TEORICI
Politici Economisti Filosofi Teologi Antropologi Pedagogisti Psicologi Sociologi...


Hume: la religione

1 - 2 - 3 - 4 - 5 - 6 - 7 - 8 - 9 - 10 - 11

Giuseppe Bailone

Alle credenze religiose, Hume rivolge critiche radicali, ma in forme prudenti e in linea con tutto il suo pensiero, mai dogmatico. Al suo atteggiamento critico, inoltre, si accompagna un interesse costante per l’esperienza religiosa: lo studioso della natura umana vuole capire dove e come si radichi questa importante attività umana, cui dedica i Dialoghi sulla religione naturale, la Storia naturale della religione, L’immortalità dell’anima e una sezione sui miracoli nella Ricerca sull’intelletto umano.

I miracoli, per definizione, si basano su testimonianze che contrastano l’esperienza. Ci si aspetterebbe, pertanto, una generale diffidenza nei loro confronti; invece, gli uomini si lasciano facilmente sedurre da chi li racconta.

“La passione per il sorprendente e il meraviglioso che sorge dai miracoli, essendo un’emozione gradevole, ci dà una tendenza sensibile alla credenza in quegli avvenimenti dai quali essa deriva. E ciò arriva fino al punto che anche coloro che non possono godere questo piacere immediatamente né possono credere a tali miracolosi avvenimenti di cui vengono informati, tuttavia amano prendere parte a tale soddisfazione di seconda mano e di rimbalzo e pongono orgoglio e diletto nell’eccitare l’ammirazione altrui.

Con quale avidità si accolgono i racconti miracolosi di viaggiatori, le loro descrizioni di mostri marini e terrestri, le loro relazioni di avventure meravigliose, di uomini strani, di costumi insoliti! Ma se lo spirito di religione si unisce all’amore del meraviglioso, è la fine del senso comune; e la testimonianza umana, in queste circostanze, perde ogni diritto alla sua autorità. Un fanatico in materia di religione può essere un invasato ed immaginare di vedere ciò che non esiste; può sapere che le sue narrazioni sono false e tuttavia perseverare in esse, colle migliori intenzioni del mondo, con lo scopo di promuovere una causa così santa; o anche se non si verifica quest’allucinazione, la vanità, eccitata da una così forte tentazione, opera su di lui con maggior efficacia che sul resto degli uomini in qualsiasi altra circostanza; e con egual forza opera su di lui il vantaggio personale. Coloro che lo ascoltano non possono avere, e di solito non hanno, sufficiente giudizio per discutere la sua evidenza; e a quel giudizio che hanno, rinunciano per principio, in questi sublimi e misteriosi argomenti; o anche se lo volessero usare, la passione e un’immaginazione infiammata disturbano la regolarità delle sue operazioni. La credulità degli ascoltatori alimenta l’impudenza del fanatico, e l’impudenza di lui domina la loro credulità”.1

Come ci si dovrebbe, invece, comportare in queste situazioni?

“Quando uno mi dice – scrive Hume – che ha visto un uomo morto restituito alla vita, io considero immediatamente in me stesso quale delle due cose sia più probabile, che questa persona inganni o sia ingannata, oppure che il fatto sia realmente accaduto. Io peso l’un miracolo contro l’altro; e a seconda della superiorità che scopro, pronuncio la mia decisione e respingo sempre il miracolo più grande. Se la falsità della testimonianza fosse più miracolosa dell’accadimento che la persona in questione mi riferisce, allora e soltanto allora, essa potrà pretendere di imporsi alla mia credenza od opinione”.2

Nel breve saggio L’immortalità dell’anima, Hume smonta, con molta varietà di argomenti, quella che è una verità fondamentale della religione cristiana e che, scrive a conclusione, si può accettare solo come rivelazione divina.

“Tenendo conto dell’abituale andamento della natura e senza presupporre nessun nuovo intervento della Causa Suprema, che dovrebbe sempre essere escluso dalla filosofia, ne consegue che ciò che è incorruttibile dovrà anche essere ingenerabile. Se quindi l’anima è immortale dovrà essere esistita anche prima della nostra nascita, e se la sua precedente esistenza non ci riguarda, non ci interesserà neanche la successiva.

