suo cuore ne rimane costernato. Vede una vasta pianura interamente devastata dal ferro e dal fuoco; la misura con lo sguardo, la vede ricoperta di più di centomila cadaveri, resti miserabili di una sanguinosa battaglia che si era combattuta in quei luoghi pochi giorni prima. Le aquile, gli avvoltoi, i corvi, i lupi divoravano a gara i cadaveri di cui il terreno era cosparso. Questa vista gettò il nostro pellegrino in una cupa meditazione. Il cielo, per uno speciale favore, gli aveva concesso il dono di comprendere il linguaggio delle bestie; egli sentì un lupo, rimpinzato di carne umana, che, nel colmo della gioia, gridava: «O Allah! Come sono grandi le tue bontà per i figli dei lupi! La tua previdente saggezza ha cura di mandare attacchi di follia a questi uomini detestabili, così pericolosi per noi. Per effetto della tua provvidenza che veglia sulle tue creature, questi distruttori della nostra specie si scannano a vicenda e ci forniscono suntuosi banchetti. O Allah! Come sono grandi le tue bontà per i figli dei lupi!». (98)

Il mondo non è governato da un essere intelligente e le consolazioni teologiche contro i mali di questa vita sono vane illusioni. E la giustizia divina di certa teologia rende Dio “sommamente odioso”. “La giustizia divina, quale la dipingono i nostri teologi, è davvero una qualità molto adatta a farci amare Dio! Secondo gli insegnamenti della teologia moderna, sembra evidente che Dio abbia creato il maggior numero di uomini solo allo scopo di metterli a rischio di esser condannati a eterni supplizi. Non sarebbe stato dunque più conforme alla bontà, alla ragionevolezza, all'equità, creare solamente delle pietre o delle piante, e nessun essere sensibile, anziché dar vita a uomini la cui condotta in questo mondo poteva procurar loro, nell'aldilà, castighi senza fine? Un Dio sufficientemente perfido e malvagio da creare anche un solo uomo, e da lasciarlo poi esposto al pericolo di dannarsi, non può essere considerato come un essere perfetto, ma come un mostro di sragionevolezza, di ingiustizia, di malvagità e di atrocità. Lungi dall'ideare un Dio perfetto, i teologi hanno escogitato il più imperfetto degli esseri.

Secondo i dettami della teologia, Dio somiglierebbe a un tiranno che, dopo aver fatto accecare i più dei suoi schiavi, li rinchiudesse in un'oscura prigione e, per divertimento, li osservasse, senza esser visto, attraverso una feritoia, in modo da cogliere l'occasione di punire crudelmente tutti quelli che, movendosi, si urtassero gli uni con gli altri: ricompensasse, invece, con munificenza i pochi a cui aveva lasciato la vista, riconoscendo loro il merito di essere stati così bravi da evitare di scontrarsi coi loro compagni. Tale è la raffigurazione della Divinità che il dogma della «predestinazione gratuita» ci suggerisce! Benché gli uomini si affannino a ripetere che il loro Dio è infinitamente buono, è evidente che, in fondo al cuore, non possono crederci affatto. Come amare quel che non si conosce? Come amare un essere la cui immagine non serve ad altro che a gettarci nell'inquietudine e nell'angoscia? Come amare un essere di cui tutto ciò che si dice contribuisce a darci una raffigurazione sommamente odiosa?” (62).

L’eternità delle pene dell’inferno rendono Dio “un essere detestabile, più malvagio del più malvagio degli uomini, un tiranno perverso”. (66)

Holbach non riconosce la distinzione fra religione e superstizione.

“Se ricaviamo il nostro concetto di Dio dalla natura delle cose in cui troviamo un misto di beni e di mali, questo Dio, stando al bene e al male che proveremo, dovrà logicamente apparirci capriccioso, incostante, ora buono, ora cattivo; e, per ciò stesso, invece di suscitare il nostro amore, dovrà far sorgere nei nostri cuori la diffidenza, la paura, l'insicurezza. Non c'è dunque alcuna vera differenza tra la religione naturale e la superstizione più cupa e servile. Se il teista non vede Dio che dal lato buono, il superstizioso lo vede dal lato più ripugnante. La follia dell'uno è lieta, la follia dell'altro è lugubre, ma tutti e due sono ugualmente deliranti”. (64)

Anche per Holbach il libero arbitrio umano non esiste.

“Per poco che si rifletta, si sarà costretti a riconoscere che l'uomo è necessitato in tutte le sue azioni e che il suo libero arbitrio è una chimera, anche nei sistemi dei teologi. Dipende dall'uomo di nascere o di non nascere dai tali o dai tali altri genitori? Dipende dall'uomo di assorbire o no le opinioni dei suoi genitori e dei suoi precettori? Se io fossi nato da genitori idolatri o maomettani, sarebbe dipeso da me diventare cristiano? Eppure dei maestri pieni di serietà ci assicurano che un Dio giusto condannerà senza misericordia tutti quelli cui non avrà elargito la grazia di conoscere la religione cristiana! La nascita dell'uomo non dipende in alcun modo da una sua scelta; nessuno gli ha chiesto se voleva venire al mondo o no. La natura non l’ha consultato quanto al luogo di nascita e ai genitori che gli ha dato. Le sue idee acquisite, le sue opinioni, le sue nozioni vere o false sono frutti necessari dell'educazione che ha ricevuto e che non ha deciso in alcun modo. Le sue passioni e i suoi desideri sono conseguenze necessarie del temperamento che la natura gli ha dato e delle idee che gli sono state inculcate. Durante tutto il corso della sua vita, le sue volizioni e le sue azioni sono determinate dai suoi rapporti con gli altri, dalle sue abitudini, dalle sue occupazioni, dai suoi piaceri, dall'ambiente in cui si trova, dai pensieri che gli si presentano senza che egli lo voglia: in una parola, da una moltitudine di eventi e di accidenti che sono estranei al suo potere. Incapace di prevedere l'avvenire, l'uomo non sa né quel che vorrà né quel che farà nell'istante che terrà dietro immediatamente all'istante in cui si trova. L'uomo arriva alla fine della vita senza che, dal momento della nascita fino a quello della morte, sia stato libero un solo momento”. (80)