È fuor di dubbio che gli animali sentono, pensano, amano, odiano, vogliono e anche ragionano, sia pure in modo più imperfetto di quello dell’uomo; saranno dunque anche le loro anime immateriali e immortali?”.3

Tra i tanti argomenti morali che, secondo Hume, portano la ragione a respingere l’idea dell’immortalità dell’anima, troviamo i seguenti:

“La punizione, secondo l’idea che noi ne abbiamo, dovrebbe essere proporzionata all’offesa. Perché mai quindi ci dovrà essere una punizione eterna per delle colpe momentanee di una creatura tanto debole come l’uomo? Potrà forse qualcuno approvare la rabbia di Alessandro che voleva sterminare un’intera nazione perché si era impadronita di Bucefalo, il suo cavallo preferito?

Paradiso e inferno presuppongono due distinti tipi di uomini, i buoni e i cattivi, mentre la maggior parte dell’umanità oscilla tra il vizio e la virtù. […]

La fonte principale delle idee morali sta nel riflettere sugli interessi della società umana; interessi tanto limitati e frivoli dovranno essere difesi con punizioni eterne ed infinite? La dannazione di un uomo rappresenta nell’universo un male infinitamente maggiore che lo sconvolgimento di un miliardo di regni.

La natura ha reso la prima infanzia dell’uomo particolarmente debole e soggetta alla morte, quasi a negare esplicitamente l’idea di uno stadio di prova; infatti metà degli uomini muoiono prima di diventare creature razionali”.4

Tra gli argomenti fisici “decisamente a favore della mortalità dell’anima” torna, nelle pagine di Hume, il confronto con gli animali:

“Si ammette che le anime degli animali sono mortali; e poiché queste somigliano molto alle anime degli uomini, l’analogia tra le une e le altre costituisce un argomento molto solido. I loro corpi non si somigliano certo di più: pur tuttavia nessuno rifiuta gli argomenti trattati dall’anatomia comparata. Per cui la metempsicosi è l’unico sistema cui in questo campo la filosofia possa prestare attenzione”.5

Altro argomento fisico “decisamente a favore della mortalità dell’anima”:

“La nostra incoscienza prima della composizione del corpo sembra per la ragione naturale la prova di un’analoga condizione dopo la sua dissoluzione.

Se il nostro orrore per l’annientamento costituisce una passione originaria e non già l’effetto del nostro universale amore per la felicità, esso proverebbe la mortalità dell’anima. Infatti, poiché la natura non fa nulla invano, essa non ci avrebbe mai inculcato orrore per un evento impossibile; può farci provare orrore solo per un evento inevitabile, purché i nostri sforzi, come in questo caso, possano farlo spesso allontanare. La morte è in definitiva inevitabile; pur tuttavia la specie umana non riuscirebbe a conservarsi se la natura non ci avesse ispirato un’avversione contro di essa. Dobbiamo sospettare di tutte le dottrine favorite dalle nostre passioni; e sono del tutto ovvie le speranze e i timori all’origine di questa dottrina”.6

Nei Dialoghi sulla religione naturale, Hume esamina, alla luce della sua teoria della conoscenza umana, le prove che nel corso dei secoli filosofi e teologi hanno elaborato sull’esistenza di Dio.

La prova ontologica, proposta nel Medioevo da Anselmo d’Aosta e rilanciata in età moderna da Cartesio, è per lui un illecito tentativo di ridurre a una semplice relazione d’idee, come si fa nelle dimostrazioni matematiche, quella che, invece, è una questione di fatto, com’è quella dell’esistenza, anche nel caso dell’esistenza di Dio. Questa prova si regge sull’idea che l’esistenza di Dio, a differenza dell’esistenza di tutte le altre cose, sia necessaria, cioè sia determinata dall’essenza stessa di Dio, sia implicita nella sua definizione.

“Si pretende che la Divinità sia un Essere necessariamente esistente; e si cerca di spiegare questa necessità della sua esistenza affermando che, se noi conoscessimo in modo perfetto la sua essenza o natura, percepiremmo che per essa è così impossibile che non esista, come a due per due di non far quattro. Ma è evidente che questo non potrà mai accadere finché le nostre facoltà saranno quelle che sono al presente. Ci sarà sempre possibile, in un momento, concepire la non esistenza di ciò che precedentemente abbiamo concepito come esistente; né la mente può mai trovarsi nella necessità di supporre che un oggetto qualunque conservi sempre l’essere, come ci troviamo nella necessità di concepire sempre che due per due fanno quattro. Dunque, le parole esistenza necessaria non hanno senso, o, ciò che è lo stesso, non ne hanno uno coerente”.7

Per Hume, cioè, l’esistenza di una qualsiasi cosa è un fatto, un dato; non è materia di dimostrazione o di prova. Seguendo Hume, Kant dirà che dalla sola idea di cento talleri non si può ricavare la dimostrazione della loro esistenza, perché, concettualmente, cento talleri esistenti e cento talleri puramente pensati sono esattamente la stessa idea. Non basta cioè definire concettualmente i cento talleri per averli reali, magari in tasca propria.

Evidentemente chi sostiene il valore della prova condivide le conclusioni kantiane sui talleri, ma dice che l’esistenza in Dio non è come nei talleri e in tutte le altre cose, dice che gli è coessenziale. Hume e Kant, come molti altri filosofi, respingono questa differenza radicale fra l’esistenza divina e le altre: si tratta di un punto sul quale la filosofia si divide senza possibilità di una conciliazione. È una delle battaglie filosofiche senza fine.

L’altra prova smontata da Hume nei Dialoghi è quella del disegno intelligente.

Si tratta dell’antichissimo argomento cosmologico, che ai tempi di Hume godeva anche dell’autorità di Newton. Quest’argomento tenta di sfuggire alle difficoltà di quello ontologico, introducendo la considerazione dell’esperienza. Alla natura a priori di quest’ultimo sostituisce quella propria a posteriori: invece di partire dalla definizione concettuale di Dio, parte dai dati dell’esperienza mondana, per arrivare a dire che questi dati e l’ordine che essi manifestano rimandano a un loro creatore, a Dio.

Quest’argomento fa leva sulle idee di causa e di fine.

Abbiamo già visto che l’idea di causa nasce dall’abitudine ed ha valore solo probabile. Nelle prove dell’esistenza di Dio, essa viene usata in modo anche indebito, perché riguarderebbe il rapporto con una presunta realtà di cui non si ha esperienza, mentre il rapporto causale si stabilisce correttamente solo tra dati forniti dall’esperienza.

Hume osserva, inoltre, che i legami causali tra i fenomeni non possono essere utilizzati per dimostrare una causa prima: quando sia stata individuata la causa di ogni cosa che faccia parte di una ventina di cose, diventa insensato cercare la causa dell’intera ventina di cose; questa, infatti, è già data se sono date le cause particolari. A maggior ragione non ha senso cercare la causa di tutti fenomeni del mondo, in gran parte neppure noti.

L’argomento del disegno intelligente si avvale dell’idea di fine e considera il mondo come una grande macchina, composta di un numero infinito di macchine più piccole, tutte costruite per realizzare il fine proprio e quello della grande macchina che le comprende: questo grande complesso meccanico rinvierebbe a un suo autore, così come l’esistenza di una macchina prodotta dall’uomo rinvia all’uomo che l’ha fatta.

L’analogia tra il mondo e i prodotti dell’arte tecnica umana è molto discutibile: avvicinare un artefatto umano, come una casa, a qualcosa di così complesso e solo in parte conosciuto, come l’universo, si segnala per il suo vistoso antropomorfismo, che definisce l’intelligenza divina sul modello debole e limitato della ragione e della volontà umana. Inoltre, la prova rinvia a una causa proporzionata all’effetto; e poiché l’effetto è finito e non perfetto, la sua causa non è necessario che sia perfetta e infinita. Non è neppure necessario che sia unica, perché, in forza dell’analogia con i prodotti umani, il mondo potrebbe essere stato fatto da più divinità o demoni, così come una città è opera di molti uomini.

La religione non può avere una giustificazione razionale; non trae la sua forza dalla conoscenza e dalla razione, ma è una realtà importante nel mondo umano e, pertanto, va spiegata. Ed è quello che Hume cerca di fare con la sua Storia naturale della religione, riconducendo l’atteggiamento religioso ai sentimenti di paura e di speranza che agitano l’animo dell’uomo.

L’esperienza misteriosa della vita e della morte, la precarietà della salute e del benessere, il rischio permanente della malattia e della penuria di beni essenziali, portano gli uomini ad attribuire a forze segrete e diverse i beni che sperano e i mali che temono. Il politeismo è, pertanto, la forma primitiva della religione. Il monoteismo è, invece, il risultato di un lungo processo di sviluppo dell’attività religiosa: gli uomini, infatti, cercano di rendere onori sempre maggiori alle loro divinità e tendono a rappresentarsele in modo sempre più elevato e distinto dall’uomo. Al termine di questo processo c’è la rappresentazione di una divinità unica, perfetta e infinita, oltre la quale non è più possibile concepire nulla di superiore e di migliore.