Neppure Dio, se esistesse, sarebbe libero. “Dio stesso, se ammettiamo per un momento la sua esistenza, non può essere affatto considerato come un agente libero. Se esistesse un Dio, il suo modo di agire sarebbe necessariamente determinato dalle proprietà inerenti alla sua natura; niente potrebbe fermare o mutare le sue volontà. Ciò posto, né le nostre azioni, né le nostre preghiere, né i nostri sacrifici potrebbero sospendere o deviare il suo cammino invariabile e i suoi disegni immutabili. Si è costretti a trarne la conclusione che ogni religione sarebbe perfettamente inutile”. (84)

Anche l’esistenza dell’anima è un’ipotesi assurda. Ancor più assurda è l’idea che essa sia immortale. Il materialismo non è disonorevole per l’uomo.

“La stima che tante persone hanno per la sostanza spirituale non ha, a quanto pare, altro motivo che l'impossibilità in cui si trovano di definirla in modo comprensibile. Il disprezzo che i nostri metafisici mostrano per la materia proviene dal fatto che «la familiarità genera il disprezzo». Quando essi ci dicono che «l'anima è più eccellente e più nobile del corpo», ci dicono questo soltanto: che ciò che non conoscono in alcun modo dev'essere molto più bello di ciò di cui hanno qualche debole idea”. (106)

Un Dio universale avrebbe dovuto rivelare una religione universale. Tutte le religioni sono ridicolizzate dalle credenze opposte, ugualmente insensate, dei fautori delle altre religioni. Il Dio del deismo non è meno contraddittorio né meno chimerico del Dio dei teologi. I miracoli sono assurdi. “Pascal, per trarci d'imbarazzo, ci dice con tutta serietà che «bisogna giudicare la dottrina in base ai miracoli e i miracoli in base alla dottrina; la dottrina convalida i miracoli, i miracoli convalidano la dottrina». Se esiste un circolo vizioso ridicolo, è certamente quello contenuto in questo bel ragionamento di uno dei più grandi difensori della religione cristiana. Qual è la religione di questo mondo che non si vanti di possedere la dottrina più mirabile, e che non riferisca un gran numero di miracoli in suo appoggio?” (130)

La religione non aiuta la morale né frena le passioni, tantomeno quelle dei re e dei tiranni. Un re devoto è un flagello per il suo regno.

“Un sovrano sinceramente devoto è, di solito, un capo molto dannoso ad uno Stato. La credulità presuppone sempre uno spirito angusto; la devozione assorbe, quasi sempre, le attenzioni che il prìncipe dovrebbe dedicare al governo del proprio popolo. […] Tra i più funesti doni che la religione abbia fatto al mondo bisogna soprattutto annoverare questi monarchi devoti e bigotti, i quali, illudendosi di affaccendarsi per la salvezza dei loro sudditi, si sono fatti un sacrosanto dovere di tormentare, perseguitare, mandare a morte quelli che, in coscienza, la pensavano diversamente da loro. Un bigotto a capo di un impero è uno dei peggiori flagelli che il Cielo, nel suo furore, possa procurare alla terra”. (149).

A conclusione Holbach scrive:

“La religione, in ogni epoca, non ha fatto che riempire lo spirito umano di tenebre, e mantenerlo nell'ignoranza dei suoi veri rapporti, dei suoi veri doveri, dei suoi veri interessi. Solo mettendo in fuga le sue nebbie e i suoi fantasmi scopriremo le fonti della verità, della ragione, della morale, e i motivi reali che devono condurci alla virtù. La religione ci inganna, sia sulle cause dei nostri mali, sia sui rimedi naturali con cui potremmo ovviarvi; lungi dal guarire i mali, non può che aggravarli, moltiplicarli e renderli più durevoli. Diciamo dunque con un celebre autore moderno, nelle sue Opere postume: «La teologia è il vaso di Pandora; e se è impossibile richiuderlo, è almeno utile avvertire che questo vaso così funesto è aperto».” (206) 2

Note

1 Paul Thiry d’Holbach, Il buon senso, a cura di S. Timpanaro, Garzanti, 1985, § 8. Nelle citazioni successive il numero del paragrafo verrà indicato tra parentesi dopo il testo citato.

2 Il “celebre autore moderno” è Henry Saint-John Bolingbroke (1678-1751).

Torino 5 maggio 2014

Giuseppe Bailone ha pubblicato Il Facchiotami, CRT Pistoia 1999. Nel 2006 ha pubblicato Viaggio nella filosofia europea, ed. Alpina, Torino.

Nel 2009 ha pubblicato, nei Quaderni della Fondazione Università Popolare di Torino, Viaggio nella filosofia, La Filosofia greca.

Due dialoghi. I panni di Dio – Socrate e il filosofo della caverna (pdf) Plotino (pdf) L'altare della Vittoria e il crocifisso (pdf)

Testi di d'Holbach

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Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Teorici
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Aggiornamento: 26-04-2015