Il monoteismo, però, preso in cura dai teologi e dai filosofi, libera sì, in parte, la religione dalla superstizione, ma anima l’intolleranza e il fanatismo, mentre nelle pratiche religiose popolari convive con il politeismo e la superstizione.

Il capitolo XIV, penultimo della Storia naturale della religione, è dedicato alla “cattiva influenza delle religioni popolari sulla moralità”.

“In qualsiasi religione, per quanto sublime sia la definizione esteriore della divinità, molti devoti – forse la maggioranza – tentano di propiziarsi il divino favore non con la virtù o con la moralità, che sole possono essere accette a un essere perfetto, ma piuttosto con futili pratiche, lo zelo intemperante, i rapimenti estatici, la fede in immaginazioni misteriose e assurde”.8

Hume contrappone la moralità alla superstizione.

“Qualunque indebolimento fisico, qualunque malattia stimola la superstizione; nulla la distrugge più di una virtù virile e salda, la quale ci preserva dalle sventure o ci insegna a sopportarle. Quando splende nell’animo il sole della serenità, questi spettri di falsa divinità non appaiono nemmeno.

D’altra parte, quando ci abbandoniamo ai suggerimenti naturali e indisciplinati del nostro cuore pavido e ansioso, il terrore che ci agita fa sì che ogni barbarie sia attribuita all’essere supremo; i metodi con cui cerchiamo di placarlo c’inducono ad attribuirgli ogni capriccio. Barbarie e capriccio: queste qualità, sebbene dissimulate a parole, costituiscono sempre il carattere dominante degli dei nelle religioni popolari. Anche i preti, anziché correggere tali idee depravate degli uomini, le alimentano e le incoraggiano. Quanto più terribile è rappresentata la divinità, tanto più l’uomo diventa soggetto ai suoi ministri. Quanto più ignote saranno le sue pretese, tanto più necessario sarà abbandonare la nostra ragione naturale e lasciare che esse guidino la nostra mente. Ma bisogna dire che se gli artifizi umani aggravano le nostre infermità e le nostre naturali follie, queste non debbono la loro origine a tali artifizi. Le loro radici penetrano più a fondo nello spirito e si insinuano nelle proprietà essenziali e universali della natura umana”.9

Non basta combattere le imposture per debellare la superstizione: bisogna fare bene i conti con la natura umana e le sue passioni più profonde. Un valido aiuto può venire solo dalla filosofia e dalla moralità.

“Tutto è ignoto: un enigma, un inesplicabile mistero. Dubbio, incertezza, sospensione del giudizio – scrive Hume a conclusione della sua Storia naturale della religione – appaiono l’unico risultato della nostra più accurata indagine in proposito. Ma tale è la fragilità della ragione umana, e tale il contagio irresistibile delle opinioni, che non è facile tener fede neppure a questa posizione scettica, se non guardando più lontano e opponendo superstizione a superstizione, in singolar tenzone; intanto, mentre infuria il duello, ripariamoci felicemente nelle regioni della filosofia, oscure ma tranquille”.

Note

1 D. Hume, Ricerca sull’intelletto umano, sez. X, in Opere filosofiche II, ed. Laterza 1996, p. 124.

2 Ib. p. 122.

3 D. Hume, L’immortalità dell’anima, in Opere filosofiche III, ed. Laterza 1987, p. 576.

4 Ib. pp. 579- 80.

5 Ib. p. 582.

6 Ib. p. 583.

7 D. Hume, Dialoghi sulla religione naturale, parte nona, in Opere filosofiche IV, ed. Laterza 1987, p. 195.

8 D. Hume, storia naturale della religione, in Opere filosofiche IV, ed. Laterza 1987, p. 107.

9 Ib. p. 110.


Fonte: ANNO ACCADEMICO 2013-14 - UNIVERSITA’ POPOLARE DI TORINO

Torino 27 gennaio 2014

Giuseppe Bailone ha pubblicato Il Facchiotami, CRT Pistoia 1999.

Nel 2006 ha pubblicato Viaggio nella filosofia europea, ed. Alpina, Torino.

Nel 2009 ha pubblicato, nei Quaderni della Fondazione Università Popolare di Torino, Viaggio nella filosofia, La Filosofia greca.

Due dialoghi. I panni di Dio – Socrate e il filosofo della caverna (pdf)

Plotino (pdf)

L'altare della Vittoria e il crocifisso (pdf)

Fonti

Critica

Download


Web Homolaicus

Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Teorici
 - Stampa pagina
Aggiornamento: 26-04-2015